Stelle effimere. La vita nasce da mari profondi e da fuochi nuovi

di Hannah Dela Cruz Abrams

traduzione di Aurora Dell’Oro

© Alessia Spina

In quei giorni eravamo sostenuti dall’acqua. Sono uscita da un abisso, dal mare più profondo del mondo. I miei genitori mi hanno cresciuta su una barca lunga tredici metri nell’emisfero australe. Per dodici anni, il mondo si depositava in salsedine sulla nostra pelle e ci solleticava gli alluci con le alghe. Ancora oggi quando penso al contatto, penso all’oceano. 

Per comodità, era mia abitudine definire la scrittura un procedimento che consiste nel prendere idee separate e lanciarle nel buio come punti a stella. Scrivi te stesso da un’estremità affilata all’altra e viceversa, unendo e cucendo i punti. Quando ti fermi e fai un passo indietro, una costellazione prende forma, e c’è un significato nella forma. Se sei molto fortunato, c’è un significato dietro la forma. 

Nel Mar dei Coralli, mio padre mi faceva uscire in barca per raccogliere pezzi di mondo, un esercizio che ha più a che fare col divertimento che con l’istruzione. Non mi importa. Sono otto anni che navighiamo con il vento alle spalle, in un viaggio che è iniziato nelle Marianne Settentrionali e ha seguito gli alisei sudorientali verso la Nuova Caledonia, un arcipelago nel Pacifico sudoccidentale. La laguna che lo circonda è la più grande del pianeta. Uno specchio cristallino di ventiquattromila chilometri quadrati. Calo la mia piccola ancora e metto la faccia sulla superficie. La barriera corallina è viva e ondeggiante. Infilo le pinne, inspiro, e mi tuffo. I rami, rosa acceso e arancione e rosso, si aprono a ventaglio. Le anguille fuggono via e poi sbirciano timidamente dalle loro tane. I pesci pagliaccio si gettano contro gli anemoni di mare. Scalcio verso il basso e rimango sospesa. La luce danza attorno alla mia mano nell’acqua. Sollevo dal corallo rosso una stella marina, una Linckia blu. Fluttua con leggerezza appena sopra il mio palmo: nessuna resistenza. 

Di recente, l’idea di un procedimento mi sembra un lusso. Mi concentro per individuare una ragione per cui scrivere, che è molto simile al trovare una ragione per fare qualsiasi cosa. Una tempesta si abbatte contro la mia finestra ogni giorno. A Sud l’estate è così torrida che il cielo deve rompersi e lasciare andare. 

Capisco la tensione del cielo. 

Alla fine dei miei vent’anni, per nessun motivo apparente, il mio sistema immunitario è impazzito del tutto ed è rimasto più o meno così. Gli endocrinologi sospettano che ci sia un tumore nel mio cervello, la causa del quale non è chiara. O l’origine è intrinseca alla mia fisiologia o è estrinseca, dovuta ai medicinali prescritti per trattare un’altra malattia. «Lo stress e la sensazione di fatica che avverti, i pensieri intrusivi – tutto questo proviene dal tuo corpo che reagisce a una minaccia percepita,» mi spiega uno specialista.

Alcune persone si ammalano e la loro apertura alla grazia e alla gentilezza aumenta. La mia esperienza è stata diversa. Quando il virus ha cominciato a infuriare sul mondo, io vivevo da sola con cupa soddisfazione da anni.

Il mio cane, nel pieno della sua demenza, gira attorno alla stanza senza sosta e senza uno scopo. Usciamo e traccia degli otto sotto la pioggia per un po’, annusando l’odore di bagnato sull’asfalto. Il suo costante vorticare è una manifestazione così precisa del mio stato mentale che lo interrompo per salvare entrambi, prendendolo in braccio e portandolo a letto, le sue zampe frenetiche tra le mie braccia. Se lo faccio troppo presto, sguscia via, mi guarda con solennità prima di tornare a girare in tondo. Camminava con uno scopo, dice la gente, intendendo che camminava dritto e non tornava indietro. Quando il cane non si placa, mi siedo sul pavimento. Ogni volta che si volge dalla mia parte, lo saluto con la mano e sorrido, e lui si ricorda di me, mi trotterella incontro, e è felice. 

© Alessia Spina

Vent’anni prima di piantare la sua foresta di palme nell’isola di Maui, W.S. Merwin ha scritto in Naufragio:

La storia è diversa se anche un solo respiro

sfugge per raccontarla. II ritorno da solo

dice che sopravvivere è possibile. 

