Il mare non bagna Forcella: il sangue, il mostro e Anna Maria Ortese

di Monica Acito

© Marco Iannone

La scrittura e il sangue

Io nella vita ho conosciuto prima la scrittura e poi le mestruazioni.
Ho iniziato a scrivere da piccola e non mi interessa niente di quello che pensate di questa mia affermazione, perché io non voglio più chiedere scusa a nessuno: ho chiesto scusa per anni alle mie compagne di classe e adesso non chiedo scusa nemmeno più al Padreterno sceso dalla croce.
Io sono così, scrivo da quando puzzavo di latte, non conosco altro modo di campare, e dopo tutto quello che ho passato non devo di certo chiedere scusa a voi, se questa mia affermazione vi disturba la digestione o vi rovina la giornata.
Adesso le mie compagne di classe sono tutte fallite, madri dall’età di sedici anni o, nella migliore delle ipotesi, morte; forse alcune di loro le ho ammazzate io, o forse vorrei averlo fatto, ma la verità è che all’epoca io avevo paura della mia stessa ombra e loro solo con uno sguardo mi sbriciolavano come tufo, sabbia vulcanica, pietra pomice. 

In quinta elementare, tutte le mie compagne di classe avevano le mestruazioni tranne me.
Dal buco che io avevo tra le cosce, invece, usciva soltanto la pipì e niente più. Quando andavo in bagno mi guardavo ossessivamente le mutande, sperando di trovarci un puntino di fragola, un’impronta di amarena, polvere di coccinella, ma dentro ci trovavo soltanto la criatura che ero e che pensavo sarei rimasta per sempre.
Accovacciata sul cesso, mi sfilavo le mutande, ne ispezionavo il tessuto e poi ci sputavo sopra, per avere quel senso di bagnato tra le gambe che sentivano tutte le mie amiche. In quel caldo umido di saliva tra le cosce, io volevo essere tale e quale a loro.
Una volta una di loro si era presentata a scuola con il grembiule tutto striato di sangue e un sorriso di trionfo sul volto: le maestre la chiamavano signorina e le davano cioccolatini. Sembrava uscita dalla puteca del macellaio, pareva che avesse scannato tutti gli animali della Campania e che il sangue si fosse raggrumato a chiazze sul suo grembiule: e invece era il sangue di una femmena, una in più che mi guardava dall’alto in basso.
Io ero la criatura, quella più piccola delle altre; quella che si mangiava le unghie e si scorticava le pellicine, tirandole via con i denti; quella che era amata dalle maestre e dalle professoresse ma non dalle compagne; mi dicevano che ero la prima della classe e le mie compagne, tutte più alte e femmene di me, mi calcolavano soltanto per farsi passare i compiti di grammatica o gli appunti di italiano. 

