Yoga è una maniera di preparare le polpette. Tentativo imperfetto di rispondere alla domanda: “Cos’è lo Yoga?”

di Simone Lisi

© Devis Bergantin, Studio, 2021, fineliner su carta.

Una delle conseguenze di aver scritto un romanzo che parla di yoga (sebbene “romanzo che parla di yoga” sia forse riduttivo) è che sei subito chiamato ad assurgere al ruolo di auctoritas sull’argomento.

L’altra sera per esempio ero in una piazza della mia città e stavo bevendo una birra in compagnia di amici, quando si è avvicinato un ragazzo che non vedevo da molto tempo. Era diverso da come lo ricordavo. Appariva più magro e asciutto nel fisico, più muscoloso. Anche l’abbigliamento era cambiato, in uno stile semplice, essenziale. Infine lo sguardo era fermo e come accompagnato da una speciale lentezza che si posava sulle cose. No, non era diventato un tossicomane.

Ho capito da quei pochi tratti che si era avvicinato al mondo dello yoga e che (panico) stava per rivolgermi una domanda sull’argomento.

«Ciao Simone. Ho visto che hai scritto un libro sullo yoga. No, non l’ho letto, ma vorrei chiederti cosa ne pensi di…» e ha nominato una certa tipologia di yoga.

Apro una parentesi per chi non sapesse di cosa si parla qui. Esistono svariati tipi o stili di yoga, alcuni più famosi, altri meno. Alcuni di questi prendono il nome dal maestro o dalla maestra che li ha “canonizzati”, ovvero da chi ha fissato certe sequenze o ha posto l’accento su certi temi, per esempio la respirazione. Ça va sans dire che spesso le diverse correnti o scuole sono, in maniera più o meno esplicita, in competizione tra loro, poiché ciascuna di esse si fa portavoce del “vero” o “autentico” yoga. Questa è un’affermazione che nessuno sosterrà mai, ma è così, sebbene sia una cosa ridicola visto che, ovviamente, non esiste nessun campionato del mondo di yoga, ma come è noto si fa uscire l’ego dalla porta e (spesso) rientra dalla finestra. Chiusa parentesi.

Di fronte alla domanda del vecchio amico su un certo stile di yoga (stile che, ho dedotto, fosse quello  che praticava lui), io rispondevo in maniera un po’ provocatoria, con una frase che avrebbe potuto pronunciare mio padre, il quale pratica e insegna yoga da molti anni e che ha quindi un’attitudine un po’ ironica verso le grandi infatuazioni e verso i cambiamenti che non siano lenti e graduali.

La critica che muovevo al vecchio amico era che lo stile di yoga che stava praticando era prevalentemente fisico, mentre lo yoga era molto altro (“più sottile” avrebbe detto mio padre), poiché comprendeva una parte legata alla respirazione e una, ancora più difficile da raggiungere, legata alla meditazione. Riassumendo, dicevo al mio vecchio amico che, a prescindere da quale tipo di yoga lui praticasse, poiché faceva yoga da un anno, la sua era la pratica di una persona in prima elementare (frase che mio padre aveva rivolto a me in un altro periodo della mia vita). L’amico non la prendeva benissimo.

Mi faceva notare con quanta costanza vi si dedicasse quotidianamente. Sottolineava come già dedicasse alla respirazione una parte importante del suo yoga, legando ogni movimento a un respiro, etc. etc.

A niente valeva lo sforzo di addolcire la mia affermazione, dicendo che le elementari erano delle scuole bellissime. Che il periodo più felice della mia vita era stato proprio quello (presso la scuola Giovanni Boccaccio, a Firenze: le ricreazioni in giardino, i lunghi pomeriggi in biblioteca…) e che ogni giorno della mia vita avrei voluto tornare a quel tempo dorato.

A nulla serviva il ragionamento ulteriore, ragionamento che avevo sentito fare una volta a lezione dalla famosa insegnante Gabriella Cella, ovvero che si era sempre principianti, chiunque noi fossimo e qualsiasi fosse il nostro grado e livello; neppure quello riusciva a far sciogliere le braccia incrociate del vecchio amico.

Dopo un po’ mi allontanavo da lui con la sensazione di non essere riuscito a esprimere bene il mio pensiero, ma di averlo banalizzato e di essere risultato superficiale e anche un po’ stronzo.

Se adesso per qualche motivo stai leggendo qui: mi dispiace, Checco.

© Devis Bergantin, Studio, 2021, fineliner su carta.

In ogni caso, è una cosa alquanto buffa che io sia chiamato a rispondere a domande del genere, domande di carattere generale sullo yoga, o sui diversi stili di yoga, dal momento che in effetti non sono neanche lontanamente un maestro di yoga, né uno studioso dell’argomento, pertanto qualsiasi domanda troppo seria dovrebbe essere da me elusa, o respinta.

L’altra sera è accaduto con il vecchio amico; poi di nuovo, il giorno successivo, in un’intervista sul mio romanzo, dove alquanto candidamente, mi si chiedeva: «Ma quindi ci vuol spiegare che cos’è lo yoga?».
Era una domanda impossibile, non solo per me, ma per chiunque, però in questo strano mondo in cui viviamo, a volte ti vengono rivolte domande a cui devi dare una risposta senza stare troppo a ricamarci sopra. Funziona così.

