Capelli

di Sinéad Gleeson

Tradotto da Aurora Dell’Oro

[ITA] [ENG]

© Silvia Venturi

Negli anni Ottanta, quasi tutte le bambine di sei anni che conosco hanno lunghi capelli di un castano scialbo, come me. C’è un intero vocabolario per queste sfumature, ma la mia è spesso definita “castano topo”, il che mi fa pensare alla timidezza e ai topolini di campagna. A scuola una bambina rivela un segreto bello e misterioso: se si intrecciano i capelli e li si tiene legati durante la notte, si diventa stupende la mattina seguente. Rapita da questa rivelazione, lego i capelli in trecce strette e tiro le coperte sopra la testa. La prima notte chiudo a malapena gli occhi per la trepidazione, l’eccitazione incontenibile. Dormire con i capelli intrecciati è doloroso. Ne varrà la pena, mi dico, già immaginando una nuova me. Mi sveglio presto e afferro la spazzola di mia madre, dal manico richiudibile blu e rosso. È un pettine africano e non so come lei ne sia entrata in possesso. Se è stato un regalo, o un acquisto compulsivo al bancone della farmacia. È eccessivo per i nostri capelli sottili e fragili. Sciolgo gli elastici e comincio a spazzolarli, dipanandoli come una matassa di lana. 

E eccomi qui: Raperonzolo senza la torre, e a sei anni ho un sentimento ambivalente verso i principi. Emerge un ricordo: Kate Bush in un video di Top of the Pops, tutta fierezza e criniera rosso-bruna, i capelli che costituiscono gran parte della sua essenza e energia. Di fronte allo specchio della toeletta, dalla cornice screziata, le trecce si sciolgono. Guardo le onde, questo mare di capelli. E negli anni successivi, ogni volta che ascolto Life on Mars di David Bowie e il verso the girl with the mousy hair, penso a quelle lunghe trecce e a quel vecchio specchio. A tessere un incantesimo con i propri capelli, a come possiamo renderci diversi con un solo gesto, in una sola notte. 

Per un capriccio, mesi dopo, annuncio a mia madre che voglio tagliarmi i capelli. La parrucchiera, mia zia, vive in una casa a schiera e taglia capelli – solo alle donne, mai agli uomini – in cucina. Il suo aspetto è sempre impeccabile, rossetto sulle labbra e occhi bistrati, sofisticate mèches grigio cenere. In meno di un’ora, ciocche color topo sono sparse sul linoleum. Mi pento subito e per anni supplico mia madre di lasciare che crescano di nuovo. Lei si oppone, perché dice che i capelli corti sono «più facili da gestire». Mia zia lo chiama stile a paggetto, e ogni volta che ritorniamo per spuntarli, mia madre le dice di fare un taglio «alla principessa Diana», mentre sfoglia una rivista. I capelli cominciano a mancarmi, la sensazione del loro tocco sulle spalle. Basta trecce notturne e risvegli con i capelli che sembrano sabbia ondulata dopo il ritiro della marea. Mentre siamo a Liverpool per un matrimonio, un uomo mi confonde con un maschio e mi chiama ragazzo. Piango per ore. La mia madrina, che ha sempre portato i capelli corti, mi consola. Mi regala il primo libro con la copertina rigida che abbia mai avuto, rilegato in finta pelle rossa e con incisioni dorate. Leggo Piccole donne di Louisa May Alcott, ma non lo capisco del tutto. Queste ragazze sono tanto uniche quanto simili. La loro amicizia intima, solida, mi fa desiderare di partire dai sobborghi della Dublino anni Ottanta per trasferirmi nel loro mondo ottocentesco. E Jo – di certo il personaggio di Piccole donne che tutti preferiscono? – compie un gesto che accresce la mia ammirazione per lei: «Così dicendo, Jo si tolse il cappello e si levò un grido generale, poiché i suoi folti capelli erano stati tagliati. “I tuoi capelli! I tuoi magnifici capelli! Oh, Jo, come hai potuto?”». 

Il suo nuovo aspetto provoca sgomento. Nonostante Jo assuma un’«aria indifferente», è ovvio che è sconvolta dal taglio. “Oh, Jo! Siamo anime affini dai capelli a caschetto!”, penso. I libri che leggiamo per primi sono quelli che ci segnano nel profondo. I personaggi si sentono più vicini alle persone reali, a cui è solo capitato di vivere in un’altra epoca e in un altro luogo. In quanto unica figlia femmina, invidiavo Jo e le sue sorelle. La loro vicinanza e intimità non era diversa dall’amicizia con i miei fratelli, ma i capelli non erano un argomento di conversazione. 