Ogni tanto, in quinta elementare, mi nascondevo sotto una rupe a strapiombo a fumare le sigarette che mi fottevo dalla borsa di mia madre: una volta una vecchia mi vide e mi puntò il bastone contro, urlandomi addosso: «Se continui a fumare a quest’età, ti si ferma lo sviluppo, non cresci e non ti escono manco i minnucci, rimani racchia per tutta la vita».
Racchia, rimarrò racchia, pensavo.
Io continuavo a fumare, e in ogni boccata di fumo aspirato male, sentivo il catrame e le consonanti dure di racchia, i polmoni acerbi e accartocciati, la femmena che non nasceva e che si disperdeva in tanti ghirigori di fumo, l’invidia e la rabbia e la voglia di sentirmi bagnata tra le cosce, la voglia di tornare a casa, sfilarmi le mutande e vederle rosse come se fossero state intinte nella porpora o nella tinozza dove mia nonna metteva le interiora dei tacchini; rosse, per urlare a quelle cesse delle mie compagne che ero femmena anche io; rosse, per sventolargliele sotto il naso, inserirle sotto il loro cuscino, fargliele mangiare, masticare e sputare, così come sputavo io.
Quando facevo la quinta elementare, tutto quel sangue che non mi usciva dalla fessa, iniziò a uscirmi dalle mani. No, non ero diventata Padre Pio, non c’avevo le stigmate, non facevo miracoli; semplicemente, mi accorsi che iniziai a jettare il sangue anch’io: solo, in un altro modo.
Fu quella l’età in cui cominciai a scrivere. Il sangue, raggrumato da qualche parte dentro di me, iniziò a sciogliersi e diramarsi in ragnatele di inchiostro: c’è chi parla di folgorazioni sulla via di Damasco, di angeli che sono apparsi in sogno e hanno consegnato una penna, chi parla di sacre vocazioni, io invece non mi ricordo nemmeno come è successo. So solo che è stato sempre così: se penso a me in quinta elementare vedo soltanto una bambina che era stitica dal pube e che gettava il sangue sui fogli.
Non me l’ha imposto o suggerito nessuno, non l’ho visto fare a nessuno, perché tutta la cultura che ho me la sono procacciata da sola; è soltanto un ricordo primitivo incastonato nell’alba dei tempi della mia memoria, uno scarafaggio più antico del mio primo sangue mestruale.
Come è successo? Come ho fatto? Mi veniva naturale, non mi costava fatica, mi raccontavo bugie, mi intrattenevo da sola. Ogni volta che dico a qualcuno che ho iniziato a scrivere da piccina, tutti quanti si aspettano da me una favola autocelebrativa con dei passaggi precisi, che io riesca a isolare il punto in cui tutto è iniziato, come per ricavare un copione o una ricetta, ma non è così: io so solo che i fogli si inzuppavano del mio sangue e del mio scrivere. C’è gente che racconta di aver iniziato a vent’anni, trent’anni, quarant’anni, e io penso: “Ma come hanno fatto? Io mi sarei buttata dalla rupe molto prima”, e ancora oggi, se rimango anche solo cinque giorni senza scrivere, inizio a sentire un malessere serpentino, un’ossessività, una freva che non mi fa campare bene. Le persone dicono che il mio rapporto con la scrittura è tossico, ma ormai oggi è tutto tossico.
Sì, ho un rapporto tossico con la scrittura: sto psicologicamente una chiaveca se non scrivo, e non sono capace di avere rapporti umani soddisfacenti, divento monosillabica, fumo più del solito, ogni cosa ormai è cannibalizzata dalla scrittura.
Spesso ho chiesto a mia madre: «Ma come ho iniziato? Me lo dici?». Lei mi risponde soltanto: «Non lo so, ma so soltanto che ti mettevi scuorno».
