a cura di Mario Emanuele Fevola

© Marco Iannone
Partire da Napoli.
Una conversazione tra Pier Paolo Polcari e Mario Emanuele Fevola
Per lo Spiraglio di Monica Acito, “Il mare non bagna Forcella: il sangue, il mostro e Anna Maria Ortese” la Redazione di In Allarmata Radura incontra Pier Paolo Polcari, storico music-designer e fondatore degli Almamegretta, promotore di un nuovo progetto, “Globalista”, con il quale Cumbia, Funk, melodia mediterranea e ritmi africani si concretizzano in musicalità nuove e futuristiche, con un orecchio al passato e uno al futuro.
Abbiamo pensato che la sua musica, e l’intervista che ci ha rilasciato, accompagnino in maniera perfetta le parole di Monica Acito.
Qui per ascoltare “Globalista”:
M.E.F.: Dal 1991 segui gli Almamegretta nella loro evoluzione e composizione musicale. Dal Reggae al Dub, alla World Music e l’Hip-hop. Da contraltare alla musica, la lirica napoletana che ha sempre contraddistinto i testi del gruppo. Che spazio trova Napoli in questo gioco? E qual è l’importanza che la musica trova in questo rapporto?
P.P.P: La mia crescita professionale e tutto il percorso intrapreso dagli Almamegretta sono fortemente influenzati dalla nostra città di provenienza.
Napoli ha svolto storicamente un ruolo di snodo culturale. Parliamo di un luogo che ha sviluppato le più importanti avanguardie e questo senza mai perdere le proprie forti caratteristiche. Inoltre, in quanto “città porosa”, si è sempre prestata allo scambio, all’accoglienza, e quindi, anche in ambito musicale, partire da Napoli per combinare il suono della nostra tradizione con altro mi è/ci è parso un percorso naturale .
La nostra semplice ricetta è sempre stata quella di miscelare ciò che ascoltavamo alla radio o nei dischi con ciò che ascoltavamo alle feste popolari della nostra regione, senza curarci troppo della “purezza” di quello che stavamo suonando, evitando insomma di raccontare la nostra terra attraverso riproposizioni tout-court , che non ci hanno mai interessato. Questo è quello che abbiamo messo in pratica in termini concettuali così come in termini meramente stilistici.
M.E.F.: Nella tua carriera hai collaborato, tra i tanti, con Lucio Dalla, Pino Daniele, Massive Attack, Lethfield e Adrian Sherwood. Quanto è stato fondamentale e importante per te il confronto con simili artisti? Ne ricordi qualcuno in particolare?
P.P.P: Il confronto con grandissimi artisti, ma anche con quelli sconosciuti, è stato un forte stimolo a migliorarmi e ad approcciare questo lavoro con curiosità e attenzione per ciò che mi arrivava dall’esterno.
Credo fermamente che lo scambio, se orizzontale, è il sale di quella che viene comunemente definita “crescita professionale”. Mi ritengo fortunato ad aver avuto la possibilità di collaborare con decine e decine di brillanti musicisti e da ognuno di loro ho provato a imparare qualcosa.
Il lavoro in studio di registrazione è sempre stato quello che mi ha interessato di più e quindi gli artisti che ricordo con più affetto sono soprattutto i grandissimi producer con i quali ho condiviso i miei progetti più importanti: Ben Young, Adrian Sherwood, Bill Laswell, Nick Page. Da ognuno di loro ho imparato cose che metto in pratica quotidianamente nel mio lavoro.
M.E.F.: La tua evoluzione musicale e la tua carriera sono cominciate a Napoli, con l’orecchio sempre rivolto alle sonorità americane e transoceaniche di stampo caraibico. Nel tuo ultimo progetto, Globalista Mix Tape, c’è un approdo al concetto di Africa e di globalismi, passando per la Cumbia, come se certe musicalità muovessero il ritmo del sangue. C’è un significato particolare in questo?
P.P.P.: La ricerca che sto facendo in questi anni, anche attraverso il progetto Globalista, si concentra sulla musica elettronica vista da un’angolazione diversa da quella alla quale siamo abituati. La commistione tra strumenti e tecnologie contemporanee e il nostro humus più ancestrale, la possibilità di raccontare le proprie radici culturali e metterle in musica servendosi degli strumenti e dei linguaggi del nostro tempo. Evitando rappresentazioni museali senza però perdere di vista ciò da cui proveniamo, che poi è sempre stata la chiave di lettura della musica popolare. Questa modalità del tutto nuova sta spingendo la musica elettronica verso nuovi territori, anche fisici, e questo approccio che mi piace definire “organico” si sta traducendo in una globalizzazione virtuosa in ambito musicale, in un abbattimento di barriere e confini che considero assolutamente decisivo come risposta, anche culturale, al fiorire dei nuovi e inquietanti sovranismi ai quali stiamo assistendo in questo inizio millennio.