Mi piace pensare a lui nella piantagione fallita di ananas che aveva comprato nella Pe’ahi Stream Valley, dove aveva messo nel terreno devastato un albero dopo l’altro, ciascuno dei quali seminava una prova che la sopravvivenza non è solo data dalla capacità di ritornare. Merwin non era cresciuto in mezzo alla natura ma a Hoboken. Da bambino, quando scorgeva l’erbaccia spuntare dall’asfalto, era lieto che il mondo reale fosse lì, proprio sotto di lui. 

E poi c’è la dottrina delle idee di Platone, la quale sostiene che, dietro ogni cosa, esiste una forma perfetta e più vera. Sto sperimentando nel credere in questo. 

 

Nel Mar dei Coralli, luglio è inverno. Le balene stanno migrando. Alla fine del mondo il mattino è quieto e latteo, e le foglie non tremano nemmeno sugli alberi, l’acqua è solida come una perla. 

Nella piccola cambusa, mia madre si muove quieta e scura, un’ombra. Le porto il secchio di molluschi che ho trovato scavando la notte precedente, da sola su una lunga spiaggia. In una padella con burro e aglio, le conchiglie pallide tremano e si aprono. Mio padre è chino sopra le carte in mutande, con resina e vernice che luccicano sui peli delle braccia. Lo rendono ruvido al contatto.

Presto, mangeremo insieme a poppa della nostra barca, la Slow Dancer. Dal nostro ormeggio solitario, siederemo con le dita imbrattate di burro e guarderemo rovesciarsi l’alta cascata, troppo distante per essere sentita. Poi, remeremo sul gommone giallo fino alla spiaggia deserta. L’acqua caduta sarà trasparente come vetro, le razze volteggianti su pesci pietra e rocce grigie e ciottoli marroni, e su quell’acqua-vetro niente, se non il debolissimo riflesso dei nostri volti, ornati di corallo e pinne evanescenti. 

 

«Dormiamo con bussole tra le mani,» dice Merwin.

 

Un corpo che fluttua nella prima atmosfera riceve una pressione di un chilo e mezzo per centimetro quadrato. La luce del giorno è vicina, frantumata in pezzi tutt’attorno, e la tua pelle è una mappa di rifrazioni. Nella luce abbagliante retrodiffusa dei bassi fondali, i rumori del mondo conosciuto si zittiscono. I tuoi capelli sono pieni di alghe, tirati e ondeggianti. La maggior parte di noi vive dentro questa misura, i primi 6 metri e qualcosa, ma puoi allenarti a trattenere il fiato un poco più a lungo, a nuotare un poco più a fondo. Il sole è sempre dritto sopra la testa, e per quanto lentamente scenda la luce, scende con dolcezza e persino più lentamente. A dieci metri, guadagni un’atmosfera, e la pressione diventa doppia. Il rumore ora è forte e intenso, vuoto se non quando le urla soffocate e entusiaste arrivano veloci e da ogni direzione. Essere tra le mani del profondo ti può perseguitare. Non c’è calcolo che determini quanto abbiamo bisogno che il mondo insista con noi prima che troviamo consolazione. E come ogni intimità, ti può spaventare con il desiderio di sprofondare. 

Una psicoterapeuta una volta mi ha detto che una persona dovrebbe ricevere almeno dieci abbracci al giorno. 

«Nessuno lo fa», le rispondo. 

© Alessia Spina

Grazie a una ricerca, condotta in modo superficiale e quasi esclusivamente con il telefono durante passeggiate notturne, trovo queste informazioni:

Per le persone anziane la solitudine è letale quanto il fumo o l’obesità. Ritrovarsi soli all’improvviso è peggiore di un isolamento programmato. 

Le donne con più di sessantacinque anni sono il cinquanta per cento in più degli uomini, perciò è più probabile che invecchino da sole. 

Le persone sole si aspettano il peggio.

Vivere da soli non è come essere da soli, ma le due cose vanno di pari passo. 

Un eccesso di cortisolo è un denominatore comune dei problemi di salute di chi è solo. 

Le donne invecchiano in solitudine più degli uomini, ma gli uomini soffrono di più la solitudine. 

Sentirsi soli e isolati è altrettanto nocivo o peggiore della solitudine e dell’isolamento in sé. 

La solitudine è contagiosa: prendersi cura di una persona sola può farti sentire solo. 

Così come prendersi cura di una persona malata. 

Le persone sole e le scimmie “sole” affrontano problemi di salute simili. 

Poiché sono troppo stanca per interpretare con attenzione quello che ho scoperto, i fatti restano disorientanti e opprimenti. Tuttavia, mi sento vagamente soddisfatta perché di rado ho pensato che la solitudine fosse inaspettata. 