Nel giro di qualche tempo, sono diventata la criatura a cui il ciclo non veniva, ma che invece scriveva. La criatura con l’apparato genitale lento, ma le mani veloci e fantasiose. Mi vergognavo come una ladra, mi sentivo un fenomeno da baraccone, una mentitrice, una barzelletta di sé stessa, e le mie compagne mi odiavano ancora di più. Le maestre e le professoresse delle medie inviavano le mie cose ai concorsi letterari per ragazzini, spesso vincevo o arrivavo in finale ed ero contenta, di una gioia infantile che mi faceva zompettare, perché era soltanto mia e di nessun altro. Io a scrivere mi divertivo, mi sentivo amata, era come se avessi scoperto una cosa che mi procurava una gioia liquida che non ho più ritrovato in nient’altro, però sapevo che in qualche modo mi dovevo giustificare, chiedere perdono in carta bollata e stampata. Col tempo mi sono chiesta perché tutte le mie compagne mi odiassero così tanto e per anni non sono riuscita a rispondermi. Poi un giorno l’ho capito: a loro sarebbe piaciuto che io passassi i miei pomeriggi in sala giochi, a fare la criaturella che non rispondeva mai a nessuno, che dicesse a tutte loro quanto erano brave e belle, che si mettesse a venerare Paola, la loro capetta assoluta, divina e sacrale. Dovevo recitare la parte della bambina un po’ fessacchiotta che incassava ogni cosa e non aveva mai niente da avanzare. Anche a Paola piaceva scrivere, o almeno così diceva, e ripeteva sempre: «Io voglio vincere tutti i concorsi, li devo vincere io, io sono brava». Aveva una fronte larghissima, sembrava un lenzuolo bianco e aperto sopra gli occhi, in cui io ci leggevo tutto lo schifo che aveva per me. La scrittura era il mio giocattolo ma lo dovevo tenere accovato sotto la maglia; potevo essere contenta ma non farmi vedere da loro, perché poi in classe mi ritrovavo con una sfilza di musi lunghi, io parlavo e loro dicevano «Chi ha parlato?» e ridacchiavano.  Per farmi perdonare, un giorno portai a scuola dei dolcetti e dei biscottini, e loro fecero una faccia schifata: non li avrebbero mangiati. La madre di Paola venne persino a dirmi: «Ma perché li fai sempre tu questi concorsi? Li deve fare anche Paola, lei è più brava di te». Io le chiesi scusa e smisi di farli per dare spazio a Paola e lei partecipò con un racconto che mi aveva rubato da sotto il banco: arrivò seconda, e la madre le organizzò una festa ai saloni comunali.
Una volta ero arrivata in finale a un concorso a Roccapiemonte, in provincia di Salerno. Facevo la prima media e il ciclo ancora non ce l’avevo: avevo però, sulla faccia, una graziosa ragnatela acneica e le tette somigliavano ancora a quelle di mio padre, più che a quelle di mia madre. Mi ero fatta comprare dei vestiti nuovi, di marca Phard, ma una volta arrivata alla sede del concorso non ero voluta salire sul palco, e pretendevo che ci salisse mia sorella quasi gemella, che aveva la mia stessa voce e parlava a cantilena come me, tanto nessuno ci avrebbe riconosciute, erano tutti vecchi e miopi.
Le mie compagne mi odiavano sempre di più, presero a strapparmi i fogli dei racconti dicendo che erano tutte strunzate di una criatura e mi vedevano come una sorta di scherzo del globo terracqueo: la scrittura, che mi faceva sentire bene e che mi piaceva, era qualcosa che mi rendeva immeritevole non dico dell’amore degli altri, ma anche dell’invito a mangiare un gelato.
«‘A scrittrice… che ‘vvuò fa’? Al massimo puoi scrivere sulla carta igienica». Ricordo feste di compleanno vuote, gite scolastiche in disparte e seduta davanti, vicino alla professoressa, estati passate da sola sul letto, la mia unica amica era mia madre, che tra l’altro lavorava dalla mattina alla sera e potevo starci poco. A volte credo che io mi sia dedicata con così tanto vigore, ostinazione e rabbia alla scrittura perché per anni ho avuto letteralmente solo quello, e spesso questa sensazione ce l’ho ancora. Di avere, per davvero, solo questo.