Jo si priva della sua «unica bellezza» per aiutare la famiglia, che ha bisogno di denaro. Il suo sacrificio ricorda Il dono dei Magi di O. Henry, anch’esso incentrato sui capelli. Nella storia, Della ha una delle chiome più belle di tutta la letteratura: «Cadde attorno a lei, ondeggiante e splendente come una cascata di acque scure. Le arrivò fin sotto il ginocchio, la avvolse quasi come un vestito».  

I motivi di Della sono simili a quelli di Jo. È la vigilia di Natale e la frase iniziale ci dice quanto poco denaro abbia – «un dollaro e 87 centesimi». Disperata perché vuole comprare al marito una catena di platino per l’amato orologio, vende a un parruccaio la sua chioma lunga fino al ginocchio per venti dollari. Mentre aspetta che Jim torni dal lavoro, pensa: «“Per favore Dio, fa’ che mi trovi ancora carina”». 

Quando Jim arriva a casa, è sconvolto da ciò che la moglie ha compiuto e dal suo nuovo aspetto. La tragicità della scena è accresciuta dal fatto che Jim ha venduto l’amato orologio per comprare dei pettini costosi (ma ormai inutili) in guscio di tartaruga per i capelli di Della. L’avere sacrificato quello che era prezioso per entrambi rinvigorisce l’amore, ma non prima che Della esprima il timore che i suoi capelli, corti e poco femminili, diminuiscano il desiderio di Jim. «“Non ti piaccio forse lo stesso, però? Sono io anche senza i capelli, non è vero?”». 

Della si autodetermina attraverso l’aspetto fisico, in modo particolare attraverso i capelli tanto ammirati dal marito. La sua identità è definita dall’aspetto, non ne è separata. La storia è stata pubblicata nel 1905, quando molte donne stavano a casa e non lavoravano. Della dipende da Jim, e aspetta che ritorni dal lavoro dopo aver venduto i capelli. Priva di risorse economiche, usa l’unico bene di cui dispone, e l’atto di tagliarsi i capelli può essere considerato sia una castrazione, sia una rivendicazione di potere. Io non avevo la chioma rigogliosa di Della, ma a sette anni tagliarmi i capelli mi era sembrato eccitante, finché ho desiderato che mi ricrescessero. Mi comportavo da maschiaccio, e non mi sono mai sentita come se non fossi una ragazza. La femminilità era un’astrazione, una parola che non conoscevo. 

I capelli sono morti. 

Ogni boccolo, ogni ciocca tinta o arricciata dal ferro, riposa in pace. Un tempo credevo al mito secondo cui i capelli continuano a crescere dopo la morte, ma l’unica parte che rimane in vita è dentro il follicolo, sotto lo scalpo. E a me sembrava una bugia, o solo perfettamente congruente, il fatto che i capelli e i peli del pube e delle ascelle siano chiamati “capelli terminali”. La cheratina, la proteina che li costituisce, è la stessa che si trova negli zoccoli degli animali, negli artigli dei rettili, negli aculei dei porcospini e nei becchi e nelle piume degli uccelli. Da ala a coda, da barbetta a ciuffo, noi mammiferi siamo uno zoo di catene polipeptidiche. Ogni ciocca contiene tutto ciò che sia mai passato nel flusso sanguigno. Ci sono anche i ricordi, annidati tra midollo e cuticola, custoditi in ogni riccio? Non morti, ma “terminali”. Proteici e proteiformi. Come accade con il sangue, è difficile distinguere i capelli maschili da quelli femminili, ma sono le donne che, nel corso della storia, sono state giudicate per le loro acconciature. Riduttivamente etichettate nei film noir come bionde, rosse o brunette (un’abitudine che trasuda privilegio e ostracizza le persone di colore e di altre etnie). I capelli sono stati usati per inquadrare le donne dal punto di vista razziale, sessuale e religioso. Le rendono delle tentatrici: rappresentano la troika della femminilità, della fertilità e della scopabilità. Questa tensione è presente anche nella Nascita di Venere di Botticelli. Nuova e pura come una neonata, ma dipinta secondo le fattezze di una donna adulta e voluttuosa. Naturalmente deve nascondere la sua nudità – con cos’altro se non con una criniera ondeggiante. Nei dipinti preraffaeliti le donne hanno i capelli sciolti, folti, come in Lady Lilith di Dante Gabriel Rossetti. Nella cultura ebraica, Lilith era la prima moglie di Adamo e è stata a lungo associata ai demoni femminili (una traduzione del suo nome è ‘megera notturna’). È stata creata insieme a Adamo e non, come Eva, dalla sua costola. La loro relazione è finita perché Lilith si è rifiutata di inchinarsi di fronte a lui, visto che si considerava una pari, non un’inferiore. Emblema della seduzione, nel quadro di Rossetti è intenta a pettinare la chioma lussureggiante. John Everett Millais dipinge l’Ofelia shakespeariana mentre annega nel fiume, e i capelli diventano il suo sudario funebre. I capelli sciolti implicano che le donne sono impudiche, invece i capelli raccolti e legati sulla nuca indicano l’esatto opposto: rispettabilità, decoro e obbedienza. I capelli sono significanti e simboli che rivelano tutto, dalla posizione sociale allo stato civile, alla disponibilità sessuale.