Sto ricevendo da amici e familiari che vivono nell’Ovest immagini di cieli arancioni, aria rossa, fumo, e cenere. Sono stata in quattro scuole superiori, una per ciascun anno, e l’ultima è stata a San Mateo. 

Alla mia amica May-lee, che insegna alla San Francisco State, dico che non ricordo di essermi preoccupata degli incendi alla fine degli anni Novanta. Lei mi deve rammentare che, allora, non c’erano incendi di cui preoccuparsi nella California del Nord. Ora il fumo è così denso che può essere visto dall’Europa.  

Vivevamo vicini al mare aperto. Se ci sporgevamo, le nostre mani si toccavano. Ma sono passati più di trent’anni, e siamo stati tutti portati a riva molto tempo fa.

C’è mia madre ora, vicino alla fossa a forma di luna crescente dell’oceano più profondo, sola in un piccolo appartamento. È tornata nelle Marianne Settentrionali nel 1992. Fuori, lo stretto vialetto di cemento è reso quasi impercorribile da un giardino in vaso fuori controllo di lingue di suocera e pervinche e poinsettia giapponese. «Provaci e basta,» mi ripete ogni giorno. «Prova a far crescere qualcosa. Ti farà sentire meglio». Dentro c’è un tavolo basso con santi, candele, e un televisore portatile, che userà per seguire in streaming la Messa domenicale. Quando la predica va per le lunghe, rimane nella sua sedia di plastica e lascia che il pranzo bruci sul fornello. 

E c’è mio padre ora, le membra rigide per il Parkinson, che vive in una casa di bamboo sulle scogliere Bukit di Bali con la sua ottava moglie e un alano di nome Freddy. Mio padre è seduto davanti al computer e scrive le sue ultime volontà. Nelle lettere, si riferisce a sé stesso come al “deceduto”. Mio padre usava la navigazione astronomica per guidarci. Tracciava la rotta. Ad oggi, mio padre potrebbe usare le stelle, l’ellittica dell’orbita annuale del sole, le linee di ascensione retta, e le circonferenze di declinazione per rintracciarmi nelle profondità del suo passato. Dopo tutti i vari paesi, il viaggio senza sosta, ho trovato la strada che conduce alla sua vecchia città natale sulla costa sudorientale della Carolina del Nord a diciott’anni, la stessa età che aveva lui quando è partito. 

Vivo qui da ventitré anni. Lui se ne è andato da sessanta. 

© Alessia Spina

Entrando in cucina, trovo il mio cane con tutte e quattro le zampe nella ciotola dell’acqua, mentre cerca di bere. 

Dopo duecento giorni in isolamento, mi rendo conto che non so chi abbia toccato per ultimo. Un’amica chiama dalla Costa Rica, e decido che potrebbe essere più semplice ricordare persona per persona: 

  1. Mio padre, fuori da un ristorante peruviano a Seattle tre anni fa. Eravamo in città per il matrimonio di mio cugino. La sua decisione di partecipare, all’ultimo minuto, ha sorpreso tutti, soprattutto me. Non era stato negli Stati Uniti da decenni, e io non lo vedevo da almeno uno. Sono sicura che era felice di vederci, ma la ragione del suo viaggio era farsi visitare al Medical Center dell’Università di Washington, dove si sarebbe rifiutato, ancora una volta, di credere ai dottori che gli hanno diagnosticato il Parkinson. Durante la mia ultima notte in città, nella strada piovosa, ci siamo rivolti l’uno verso l’altra e immobilizzati al principio di un abbraccio. La sua mano era grande e forte sul retro del mio collo. Era la faccia che tremava.
  2. Mia madre, al Wilmington Airport due anni fa. Con il mento appoggiato sulla cima della sua testa, ho annusato l’ultima sigaretta che ha provato a rubare mentre non stavo guardando. Siamo sedute su una panchina da un po’ di tempo cingendoci con le braccia. Quando non c’è rimasto più tempo, e mi sono tirata indietro, mi ha colpito forte sulla coscia per tre volte prima di alzarsi. 
  3. Amelia, nel portico anteriore della sua casa al mare, il giorno prima che si trasferisse a Nosara, due anni fa. Ha i piedi appoggiati alla ringhiera e la testa china all’indietro. La sua spalla scaldata dal sole era liscia contro la mia. Stavo leggendo una poesia intitolata Fortino di Robin Beth Schaer, che termina con i versi seguenti: 

Le persone davvero muoiono di solitudine, fame di pelle

La chiamano i dottori. In una ricerca sull’amore

Ai cuccioli di scimmia è stata data una scelta 

Tra una madre di ferro con il latte

E una madre di lana senza latte. Come loro,

avrei scelto di morire di fame e abbracciare un corpo soffice. 