© Marco Iannone

Napoli e il disorientamento

Un giorno mio padre mi disse: «Vieni con me che ti faccio vedere una cosa bella».
Facevo la terza media, ero prossima al quarto ginnasio. Di quel giorno, ricordo soltanto il mare che si accartocciava in tanti riccioli d’argento. Il mare odorava di bestia cruda. Avevo accompagnato mio padre a fare la spesa per la sua piccola attività e avevamo la macchina piena di cose, io mi ero dovuta fare piccina piccina per starci dentro. Papà, così come mamma, con me non ci stava mai, lavorava sempre e ci vedevamo solo il lunedì, il giorno di chiusura della sua attività. Quel giorno mi aveva portata al Borgo Marinari, ma solo per un po’, perché poi doveva tornare al lavoro, dove sarebbe stato fino all’una di notte. Ricordo che guardavo il mare e mi bruciavano gli occhi, sentivo qualcosa che mi scottava le pupille: certo, io conoscevo già Napoli, ma era la prima volta che Napoli smetteva di essere un’idea e saliva a galla nella mia coscienza di criatura che non aveva il ciclo, ma a cui lacrimavano gli occhi che fissavano l’orizzonte. Sentii come se qualcosa mi stesse gocciolando da dentro, come se tutte le mie lacrime si stessero increspando nel golfo come cavalloni; capii che qualcosa mi piangeva all’interno, nello stomaco, e se ne scendeva in scrittura anziché in sangue mestruale. E tutto questo mi disorientava assai: mi disorientava la città, il golfo, l’acqua, la mia stessa faccia che vedevo nelle onde scure, il viso di una criatura che s’era sempre sentita un mostro e un fenomeno da baraccone, come la città di Napoli, mostruosa, spettacolare e funebre.
Provai una sensazione tentacolare, limacciosa, che non riuscivo a decifrare, mi girava la testa: Napoli era un mostro che si presentava alla mia coscienza di criatura senza ciclo, così come ero mostro io, un mostro disorientato, che doveva passare la vita a chiedere scusa alle persone.
Quel disorientamento scivolò in una parte del mio corpo, sotto l’epidermide, gocce nere e pesanti come il nero della seppia, scure come l’inchiostro che era l’unico mio spasso e che mi faceva schifare da tutte le mie compagne.
Tornammo in macchina, io stipata contro tutti gli oggetti che papà aveva comprato: ero accovacciata in una macchina che bruciava di sole, mentre cercavo di contenere il mare e il disorientamento che avevo visto. Per tutto il viaggio mi sono sentita bagnata tra le cosce: ho dovuto chiedere a papà di fermarci in un brutto bar, perché avevo le mutande macchiate di una cioccolata scura e pastosa.
Non avevo assorbenti con me, e mi ficcai nelle mutande una manciata di fazzoletti Tempo appallottolati. Non riuscivo a camminare correttamente, e tornai in macchina incespicando a gambe aperte. Nemmeno con il sangue tra le gambe sarei stata una di loro, perché io ero quel fenomeno da baraccone e zimbello a cui bisognava strappare i fogli, perché i mostri vanno puniti, lasciati da soli, e mi si sviluppò una fame brutta e vorace proprio al centro del petto. Capii che quello che mi rendeva davvero diversa da loro non era il non avere le mestruazioni, ma qualcosa di più spesso e tosto di uno strato di sangue, più duro di qualsiasi menarca.
Sentivo che nel mio corpo si era illuminato qualcosa di piccolo, un bucherello da cui poteva passare l’aria. Aria, ora d’aria, un disorientamento che aveva il profilo frastagliato delle isole, dei vulcani e delle stelle fisse, ma cosa sfaccimma era non lo sapevo, e per tutti quegli anni ho continuato a scrivere, sempre sentendomi un mostro, rimanendo la maggior parte del tempo da sola, con la fessa che stavolta mi sanguinava, ma quel sangue vivo era l’unica cosa che mi faceva ombra.


La mia Via Crucis

Dopo il liceo, me ne andai ad abitare nel borgo Orefici a Napoli, in un palazzo sgarrupato dove non c’era l’acqua calda, e la mia coinquilina era una calabrese scappata di casa, che nascondeva il fidanzato nell’armadio. Ho cambiato sette case, tutte stazioni di una mia Via Crucis personale che alla fine mi ha portata anche vicina a Montecalvario, che mi faceva pensare al Golgota e alle croci dove erano appesi i due ladroni insieme a Cristo.
Prima stazione a borgo Orefici, seconda stazione a via Medina, terza stazione in due punti diversi di Piazza Borsa, quarta stazione in via Miroballo al Pendino, quinta a san Biagio dei Librai, giramiento ‘e capa, sesta e settima stazione a Forcella, da dove non me ne sono più voluta andare.
A Forcella ho fatto amicizia con una vecchia che si faceva chiamare Nunziatina Trick Track, che vendeva sigarette di contrabbando e mi regalava dei pacchetti con scritte bulgare, rumene, russe, e mi diceva che dovevo intostare il cuore, perché nessuno nella vita m’avrebbe avanzato niente. Ci sedevamo nel vicolo, su sedie di plastica bianche e mezze rotte, e parlavamo di cose sporche, mariti morti schiattati e santi che erano i primi figli di puttana, mi sorrideva con la sua bocca sdentata e mi svelava i segreti per fare i bucchini migliori agli uomini. Io all’epoca ero donna, ero diventata bella, e tutto quello che so sugli uomini l’ho imparato da lei.
Il mare non bagna Forcella, perché per arrivare al mare bisogna farsi un bel pezzo a piedi: nella via Furcillensis ci sono soltanto i cippi, le mura scrostate, i vichi che sono della Tofa e delle Zite, le edicole votive che di notte sono come fari azzurri che illuminano la strada col sorriso di una Madonna, i fuochi d’artificio di notte.
Il mare non bagna Forcella, ma lo spaesamento e il disorientamento sì, la inzuppano, la infradiciano di acqua sporca. Forcella non lo vede il mare, ne sente soltanto la brezza lontana, ogni tanto arrivano i gabbiani a posarsi sui tetti, ma poi scappano verso via Marina. Forcella disorienta perché ha tutte le pustole e la bellezza di quel mostro di città di cui è figlia. Quello spaesamento che avevo sentito dal giorno in cui mi s’erano inchiavecate le mutande, mi è entrato nella scrittura, in maniera terrestre, marina, terribile, oscena come Forcella, come il mostro e la criatura che non ho mai smesso di essere: infantile, istrionica, esibizionista come Nunziatina Trick Track che sputava per terra.