© Silvia Venturi

Nella canzone Hair, dall’album Dry (1992) di PJ Harvey, la cantante dà voce a Dalila, una donna biblica la cui storia è una tra le più famigerate sui capelli. Di Dalila si tramanda che era una traditrice e una peccatrice, perché rivela ai Filistei l’origine della forza di Sansone. Nella canzone di Harvey – oltre all’evidente amore per Sansone –, Dalila ammira i suoi capelli glistening like sun. Riconosce il loro duplice potere – sono il ricettacolo della forza di Sansone, ma anche un bene tangibile da lei bramato. Nel testo di Harvey Dalila supplica My man/my man, quando si rende conto che non può avere Sansone, né può averne i capelli, a causa del suo tradimento. Sansone è indebolito e sconfitto, ma la perdita dei capelli porta con sé altre possibilità. Da adolescente, ho appreso che c’è un potere nell’assenza. 

Wogan’s Barbers era un vecchio locale dall’assito in legno, da tempo scomparso da Dublino. Un sabato pomeriggio, a sedici anni, avevo preso una decisione e ero salita su un bus per il centro. Nella stanza buia (una specie di sala d’attesa), mi sono messa in fila tra uomini anziani per un’ora. Quando è arrivato il mio turno, mi sono accomodata sulla poltrona di pelle e l’anziano barbiere mi ha avvolto in una mantella nera. Dopo avere ascoltato quello che chiedevo, ha scosso la testa. 

«Non lo facciamo per le ragazze». 

Paonazza e con addosso gli sguardi dei clienti curiosi, mi sono precipitata fuori e sono andata da un altro barbiere. Mi sono seduta in un’altra poltrona di pelle, e il rituale della mantella è ricominciato.

«Sei sicura, tesoro?» 

«Sì» 

«È la tua ultima parola, allora?» 

«Lo faccia».

La radio gracchiava, sintonizzata su una stazione che trasmetteva hit degli anni Ottanta. Il rasoio scivolava tra le mie radici tinte, e lo sentivo ronzare nelle orecchie. Il barbiere è partito dalla sommità della testa, per spostarsi verso la nuca, e all’inizio sembrava un chonmage da samurai. In cinque minuti, era tutto finito. Sembravo Maria Falconetti nella Passione di Giovanna d’Arco (cosa voleva dire per un’attrice degli anni Venti radersi la testa per un ruolo?). Rasata. Sul bus verso casa, indossavo un cappello per proteggermi dal gelo di febbraio e il mondo mi rotolava attorno alla testa come una biglia. Rasata. A scuola ho suscitato un grande scompiglio. Se ne parlava molto. Timori per un’epidemia di teste rapate. Domande sulla mia salute. Battute su Sinéad O’Connor, che era comparsa in TV quella settimana per avere vinto un premio. Nei mesi seguenti, sono stata spesso scambiata per lei. Un uomo affermava con insistenza che ero stata nel pub di Filthy McNasty a Londra, dove avevo bevuto con Shane MacGowan. Ogni volta che mi raso a zero, o che tengo i capelli molto corti, ottengo sempre una reazione, specialmente dagli uomini. Il più delle volte sono schifati, o divertiti; alcuni mi trovavano attraente: ma ero sempre tenuta a giustificarmi. A spiegare quello che avevo fatto. E perché. 