Le stelle marine appartengono a un gruppo di animali marini chiamati echinodermi. Sono cugini dei ricci di mare e dei gigli d’acqua, crinoidi e stelle serpentine. In tutti gli oceani, ci sono quasi duemila specie di stelle marine. Sebbene la maggior parte abbia cinque braccia, alcune ne hanno quaranta. Le stelle marine non hanno cervello. Sono le braccia a pensare. La rigenerazione avviene quando un braccio prende il controllo e la stella si divide di proposito, volutamente in due. 

Quella che è diventata nota per caso come “fame di pelle” si riferisce alla smania neurologica per il  contatto umano. La pressione sulla pelle stimola il nervo vago, che provoca il rilassamento e abbassa il cortisolo. Alcuni tipi di tocco inducono il rilascio di ossitocina, l’ormone che è comunemente associato all’amore. Questo è il motivo per cui le scimmie hanno scelto la madre in filo di ferro rivestita di tessuto leggero anziché quella che offriva il latte. Il tocco abbassa la pressione sanguigna, allevia la fatica, e aumenta la propensione alla gratitudine. Al contrario, la fame di pelle indebolisce il sistema immunitario. L’ippocampo si contrae. L’ipotalamo e la ghiandola pituitaria compiono degli errori. Le ghiandole surrenali reagiscono a informazioni falsate. 

Se non veniamo toccati prima di andare a letto, non dormiamo profondamente, e quando non dormiamo profondamente, il neurotrasmettitore responsabile di ridurre il dolore e lo stress è indebolito. Depressione, ansia, solitudine. 

Eppure, quando il contatto fa del male, persino la più elementare tre le forme di vita si allontana. 

C’è un tipo di mimosa nota come sensitiva o mimosa pudica per il modo in cui si piega e si richiude al tocco più lieve. Da bambina, non mancavo mai di fare scorrere il dito lungo la fragile linea dei suoi rami, divertita da come l’insieme delle foglie si chiudeva all’improvviso.  

 

Una delle poesie più note di Merwin, Separazione, ha solo tre versi:

La tua assenza è passata attraverso di me

Come un filo attraverso un ago.

Ogni cosa che faccio è cucita con il suo colore1

I dottori mi dicono che, nonostante i rischi, il mio improvviso ritrarmi dal mondo potrebbe essere stato una strategia di autoconservazione. «Sei allergica a qualcosa», osserva uno specialista. «Solo che non sappiamo a cosa». 

1 W.S. Merwin, L’essenziale, trad. it. di Chandra Candiani, Roma, Ubiliber, 2022, p. 43.

© Alessia Spina

Sappiamo che persino gli alberi attuano il distanziamento sociale. Gli scienziati, notando dei vuoti nelle coperture forestali, hanno definito il fenomeno “timidezza delle chiome”. 

Seduta a gambe incrociate sul ponte, tiro fuori la Linckia blu dal secchiello e la metto su una stretta tavola di legno scheggiato. Faccio scorrere la punta delle dita sulla pelle spinosa e calcificata della parte superiore, sugli innumerevoli piedi tubolari della parte sottostante. Mio padre non sta provando a insegnarmi come memorizzarne la grana, ma sto imparando la lezione lo stesso. 

Il 14 maggio 2020, ore 21:37, Benjamin Abrams ha scritto:

Ciao. Quando muore uno straniero e deve essere sepolto in Indonesia, qual è la procedura più conveniente? 

Il 15 maggio 2020, ore 14:14 p.m., DS ha scritto:

La cremazione è la più economica, come dappertutto.

Nonostante la malattia possa spingere a ritrarsi, il progressivo decadimento di mio padre lo ha reso molto più desideroso di contatto – una psicologia del tutto in contraddizione con le sue stesse previsioni. «Ti dirò una cosa,» diceva con un filo di voce, «se alla fine mi ammalerò, me ne andrò. Cadrò di sella». Affermazioni del genere, quando sono rivolte a una cinquenne, sono spaventose, ma sembrano il vangelo. «E disfati di me nel modo più economico possibile, bimba. Tirami su e bruciami». 

Oltre a chiamare sé stesso “il deceduto”, mio padre ha cominciato a saltare la “i” in dio. Lo scrive “D-o”.  

La Linckia blu brillante sta placida sulla tavola di legno scheggiato di fronte a me, senza muoversi. La maggior parte delle stelle marine muore dopo pochi minuti fuori dall’acqua, ma non sto guardando l’orologio. Né sono consapevole del fatto che la mia stella marina mi sta guardando con la vista sfocata mentre trattiene il fiato. Con un coltellino, faccio un’incisione lungo il corpo resistente e li lascio cadere sul fondo del secchio, la stella marina e il suo braccio perduto.  