Davo quindi all’intervistatore la risposta più semplice e lineare possibile: «Lo yoga è una pratica bi-millenaria, nata in India, etc. etc.», come in fondo ci si aspettava da me.

Solo che poi la domanda mi è rimasta impigliata addosso per tutto il giorno. Cos’è lo yoga?, mi chiedevo ore dopo, mentre svolgevo le mie faccende domestiche.

© Devis Bergantin, Studio, 2021, fineliner su carta.

Anche queste faccende domestiche sono yoga, mi dicevo. Stavo preparando delle polpette per cena, grattugiavo delle zucchine, univo il parmigiano al pan grattato senza glutine. Facevo tutto con grande esattezza e spontaneità, dopo che già alcune altre volte in passato avevo provato a fare delle polpette senza glutine e le cose non erano andate molto bene. Ma questa volta era differente, stavolta sembrava venire tutto alla perfezione, e in effetti il risultato era eccellente, oltre che molto bello da vedersi.

“Ecco cosa avrei dovuto rispondere in quell’intervista: yoga è una maniera di preparare le polpette”, mi dicevo.

Dopo avere infornato e ripulito tutto, avevo però un’altra specie di illuminazione. Di fronte al dubbio, per pigrizia, se cambiare il sacco della spazzatura o no, e se sì, se mettere un sacco nuovo, capivo, con improvvisa lucidità, che proprio quei gesti erano “fare yoga”.

Non tanto il preparare le polpette, che era ormai per me un’occupazione semplice e piacevole, quanto piuttosto ciò che sulle prime mi era risultato sgradito: cambiare l’immondo sacco della spazzatura e sostituirlo con uno nuovo. Quello sì che era veramente yoga!

La sera, a cena, mentre mangiavamo le polpette di zucchine, ne parlavo con la mia compagna Diana. Lei diceva: «Secondo il tuo ragionamento io allora praticherei molto yoga».

Perché in effetti, sebbene le faccende domestiche siano divise in modo molto attento e equilibrato tra noi due, la spazzatura la porta via più spesso lei.

«In effetti no. Non è così» le rispondevo.

«Come no? Stai forse contestando che io butti la spazzatura più spesso di te?»

«Mai e poi mai» le rispondevo, addentando l’ennesima polpetta. «Sto contestando il fatto che buttare la spazzatura per te sia equivalente a buttare la spazzatura per me».

«In che senso?»

«Vedi, il punto» le dicevo «non è chi butta la spazzatura più volte. Il punto non è nemmeno che yoga sia preparare le polpette o buttare la spazzatura. Il punto è che yoga sarebbe avere consapevolezza di quello che facciamo. E poi dimenticarlo».

«Addirittura. Non starai un po’ semplificando?»

Diana aveva ragione, lo stavo facendo di nuovo. Ma la vita è questa, pensavo: bisogna rendere semplice ciò che è complesso. Dire in poche parole ciò che ne richiederebbe moltissime, specialmente a una cena, o quando esci a bere una birra e incontri un vecchio amico.

«Io credo, Diana, che yoga sia letteralmente tutto» aggiungevo in un sussurro.

«Tutto? Certo, come no» diceva lei, facendo un lieve sorriso saggio e addentando un’altra polpetta. «Il punto, caro Simone, è che tu non hai la più pallida idea di cosa sia lo yoga. Ammettilo».

Era vero, io non sapevo cosa fosse lo yoga, ma forse nessuno in Occidente lo sa con esattezza.

Così nel giro di ventiquattrore avevo litigato con un vecchio amico, perso l’occasione di rispondere in modo brillante in un’intervista, e discusso a cena con la mia compagna Diana.

E tutto per colpa dello yoga.

No, non so cos’è lo yoga. E non ho neanche scritto un libro che parla di yoga.

Ma le polpette… le polpette quella sera erano deliziose.

Simone Lisi (Firenze 1985) libraio e scrittore. I suoi racconti brevi sono usciti su Verde Rivista, L’inquieto, Scrittori Precari, CrapulaClub. Nel 2014 ha fondato con tre amici il collettivo In fuga dalla Bocciofila. Ha pubblicato due romanzi con la casa editrice effequ.

Le illustrazioni di Devis Bergantin sono concrezioni vegetali, spugne, coralli. Appunti presi su un taccuino come i botanici dell’Ottocento, con la precisione di un anatomista. Le linee compongono forme che non riportano a niente, che stanno all’opposto della narrazione e che, proprio per questo, finiscono per descrivere un mondo altro: il mondo sottomarino, il mondo umido delle grotte.

Il bianco della pagina prevale sul segno, che occupa i bordi e sembra provenire dall’esterno come un fungo, una pianta infestante. Un segno che a forza di espandersi si trasforma in vita.

Devis Bergantin (1984) è artista outsider, con particolare predilezione per il disegno, la glitch art e la scrittura brevissima, sia in prosa che in versi. Per prendere visione delle sue opere, del suo CV (anche letterario) ed artist statement: https://dbergantin.tumblr.com/, @devisbergantin. Fa parte del collettivo indipendente Raw Art Foundation di Francoforte sul Meno, il quale si occupa di sostenere la creatività artisti autodidatti. È uno dei due curatori del progetto di scrittura-ai-margini dal nome La briciola squisita (https://labriciolasquisita., @labriciolasquisita), cioè un archivio fotografico di testi autografi integrati con materiale artistico-visuale.

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