«Cosa ti sei fatta?» 

«Hai lottato con un tosaerba?»

«Sei lesbica?» 

«Perché devi renderti brutta?»

«Ma… è come autosabotarsi» 

«Cosa ha detto tua madre?» 

(Nota: mai «padre») 

Nel libro Girls will be girls. Travestirsi, interpretare ruoli e cambiare le regole, Emer O’Toole racconta di essersi rasata quando era giovane. O’Toole riporta tutti i giudizi che sono stati espressi su di lei, dalla sessualità e disponibilità, dalla personalità al comportamento. Non avere capelli comporta una serie di stereotipi fissi, la maggior parte dei quali è basata sul genere. 

La prima volta rasarmi non è stato un atto femminista, ma ha risvegliato la mia coscienza femminista una volta per tutte. Perché mi sono accorta che se le persone supponevano che ero aggressiva solo perché avevo la testa rasata, allora avevano supposto che ero compiacente perché avevo portato i capelli lunghi (…). Se i capelli corti mi facevano passare per omosessuale, i capelli lunghi, allora, mi facevano passare per eterosessuale. Capelli lunghi, capelli corti, conformista, non conformista, femminile, mascolina: venivo continuamente ridotta a uno stereotipo di genere. All’improvviso, vedevo le cose in modo diverso. 

© Silvia Venturi

D-Day, Francia, 1944. Nelle strade si festeggia la notizia della liberazione. Un camion avanza, tra gli applausi della folla riunita. Alcune donne, le teste chine, i volti attraversati da dolore e paura, vengono trasportate lentamente lungo una stradina. Molte di loro – giovani madri che cercavano di sfamare la famiglia, un’adolescente, una prostituta – sono accusate di “collaborazione orizzontale”, di avere avuto rapporti sessuali con il nemico, il che a volte ha portato a avere un figlio da un soldato tedesco. Sono esibite per le strade e messe in fila. Un uomo, arrogante e determinato, tiene in mano un rasoio. Una alla volta, sono rasate in pubblico. La punizione è un tentativo di negare la loro femminilità, per castigarne il tradimento, ma soprattutto per mettere in mostra la loro sessualità. Queste donne erano chiamate les tondues, dal francese ‘rasato’. Donne che erano umiliate e marchiate dal punto di vista sessuale, non solo in Francia, ma anche in Germania e prima ancora in Irlanda, durante la guerra di indipendenza. Un castigo a cui assisteva una folla numerosa e molesta. 

La prima volta che mi sono rasata è stato a sedici anni, ma da allora ci sono state molte altre occasioni. Una volta – è un classico – dopo la fine di una relazione; poi durante l’ultima sessione di esami al college; un’altra per sbarazzarmi di una decolorazione urticante e costosa. L’ultima volta è stato nel 2003. Dal perché al come, non sono stata io a volere questo taglio. È stata l’unica occasione in cui mi sono tagliata i capelli da sola e per un motivo pratico, non estetico. C’era stata una diagnosi – una forma di leucemia rara e aggressiva. La chemioterapia era solo una parte della cura, che è cominciata il giorno dopo la diagnosi, con dosi pesanti di un farmaco chiamato Idarubicina. Avevo capito “Ida Rubisson” e mi ero immaginata una matriarca ebrea, austera e gentile (indossa uno sheitel?). Non ogni chemioterapia fa perdere i capelli (l’Idarubicina, sia benedetta, sì), ma non cadono tutti all’improvviso, come nei fumetti. Non c’è stato un BUM! e via. Ti svegli con i capelli sul cuscino. Li pettini e le ciocche vengono via a manciate. Li osservi cadere dal tuo cranio e non c’è niente che tu possa fare. Avevo deciso di disfarmene per un motivo solo: gli occhi. La caduta continua mi irritava le palpebre e la vista era già annebbiata a causa delle medicine. Metà delle ciglia, non tutte, erano cadute. Le sopracciglia erano diventate più sottili, ma resistevano. L’amichevole infermiera indiana – incaricata di gestire le vene difficili, sul punto di collassare, spesso le mie – rideva nervosamente. «Ne sei sicura?» chiedeva, tenendo in mano il rasoio in dotazione all’ospedale. In quel momento, mi sono sentita di nuovo dal barbiere di dodici anni prima. Ne sei sicura? 