Vivere al tempo di un evidente, inconfutabile, disastro globale comporta che alcune conversazioni non hanno bisogno di una giustificazione. Quando non sto guardando il documentario su Merwin, conduco sondaggi tra i miei amici sulla loro volontà di vivere. 

«Come trovi possibile provare interesse per qualsiasi cosa? È perché hai una figlia?» Posso sentire Nina sorridere dall’altra parte del telefono. Sta facendo la sua passeggiata quotidiana nei boschi con i suoi due Labrador biondi. «È così dura,» dice allegra. «Ma credo di essere una persona piuttosto ottimista». 

Eric sbadiglia e mi chiede di ripetere la domanda. «Non mi interessa niente,» mi dice. Si sente il rumore della televisione in sottofondo. Gli chiedo cosa sta guardando. Una breve pausa prima che dica 90 giorni per innamorarsi. A un certo punto, scrivo al mio editore, che è anche la persona più in gamba che conosca. Mi risponde all’istante: «È complicato, ma è come uno che, pur credendo nel comunismo nel profondo del suo cuore, impara a farsi andare bene un futuro liberista».

Quello che vorrei fare è camminare molto velocemente nel traffico e sdraiarmici in mezzo. Invece, sto inviando a mia madre con fare alquanto imbronciato un’immagine di piante con la didascalia: “Giardinaggio”.

Prima che il batiscafo Trieste toccasse il punto più profondo nella Fossa delle Marianne, abbiamo tentato altri modi per mappare. Abbiamo costruito macchine per fotografare attraverso miglia di acqua e luce evanescente. Abbiamo calato microfoni e messo le orecchie contro gli altoparlanti. Sintonizzati con la furia della Dorsale di Gorda e ascoltando le esplosioni vulcaniche del Juan de Fuca, abbiamo preso appunti su quaderni gialli sul calore degli oscuri fondali marini, su come possa generare una giungla di vita. Ci siamo addormentati cullando radio che diffondevano i canti delle balene. Ci dicevamo, «Questo è nostro». 

Sulla cima di lunghe funi, àncore, eco, abbiamo inviato noi stessi. Prima con lenti di gusci di tartaruga limati, con pinne di foglie di palma e pece su grandi calci a gamba tesa. Ci allenavamo all’apnea, alle piccole morti. Sette minuti, nove minuti senz’aria. Il corpo in blackout, con le membra in convulsione, balla un samba. Eppure, ci siamo appesantiti per scendere più velocemente. 

Tuffarsi da soli con solo un sottile fascio di luce a guidarci prima di cominciare la lenta, ampia risalita. 

Quando il contatto fa male, persino la più elementare delle forme di vita si allontana.

© Alessia Spina

Sono felice di informare che un animale che ti si oppone è un sostituto valido se non identico a una persona. Ho adottato il mio cane più di un dieci anni fa da un rifugio dove stava cercando con molto impegno di uccidersi non facendo niente. Non mangiava, non beveva, non camminava. L’ho costretto a vivere. Mi guardava con solennità mentre lo trasportavo su e giù per le scale del mio condominio a quattro piani senza ascensore, e si spostava con garbo, ma risolutezza quando cercavo di accarezzarlo. Per un periodo di tempo molto lungo, sembrava che il suo unico piacere fosse raccogliere scontrini da dove erano caduti sul pavimento e spostarli circospetto nell’angolo di qualsiasi stanza fosse abbastanza vuota per dormirci.  

Il 19 maggio 2020, ore 1:23, Benjamin Abrams ha scritto:

Possiamo seppellire il corpo. Abbiamo solo bisogno di sapere chi può preparare il cadavere per la sepoltura (imbalsamazione, ecc.)?

Il 19 maggio 2020, ore 23:20, DS ha scritto:

Chiedi all’ospedale dove è morta la persona. Faranno una segnalazione. 

Il 19 maggio 2020, alle 15:08, Benjamin Abrams ha scritto:

Buona idea Danielle. Farò un tentativo, anche se il defunto non morirà in ospedale. Sta per decedere a casa. 

W.S. Merwin è morto l’anno scorso a marzo (2019, N.d.T.), un evento di cui ha scritto nel 1993. Nella poesia, la pioggia cade per tre giorni e mentre cade, l’io lirico immagina come trascorre, tutti gli anni, il giorno della sua morte. Si materializza un rito che non è meno importante per essere senza origine o scopo. La percezione può essere ingannevole. Per essere combattuta, la solitudine non deve essere prima percepita? E in ogni caso, non sto avendo molta fortuna nel trovare studi che quantifichino la guarigione una volta che si è concluso un lungo periodo di isolamento. 