© Marco Iannone

Anna Maria Ortese

Ho letto Anna Maria Ortese tardi, intorno ai venticinque anni e quando l’ho letta, mi è sembrato di sfogliare una collezione di conchiglie che avevo sempre tenuto in una tasca sfondata di un vecchio cappotto. Quando ho letto dello spaesamento e del mare che non bagna Napoli, dell’oro di Forcella, della ciecata, del paio di occhiali, della casa in cui ci chiove, mi è sembrato di sentire una pietà che scivolava in compassione, miseria e ho provato una filiazione diretta con qualcosa che mi riguardava.
Napoli disorienta e provoca nevrosi, capogiri, giramenti di cervella, perché ha una doppia faccia: quella scarna e nuda che ti sorride con denti affilati, ti graffia la schiena, e quella che ti accarezza le guance con il suo tocco da sirena barocca e lussuosa, che se ne sta appollaiata col culo sul Vesuvio e la coda che penzola nel mare, nel golfo che ti spatria, ti condiziona e ti plasma.
Ortese parla del giubilo segreto che sta nei vasci, della voce dei criaturi, degli scugnizzi con le bocche scugnate, della rappresentazione letteraria della Napoli del dopoguerra, e affresca tutto nei racconti che testimoniano che «erano molto veri il dolore e il male di Napoli».
Il dolore e il male di Napoli erano il male interiore di Ortese, girovaga, animale randagio, che ha scritto sotto dettatura della nevrosi: una nevrosi, che non trovava sbocco e liberazione verso il mare, ma soltanto acqua stagnante. Quando ho letto Ortese per la prima volta, ho avuto la sensazione che lei riaprisse, in modo tenero e sadico, una qualche specie di emorragia che avevo provato a tamponare per anni. Mi sono resa conto che ormai non riuscivo più a fermare lo zampillio, non ero più la criaturella che si affannava a tappare lo scroscio con le mani, dovevo stare ‘nfusa, dovevo correre il rischio di farmi impossessare da quell’emorragia e anche di rimanere esangue, se fosse servito a qualcosa. Il mare che non bagna la Napoli di Ortese fa uscire pazzi, perché è acqua morta, pelle ferma: è il disorientamento dei vicoli, è la condizione metafisica che dirige con orrore anche la scrittura. Tutte queste cose le stavo ruminando da tempo, ancor prima di conoscere Ortese, la mia scrittura non è cambiata dopo averla letta. Non è stata lei la mia maestra principale, ma soltanto con lei ho provato quella sensazione terribile e distensiva di vedermi nuda in uno specchio. Soltanto in lei ho riconosciuto quel terrore disorientante, insostenibile. Si tratta di un orrore epidermico, un horror vacui intestino.
Un paio di occhiali e Interno familiare sono due racconti che dipingono con maestria la Napoli popolaresca, plebea e poi quella borghese; altri invece hanno un taglio più giornalistico e raccontano cosa accade al Monte dei Pegni (Oro a Forcella) e ai corpi ammassati in un palazzo occupato (La città involontaria): Ortese è funambolica nei registri linguistici, versatile e lirica, cangiante e crudele, è monstruum di sé stessa, prodigio e vergogna, e la sua prosa non chiede scusa per il fatto di scottare e non essere consolatoria. 

Ortese pensa a dare conto e agio soltanto alla sua nevrosi, che è il daimon che la guida, perché lo scrittore a un certo punto – o forse, dal principio – deve essere egoista e non giustificarsi per ciò che fa, pensa, scrive. Lo scrittore non deve chiedere scusa agli altri, altrimenti è meglio che non scriva proprio, meglio che appenda la penna da qualche parte e si metta a fare altro. E, a posteriori, ho capito che il disorientamento mio veniva proprio da qui: mi ero scocciata di difendermi, di incassare i colpi e di dovermi giustificare, io sono questo tipo di animale e non posso essere altro.