Era un altro giorno freddo, di nuovo febbraio, ma questa volta non avevo bisogno di un cappello. L’aria nell’ospedale era calda, surriscaldata. Odore di cibo stracotto e di disinfettante per le mani. In piedi di fronte allo specchio, con il catetere che mi spuntava dal pigiama, ho cominciato a rasarmi. Gita stava in piedi con la bocca aperta e mi offriva parole che oscillavano tra la sorpresa e l’incoraggiamento. Avevo notato che lo faceva quando cercava di persuadere le mie vene distrutte a fare uscire un po’ di sangue. In tre minuti, le costose mèches erano scomparse. Dopo essermi spazzolata via i capelli dalle spalle, ho spinto l’asta portaflebo e sono tornata nella camera d’isolamento con le due porte a tenuta stagna. Per la maggior parte delle persone che si ammalano di leucemia è necessario un trapianto di midollo. Io non ne avevo bisogno perché il mio corpo reagiva, rispondendo bene alla terapia. Ho scoperto che dopo il midollo, i capelli sono il tessuto che cresce più velocemente nel corpo.

Nella cucina di mia zia negli anni Ottanta, dal barbiere nella Dublino anni Novanta, in un reparto d’ospedale per malati di leucemia negli anni Duemila, ho guardato cadere i miei capelli. Le ciocche sul pavimento formavano curve simili a punti di domanda. 

Questi sono i ricordi che affiorano mentre leggo Bernice si fa un bel carrè di F. Scott Fitzgerald. Pubblicato nel 1920, racconta la storia di una ragazza del Wisconsin timida e poco apprezzata che si trasferisce dalla bella cugina Marjorie. Marjorie si stanca con facilità dell’ottusa Bernice e della sua mancanza di abilità sociali. Litigano (la rimprovera, coincidenza vuole, anche per avere citato Piccole donne), ma stabiliscono che Marjorie insegnerà a Bernice come essere desiderabile e apprezzata. Bernice impara in fretta, e capisce che fascino e sfacciataggine le procurano attenzioni. La sua nuova intraprendenza fa scintille in una serie di battute studiate a tavolino, inclusa una proposta civettuola di farsi un carré.

«Voglio essere un vampiro della società, vedi», annunciò con calma […]

«Approvi i carré?» chiese G. Reece […]

«Penso che sia immorale», affermò con gravità Bernice. «Tuttavia, è ovvio, devi o divertire la gente, o dargli qualcosa in pasto, o scioccarli».

Warren, un pretendente di vecchia data con cui Marjorie si diverte, comincia a provare interesse per Bernice. Marjorie, rendendosi conto di avere creato un prodigio della seduzione, decide di sabotare la cugina, e la smaschera per costringerla a tagliare i suoi lunghi, amati capelli dal barbiere, di fronte a una folla stupefatta. 

«Bernice non vedeva niente, non sentiva niente. L’unico senso che le era rimasto le diceva che quest’uomo in camice bianco le aveva tolto prima un fermaglio di tartaruga, poi un altro; che le sue dita stavano trafficando maldestramente con forcine a cui non era abituato; che i capelli, che i suoi magnifici capelli, stavano cadendo – non ne avrebbe mai più sentito il peso voluttuoso, ondeggianti sulla schiena nel loro scuro splendore». 

Come Della nel Regalo dei Magi, Bernice non può più usare i suoi pettini in guscio di tartaruga. In una versione cinematografica del 1976 con Shelley Duvall nel ruolo della protagonista, i capelli non sono castani, ma biondo fragola, acconciati in modo elaborato e legati con un fiocco di nastro rosa. Nella scena madre dal barbiere, Bernice sa che non può tirarsi indietro. Si siede (di nuovo, sono da Wogan, sprofondata nella poltrona di pelle) e il barbiere le dice: «Non ho mai tagliato i capelli di una donna, prima d’ora». 

Proprio quando inizia a tagliare, la telecamera fa una panoramica sul salone e inquadra i volti di Marjorie, Warren e gli “amici” lì riuniti. La telecamera non ci lascia assistere al momento terribile del taglio, ma i volti della folla ci raccontano tutto. 