In pieno oceano, riportavamo danni trascurabili: scottature, tagli, infezioni. Solo quando navigavamo a vela o col brutto tempo, mia madre e io soffrivamo per poco di mal di mare. Le spalle di mio padre si lussavano così spesso che i tendini avevano avuto bisogno di interventi chirurgici che avevano lasciato cicatrici argentee a forma di luna calante e crescente sulla sua pelle. Quando si muoveva nel modo sbagliato e qualcosa si spostava mentre eravamo lontani dalla terraferma, tuttavia, toccava a mia madre mettere il piede nella sua ascella e tirare con tutte le forze fino a quando sentivamo l’osso ritornare con un clic nella sua sede. Anche i dischi della sua schiena si spostavano, di tanto in tanto. Poiché questo non poteva essere aggiustato velocemente, zoppicava per settimane con l’aiuto di un vecchio remo. I nostri cassetti erano pieni di kit di pronto intervento e guide mediche che spiegavano come sistemare un osso, come rimuovere un’appendice scoppiata, come amputare. Tutto sommato, eravamo fortunati. I nostri corpi erano snelli e scuri e forti, la nostra vista buona. Vivevamo su angoli acuti e mantenevano il nostro equilibrio. Sbarcare era strano. Ci mettevano in fila per i biglietti del cinema a Sydney con i capelli arruffati e i vestiti rigidi per il sale e con il ruggito dei venti oceanici nelle orecchie. Non ricordavamo mai bene il primo film che guardavamo, qualunque fosse. Eravamo andati oltre noi stessi in qualche strano modo, e ci serviva tempo per rimetterci in pari.

Nell’estate del 2013 dei sommozzatori hanno notato che la popolazione di stelle marine lungo la costa pacifica del Nord America veniva decimata, non da un predatore, ma da un suicidio di massa. Stelle marine ocra e stelle girasole, le giganti rosa e le stelle del cuoio, le vermiglie, le stelle del pipistrello e del sole e le stelle screziate, dalle abitanti del mare profondo a quelle delle zone intertidali – tutte si stavano uccidendo nel modo più grottesco. Video pubblicati on line mostravano a spettatori inorriditi la velocità con cui le stelle si infliggevano ferite e si legavano in nodi prima che le loro braccia si allontanassero senza rimedio in direzioni opposte e si lacerassero. Dall’Alaska fino al Messico, milioni di stelle marine stavano morendo, lasciandosi alle spalle solo spine e viscidume.

© Alessia Spina

Quando la terra non è più in vista, il mondo si muove a velocità differenti. Velocità massima, poi un arresto. Le nuvole scivolano via, il mare sale e scende. Atolli, banchi di sabbia, fondali bassi, paesi vanno e vengono. Le vespe fanno il nido nelle vele e precipitano in larghi sciami dalla boma. Il vento, pregno di sale, deposita scaglie grigie sulla pelle. Se non navighiamo con il brutto tempo, trascorro le notti sul ponte con quel che rimane della luce visibile allungato sopra di me. La luna si riempie, e il pesce volante salta fuori dalle onde, colpendo il mio sacco a pelo come per salutare. Al mattino carico a bordo cumuli di corpi argentati. I delfini fanno a gara con noi. A prua, prendono il volo. Aggrappata all’acciaio della battagliola, mi abbasso il più possible, cercando di toccare l’acqua con i pollici. Arrivano anche le balene. Per lo più capodogli e megattere, con i dorsi incrostati di conchiglie e rovinati che talvolta emergono sotto i miei piedi senza preavviso, mentre scatto indietro.  

Quando le loro grandi code e i loro alti sfiati ci circondano, mio padre spegne il motore e scivoliamo nel silenzio fino a quando se ne vanno. Le giornate sono lunghissime. Vediamo squali tigre crogiolarsi al sole. Nell’oceano non c’è un colore uguale all’altro. Troviamo baie illuminate dalla fosforescenza tanto che ogni goccia si muove con la luce, e uno spruzzo nel buio brilla come corallo. Il braccio nel secchiello giallo è diventato una cometa. 

Quindici minuti prima di morire, il poeta Seamus Heaney ha mandato un messaggio a sua moglie, Marie Devlin. «Noli timere», ha scritto. «Non avere paura». 

Il mio cane è un suo omonimo. Si riposa solo addossato a me. Nasconde il muso sotto la mia maglia. Dormo con una mano sul suo cuore. 