Scrivere, sempre


Ho scritto la maggior parte del mio romanzo nel vicoletto di San Giorgio ai Mannesi, dietro il faccione di San Gennaro di Jorit. Perché ho ambientato il mio primo romanzo a Napoli? Me lo chiedono in tanti. E io, invece, a loro chiedo: «Perché me lo state chiedendo?
Credete che queste cose si scelgano, si decidano a tavolino?». L’ho fatto perché una parte di me continua a parlare di cose sporche e fumare sigarette di contrabbando insieme a Nunziatina Trick Track; perché io sono quella. La mia storia è un affresco che mi scrivo addosso, sulla pelle, e se ho respirato lo zolfo e ho vissuto nella stalla dell’animale che ero, non posso snaturarmi e cambiarmi i connotati. Io scrivo quella che sono, scrivo di quello che mi fa sentire di non tradire me stessa e la mia verità.
Non devo giustificarmi né per la lingua che uso, né per altro.
La seconda parte del mio romanzo l’ho scritta mentre lavoravo come docente.
Una volta ho detto ai miei alunni che chi fa letteratura non deve farsi portavoce di buoni sentimenti né proporre regole di condotta. La letteratura non deve essere edificante, consolatoria, buona, e lo scrittore non deve necessariamente provare buone sensazioni. A volte credo di essermela inventata questa città, di essermela costruita a mia immagine e somiglianza, come il prolungamento di un arto o di una ciocca di capelli, ma la verità è che è stata la città a costruire me, a rimettermi al mondo, ad aprire le gambe e partorirmi.
Ogni tanto, quando mi torna il ciclo, più o meno ogni ventotto giorni, io ripenso alle mie compagne di classe.
Ripenso al disorientamento e a Ortese, e proprio in questi giorni rileggevo L’iguana: in un passo, che sta più o meno a metà del libro, Ortese recupera un po’ di lucidità fuori dallo spaesamento e dice che il mondo non è sempre cattivo e crudele: è soltanto ammalato, e per guarire ha bisogno di tutto il nostro intelligente amore.
Il mio intelligente amore lo ritrovo nell’unico luogo dove sono femmina, criatura, animale, mostro, tutto insieme e senza togliere ed espungere niente.
In quel luogo dove sono viva e morta, chiagnazzara e miserabile, dove posso alluccare e stare zitta, perché che campi a fare se devi chiedere scusa agli altri, se non ti metti a leccare le viscere della vita prima di schiattare?
E io voglio continuare a scrivere senza chiedere scusa delle storie cucite nell’ombelico, di quella città mestruata di sangue; voglio continuare a scrivere, a vivere il mio spaesamento. Scrivere di Napoli è facile, difficile e pericoloso insieme. Io voglio sfuggire dal buonismo e dal cattivismo che si fa della città, voglio svolazzare come una falena sopra tutto questo, voglio provare a decostruire i cliché della letteratura meridionale e trovare nuovi modi per dire, per fare, per smontare, voglio capovolgere il bicchiere e versarci il mio liquido, il mio sangue, e in questo io sono fedele solo alla mia verità. Io voglio raccontare quello spaesamento che non smette di ossessionarmi, e voglio farlo rimanendo vicina alle pozzanghere di Forcella.
Mi chiederanno: «di che città parli?». Io scrivo della città, ma forse non parlo nemmeno di quella, parlo del mostro che sono sempre stata, e le storie che racconto sono i miei tentacoli, le mie pinne e le mie scaglie, e questo mi basta.