Bernice è cambiata non solo nell’aspetto. Le prediche e le lezioni di seduzione di Marjorie le hanno insegnato malizia e sfrontatezza. Prima di tornare in Wisconsin, Bernice si prende una vendetta biblica, delilesca, tagliando le trecce di Marjorie mentre sta dormendo.

© Silvia Venturi

Le vecchie foto mostrano i look che cambiano, le scelte giuste e sbagliate in fatto di capelli. Incommentabili body wave per la Comunione negli anni Ottanta, la gamma sperimentale di tinte di un’adolescente, dal rosa al blu all’ossigenato. Acconciature, lunghezze e colori come momenti fossilizzati nell’ambra. Non ho più avuto dei veri capelli lunghi da quando li tenevo intrecciati di notte. Da bambina, creavo finte acconciature con fili di lana e sciarpe. Volevo i capelli lunghi fino alla vita delle altre, e li guardavo svolazzare con invidia. Ho posseduto un’autentica parrucca, tanto-costosa-da-sembrare-vera. Era scura e liscia, una chioma di ciocche sintetiche. Dovrebbe essere indimenticabile, una cosa concreta, eppure me ne rimane solo un ricordo. 

Durante la chemioterapia, un paziente “perde” i suoi capelli. Questo è diventato un eufemismo abusato – nessuno smarrisce i capelli come fa con le chiavi o gli occhiali. Cadono, e molte compagnie assicurative coprono il costo di una parrucca. Al telefono, una donna gentile mi ha aiutato a farne richiesta e mi ha spiegato che una parrucca costosa è considerata «una protesi – come una gamba». 

Ho pensato al raffinato stivale rosso di Frida Kahlo, agli amputati della prima guerra mondiale e ai loro arti fantasma, convinti che un’estremità mancante di ossa e carne fosse ancora al suo posto. Dopo la malattia non ho mai sentito la mancanza dei miei capelli. Non pensavo al fatto che un giorno erano ammucchiati sopra la mia testa, laccati o in un’acconciatura a alveare, e il giorno dopo non c’erano più. L’addetto al servizio clienti della compagnia assicurativa mi aveva consigliato il nome di un parrucchiere specializzato. Durante la consulenza, parlava in tono sommesso, abituato a confrontarsi con donne che erano ben più traumatizzate di me per aver perso i capelli. La maggior parte delle persone sceglie una replica dell’acconciatura che ha perso, una specie di sheitel post-cancro. Io non la volevo. Volevo l’esatto contrario, qualcosa che fosse diverso da quello che ero prima che questo accadesse. Ho scelto una parrucca lunga e scura, e il parrucchiere l’ha tagliata e rifinita con cura, come se fossero capelli veri. 

Dopo tutti i suoi sforzi, ricordo di averla indossata solo in una occasione. Per settimane è rimasta in una scatola avvolta nella carta velina. Quando ho raccontato alla mia migliore amica che stavo scrivendo di questa esperienza – queste parole su questa pagina, che mi riportavano indietro nel tempo, a libri e parrucchieri, all’arte e agli ospedali –, mi ha raccontato una storia proprio sulla mia parrucca. Mi ha parlato di una sera trascorsa fuori, qualche settimana dopo che ero stata dimessa per la prima volta dall’ospedale. Un venerdì sera alcuni di noi si erano dati appuntamento in un seminterrato buio. Era ancora permesso fumare nei locali e l’aria era nebbiosa e densa. Era il compleanno di qualcuno (secondo lei) o di un amico della band che stava suonando (secondo me). Quando è arrivata, mi ha visto seduta dall’altra parte della stanza, con indosso la costosa parrucca di capelli non miei che lei definisce «lunghi, scuri e vampireschi». 

«Sembravi un uccellino fragile al cospetto della sua corte. Tutti si avvicinavano per farti gli auguri e tu eri più interessata a loro. Riesco ancora a ricordare con precisione che effetto faceva guardarti, con quei capelli finti, e quanto mi sono commossa. Ho dovuto andarmene, per non mettermi a piangere di fronte a te». 