Quando Eric chiama, sto leggendo qualcosa chiamato propriocezione. Gli racconto che si riferisce al modo in cui percepiamo i nostri corpi nello spazio. I tentativi che abbiamo fatto per conoscere le nostre posizioni, pensando anche con le nostre braccia. La speranza che ci potessero condurre a un significato e a uno scopo. Eric stava ascoltando dei podcast buddisti. Mi sta chiamando per suggerire che potrei stare “fondamentalmente bene”. 

Ho chiamato “cometa” il braccio nel secchiello, ma la verità è che non posso essere certa che la mia Linckia sia sopravvissuta. Le stelle marine possono impiegare mesi e anni per rigenerarsi, e non riesco più a ricordare con precisione il suo destino di quanto possa ricordare l’ultima volta che ho stretto la mano della mia migliore amica. 

Siamo sempre stati ossessionati dall’annichilimento. Disegnavamo disastri sulle pareti delle caverne e nella polvere con dei bastoncini. Raccontavamo storie che vincolavano le nostre origini alla distruzione, ma tutto il nostro studio e la nostra immaginazione non ci possono dare le espressioni giuste. Nel nostro vocabolario in costante trasformazione, un campo semantico sembra espandersi più velocemente del solito. I biologi si aggirano con i cronometri attorno agli ultimi di una specie, e noi diciamo ‘ultimo esemplare’ (endling, N.d.T.). Quando una colonna di aria, che vortica rapidamente ed è mossa dal fuoco, tocca sia il cielo che la terra, aggiungiamo tornado di fuoco al dizionario del clima. 

Blissonance significa godere di un giorno invernale insolitamente caldo, pur essendo fin troppo consapevoli della sua ben più triste causa. 

Fotminne, in svedese, allude alla ‘memoria del piede’. Una connessione con gli antichi che hanno camminato sulla terra prima di noi, sapendo che l’hanno cambiata e che oggi i nostri passi hanno un rapporto contrattuale con il suolo sotto di noi. 

Flugscham, in tedesco, è il senso di colpa che una persona può avere per viaggiare in aereo.  

Solastalgia, parola coniata dal filosofo e ambientalista Glenn Albrecht, descrive la sensazione di nostalgia di casa che avvertiamo mentre osserviamo il nostro ambiente cambiare e scomparire. 

© Alessia Spina

L’Olocene, che deriva dalla parola greca holos, ‘intero’, brilla alle nostre spalle. L’epoca in arrivo, segnata dalla perdita di molte specie, è stata definita da E.O. Wilson Eremocene. O l’era della solitudine. 

Dopo sette anni, non sappiamo molto di più della sindrome da deperimento della stella marina di quanto ne sapessimo quando è cominciata. Forse un virus, con molta probabilità originato dall’innalzamento delle temperature. Un biologo marino, che ha osservato le stelle marine morenti, ha affermato che era come se le braccia si contorcessero per nascondere le ferite. 

Alcune conseguenze della morìa di massa, una delle più gravi nella storia del mare, stanno diventando evidenti. La stella girasole è ora estinta a livello territoriale, dalla California fino alla British Columbia, un’area che costituisce il suo habitat naturale. Mentre la stella marina più grande del mondo si sta riducendo all’ultimo esemplare, i ricci viola stanno diventando numerosi e affamati. Gli incendi hanno bruciato quasi tredici milioni di ettari di bosco, ma è scomparso il novanta per cento delle meno visibili foreste di alghe al largo della costa della California. 

Gli esseri umani possono sopravvivere a una pressione compresa fra le tre e le quattro atmosfere, fino a una profondità di circa trenta metri, ma questo non mi ha aiutato per niente a capire come, nel 2007, Herbert Nitsch sia riuscito a raggiungere i 213 metri in apnea. 

Mi è occorsa buona parte della mia vita per apprezzare il modo in cui mettiamo le mani sul mondo. Mio padre ha inchiodato alcune delle stelle di mare che ho portato a casa su un asse di legno, dove si sono seccate e hanno perso il loro colore. 

Spiove nel giorno dell’equinozio autunnale. Indugio nell’aria fresca e pulita più a lungo di quanto intenda farlo, dividendo i germogli delle piante di aloe. La cena è ancora sul fornello quando Seamus incomincia a diventare irrequieto. Mentre la sua corsa prende velocità, accendo tutte le luci e mi siedo dove so che mi troverà.