La fine della vergogna


Ho ritrovato una foto in mezzo alle mie scartoffie.
Ci sono io in quella foto, criatura piccola e dai capelli neri, che aveva trovato il coraggio di salire sul palco a Roccapiemonte a leggere quel racconto. Io, minuscola, capelli arruffati, gli occhi gonfi di pianto, la vergogna e lo scuorno in petto, io che volevo farci salire mia sorella e alla fine ci sono salita io, scandendo a chiare lettere ogni riga di quel racconto. Ricordo che quel giorno, alla fine, mi hanno applaudita, e anche se io all’epoca non ci credevo a quell’applauso, me lo sono preso lo stesso. Io oggi mi sono fatta una promessa: non chiederò più scusa a nessuno se non a me.
Non mi vergogno più di niente. Mi rimangono ancora tanti tabù, ma non sulla scrittura: l’ho visto scivolare via dal mio corpo, come un’acqua sporca, forse quella vergogna me la sono bevuta o l’ho sputata nel cesso. E va bene così. Ogni tanto però mi viene a trovare il ricordo di quella criatura arruffata, spaurita, che sarebbe potuta morire per un soffio sulla pelle: io ormai nemmeno la consolo più, perché non è della mia pietà che ha bisogno, ma soltanto di sedersi con me e di aspettare insieme che la vergogna passi. Aspettiamo, vediamo arrivare la notte e alla fine ci accendiamo una sigaretta, perché si sa, le sigarette hanno sempre aiutato a sopportare l’attesa.

editing di Fabiana Castellino

Monica Acito nasce nel 1993 in Campania e inizia a scrivere da bambina. Si laurea in Lettere Moderne e si specializza con lode in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, con una tesi sulla ricezione della letteratura sudamericana in Italia, concentrandosi sui casi editoriali di Gabriel Garcìa Màrquez e Jorge Luis Borges. Fin dall’adolescenza, collabora con testate cartacee e online. Nel 2021 vince il Premio Italo Calvino Racconti e il Premio Phoebe della Scuola Holden. Suoi racconti sono stati pubblicati su varie riviste letterarie online, tra cui “Narrandom”, “Tropismi”, “Vitamine”, “Salmace”, “Micorrize”. Un suo racconto appare sulla rivista di Feltrinelli “Sotto il vulcano”. Vive a Torino, è docente di lettere presso la scuola secondaria di primo e secondo grado e ha fatto parte del comitato di lettura del Premio Italo Calvino a Torino. Il suo romanzo d’esordio, “Uvaspina”, è uscito il 22 febbraio 2023 edito da Bompiani.

Quando penso a Vivianne Westwood penso al rosso. Il rosso dei capelli, il rosso del tartan, il rosso delle autoreggenti che indossa in uno dei suoi ultimi shooting. Nonostante la pelle e le catene, il punk è essenzialmente rosso perché rosso è il colore del sangue che macchia Sid Vicious, rossa è la protesta e rosse sono le emozioni su cui non abbiamo controllo.

Rossi sono anche questi scatti di Marco Iannone. Fotografie composte come un quadro di Burri o un taglio di Fontana, in cui il corpo diventa supporto, traccia sulla quale si distende il colore.

Le gambe, centro della narrazione, non sono mai complete, sfuggono l’inquadratura; dello sfondo si percepisce solo la superficie lucida del divano; non ci sono appigli visivi tranne un gatto che fugge. Come nel punk, quello che affascina di queste immagini è il loro disordine programmato, la capacità di fare rumore con niente, giocando su dissonanze cromatiche, grana e uso del flash.

Nei suoi diari così Anaïs Nin si rivolge a Henry Miller: «Hai ragione. Del mondo bisogna fare una caricatura, ma io so anche quanto puoi amare ciò che ridicolizzi. Quanta passione c’è in te! È questo che io sento in te. Non è il sapiente, il rivelatore, l’osservatore quello che io sento: quando sono con te sento il sangue».

Nel tempo il cui anche la ribellione punk è storicizzata, e della sua etica rimane l’estetica, la fotografia di Marco Iannone ci interroga su cosa valga ancora la pena ridicolizzare, per cosa sia giusto resistere. E la risposta, proprio come per Nin, è che per resistere l’unica cosa che serve è il sangue.

Livia Del Gaudio

Marco Iannone è nato a Milano 43 anni fa. Fin dall’adolescenza, quando i compagni portavano in classe o in gita giochi, lui portava con sè una Kodak usa e getta. È iniziata così, grazie anche a suo padre, la passione per la fotografia. Da dieci anni fotografa persone. Il nudo rappresenta per lui un linguaggio, i dettagli dei corpi la punteggiatura perfetta. Nel 2018 rispolvera dalla cantina la Pentax analogica che suo padre usava da giovane. Ne rimane folgorato. La fotografia, analogica o digitale (usa solo la sua fuji XT 20) è diventata una medicina che spera non lo faccia guarire mai.

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