Non ho nessuna memoria di quella sera. O delle altre serate in cui ho indossato la parrucca; della sensazione di avere i capelli lunghi, o un loro simulacro, che mi cade sulla schiena per la prima volta dall’infanzia. So che i nostri cervelli rimuovono selettivamente i traumi, della malattia o del dolore, ma perché è stata censurata la parrucca? Nella storia della mia amica, conosco bene la strada, gli amici che erano presenti, eppure nella mia mente, sono del tutto assente dal quadro. Dopo la malattia, quando ero insieme agli altri, parlavo molto, riempendo le conversazioni con domande e monologhi, per non dire come mi sentivo o cosa dicevano i dottori. Poco dopo quella sera ho perso la parrucca. Settecento euro di pseudo-capelli lisci erano scomparsi e io non sapevo come, o dove fossero. La perdita si trasforma in una specie di emblema. Un simbolo da fiaba, qualcosa è comparso per breve tempo nella mia vita quando ne avevo bisogno, solo per svanire subito dopo aver assolto il suo compito. O forse è da qualche parte, incartata con cura, una cosa che è stata indossata solo per una volta. 

La ragazza dai capelli color topo se n’è andata da molto tempo. Ma ne ho un’altra nella mia vita. La maggior parte dei giorni, mi cimento in una delle sfide più ardue per il genere umano – spazzolare i capelli di una bambina riluttante prima che vada a scuola. Per rendere più facile questa battaglia di spazzole e forcine, ho dovuto trovare una strategia. Una distrazione. 

Non è l’invisibilità ninja, o l’inganno, o la guerra totale (penso ancora al chonmage dei samurai). 

Uso le parole. E la musica. 

Mia figlia ama cantare e mi chiede sempre di insegnarle delle canzoni. Rovisto tra i miei ricordi, alla frenetica ricerca di cori o versi, brandelli di melodie. Trovo ballate e canzoni pop, canzoni as Gaeilge (in Gaelico). Melodie dei Beatles e canzoni delle colonne sonore dei film che abbiamo visto insieme. Spazzolo e lotto con tutti i nodi, mentre li districo intonando una nuova nota. Prendo manciate di capelli profumati – identici ai miei, quando avevo la sua età – ma mi rifiuto di definirli “castano topo”. 

I miei capelli. I suoi capelli. Io. Lei. Noi. 

Mentre canticchio una canzone – spaziamo dal bluegrass a Taylor Swift – passo le ciocche soffici tra i denti del pettine. Le parlo delle trecce notturne e del mare di capelli al mattino, delle onde come la sabbia dopo la marea.

Il testo originale, in lingua inglese, si può leggere in «Banshee press» a questo link: https://www.bansheelit.com/read/hair-by-sinead-gleeson

Sinéad Gleeson La raccolta di saggi Constellations: Reflections from Life di Sinéad Gleeson è stata pubblicata da Picador nel 2019 e nello stesso anno ha vinto gli Irish Book Awards come miglior libro di nonfiction e il Dalkey Literary Award per autori emergenti. Il volume è stato selezionato per il Rathbones Folio Prize, il James Tait Black Memorial Prize e il Michel Deon Prize e tradotto in diverse lingue. Sinéad è la curatrice di The Long Gaze Back: An Anthology of Irish Women Writers  (il titolo riprende un verso di Maeve Brennan, il cui racconto è incluso nella silloge), The Glass Shore: Short Stories by Women Writers from the North of Ireland and  The Art of Glimpse: 100 Irish Short Stories. Sinéad collabora anche con artisti e musicisti, con Wellcome Collection, BBC, Frieze e molte gallerie. Nel 2022, ha co-editato This Woman’s Work: Essay on Music con Kim Gordon, che è stato pubblicato nel Regno Unito, negli Stati Uniti ed è stato tradotto in Spagnolo, Olandese e Italiano. Il suo primo romanzo uscirà nel 2024.

Sinéad Gleeson. Sinéad Gleeson’s essay collection Constellations: Reflections from Life was published by Picador in 2019 and won Non-Fiction Book of the Year at 2019 Irish Book Awards and the Dalkey Literary Award for Emerging Writer. It was shortlisted for the Rathbones Folio Prize, the James Tait Black Memorial Prize and Michel Deon Prize and translated into several languages. She is the editor of The Long Gaze Back: An Anthology of Irish Women Writers (named for a line from Maeve Brennan, which includes a story by Brennan), The Glass Shore: Short Stories by Women Writers from the North of Ireland and  The Art of Glimpse: 100 Irish Short Stories. Sinéad also collaborates with artists and musicians, with commissions from The Wellcome Collection, BBC, Frieze and various galleries. In 2022, she co-edited This Woman’s Work: Essays on Music with Kim Gordon which was published in the UK, US and in Spanish, Dutch and Italian. Her debut novel will be published in 2024.

La linea «è la traccia del punto in movimento, dunque un suo prodotto. Nasce dal movimento – precisamente dalla distruzione del punto, della sua quiete estrema, in sé conchiusa. Qui si compie il salto dallo statico al dinamico. La linea è, quindi, la massima antitesi dell’elemento pittorico originario – il punto. La linea può essere precisamente definita come elemento secondario. Le forze esterne, che trasformano il punto in linea, possono essere molto diverse.» (da Wassily Kandinsky, Punto, linea, superficie, tr. it. di Melisenda Calasso, Adelphi, 2004 (1968), p. 57).

E si direbbe che nei lavori di Silvia Venturi le forze esterne sono quelle che sorreggono l’immaginario dell’artista che riesce a risvegliare nell’osservatore emozioni gioiose grazie a un tratto che alleggerisce lo sguardo, riportandolo a una semplicità primigenia di linee tondeggianti che restano aperte o si chiudono in vivaci composizioni. I soggetti nati dalle accentuazioni delle linee sembrano un invito al gioco, occasione preziosa per fantasticare da un fuoriposto che rianima l’audacia del linguaggio del meraviglioso. Protagonista della superficie sembra essere proprio il movimento, lo scorrere di calde tensioni e distensioni delle curve che vibrando passano dal bianconero di alcune tavole al pieno cromatico di altre. L’artista si misura abilmente con la potenza creatrice della linea, un fluido inarrestabile pronto a deviare e a mutare in ogni istante. Elemento proteiforme che si fa ora sirena addormentata, ora chiome di capelli in cammino a passo svelto, topini che scalano le nuvole, teste a forma di vaso, dal quale germinano i fiori delle connessioni neuronali che coniugano la realtà all’imprevedibile visione dell’irrealtà.

Maria Teresa Rovitto

The line «is the track made by the moving point; that is, its product. It is created by movement specifically through the destruction of the intense self-contained repose of the point. Here, the leap out of the static into the dynamic occurs. The line is, therefore, the greatest antithesis to the pictorial proto-element the point. Viewed in the strictest sense, it can be designated as a secondary element. The forces coming from without, which transform the point into a line, can be very diverse.» (from Kandinksy, Wassily. Point and line to plane, translated by Howard Dearstyne and Hilla Rebay, 57. Bloomfield Hills: Cranbrook Press, 1947).

And one could say that in Silvia Venturi’s works the forces coming from without hold up the artist’s imagination which manage to convey joyful emotions. The stretch brings the observer to a primitive simplicity of curve lines left open or closed in vivid drawings. The subjects made by an accentuated line seem to be an invitation to play, a precious chance to fantasize from an out-of-place which strengthens the audacity of the imaginary language. The movement appears to be the very protagonist of the surface, the flowing of warm tensions and the releasing of curves vibrating from black-and-white to the fullness of colors. The artist challenges herself with the creative force of the line, an unstoppable fluid ready to change direction at any moment. It’s a protean element transforming now into a sleeping mermaid, and then into a mane walking swiftly, mice climbing the clouds, jar-shaped heads, from which blossom the flower of neural connections. As a result, the real is combined with the unforeseeable vision of the unreal.

By Maria Teresa Rovitto

Translated by Aurora Dell’Oro

Silvia Venturi è un’illustratrice nata in Urbino nel 1986. Ha studiato in Urbino, pittura all’Accademia di Belle Arti e Illustrazione all’ISIA. Dal 2015 lavora con diverse realtà come aziende, agenzie di comunicazione, privati ed editori. Ha collaborato con Edizioni Piemme, Mondadori, Pearson Education, La Rivista Andersen.

Silvia Venturi was born in Urbino in 1986 and she is an illustrator. In Urbino she studied Painting at Accademia di Belle Arti and Drawing at ISIA. Since 2015 she’s been employed by firms, communication agencies, private customers and publishing houses. She worked together with Edizioni Piemme, Mondadori, Pearson Education, La Rivista Andersen.

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