Scrivere ‘sopravvivenza’ e osservarne svanire le lettere. L’etimologia sottolinea che non si può raggiungere la sopravvivenza vivendo, ma solo vivendo oltre, superando la morte. Abbiamo cercato molti rifugi per non svanire. Quando non erano visibili, li abbiamo costruiti noi stessi usando altre, più amabili parole – la Dimora dei Santi, le Isole dei Beati. Tuttavia più convincente di qualsiasi visione di intatto paradiso è per me la prima legge della termodinamica, l’unica che abbia mai capito, che ci dice che l’energia non può essere distrutta, solo trasformata. Questo per me è un porto di più grande speranza: dietro ogni forma, un altro corpo avanza. 

Nell’Era della Solitudine, alcuni dei nostri fiori più variopinti saranno, come lo sono oggi, quelli che chiamiamo seguaci del fuoco – papaveri occidentali, Xanthorrhoeae australiane, malvarose selvatiche – tutti germoglianti da semi che giacciono dormienti sottoterra in attesa di un incendio. Posso vederli fiorire tra la cenere di un bosco distrutto con la stessa chiarezza con cui vedo la mia mano allungarsi verso una stella marina nell’acqua poco profonda.

L’originale inglese, pubblicato il 16 novembre 2020, può essere letto su Orion Magazine, a questo link: https://orionmagazine.org/article/brittle-stars/

Hannah Dela Cruz Abramsha ricevuto nel 2013 il Whithing Writers Award per il romanzo The Man Who Danced with Dolls e per il memoir a cui sta lavorando, The Following Sea. Ha inoltre ricevuto il sostegno del Rona Jaffe National Literary Award e della North Carolina Arts Council Fellowship. I suoi testi sono stati pubblicati in Orion, Oxford American, StoryQuarterly, The Pinch, Southern Humanities Review e altrove. Attualmente Abrams insegna Inglese presso la University of North Carolina Wilmington.

Hannah Dela Cruz Abrams received the 2013 Whiting Writers Award for her novella The Man Who Danced with Dolls and memoir-in-progress The Following Sea. She has been further supported by a Rona Jaffe National Literary Award and a North Carolina Arts Council Fellowship. Her work has appeared in Orion, the Oxford American, StoryQuarterly, The Pinch, Southern Humanities Review, and elsewhere. Abrams currently teaches in the Department of English at the University of North Carolina Wilmington.

L’acqua invade questa serie fotografica di Alessia Spina; elemento che esercita l’occhio a non prendere mai per buono quel che ha davanti, a scambiare continuamente sfondo e primo piano, ad attraversare la presenza umana che nel flusso si fa sempre meno materica. Intersezioni corporee sembrano apparire e scomparire dall’obiettivo, lampeggiano, emergono informi, lontano da una realtà che ora è solo un pensiero. Lo sguardo sprofonda nell’azzurro radioso lasciandosi dietro residui di domande, bisogno di consolazione, ricordi corrotti, per andare incontro a un’esperienza essenziale e perenne come l’elemento in cui è immersa la lente fotografica. Il corpo idrico addolcisce ogni movimento, erode un pensiero indurito dalla frizione coi giorni, mescola, colma, allaga suoni e parole. Ogni storia è aperta, non può avere né inizio né fine, ogni cosa è la continuazione dell’altra; un concetto che abbiamo solo appreso, sul quale smettiamo di ragionare una volta sotto la superficie dell’acqua. 

Maria Teresa Rovitto

Water is invasive in Alessia Spina’s photographic series; it is the element which teaches the eye not to take for granted what it sees, to continuously swap places between background and foreground, to pass through human presence, which is less and less solid in the flux. Bodily intersections seem to appear and disappear from the lens, they flashes, spring up shapeless, far away from a reality which is now just a thought. The gaze dives deep into the radiant blue leaving behind leftovers of questions, the need of being comforted,  polluted memories, aiming to move forward to an essential experience which is eternal like the element the photographic lens is plunged in. The watery body softens every movement, wears away the thought made harder by the rubbing on days, it mingles, fills up, floods sounds and words. Each story is open, it cannot have either beginning or ending, each single thing is the following part of another; this is a concept we have just understood and about which we stop thinking once we dive underwater.

Maria Teresa Rovitto

Alessia Spina. Nata a San Benedetto del Tronto, classe 1989. Fotografa per non implodere. Vive a Milano, è accompagnatore turistico, ha una formazione da interprete e traduttore, lavora in ospedale. Scrittura creativa e scientifica sono passioni che cela dietro un profilo variopinto. Nel 2016 frequenta una scuola di fotografia, Bottega Immagine,e nel 2018 segue un workshop di Water & Surf Photography con Silvia Potenza, e un corso di camera oscura. Nel 2019 frequenta il laboratorio fotografico Isozero2 con Efrem Raimondi. Fotocamere del cuore: Voigtlander VitoII, Canon AE1. È attualmente iscritta alla Facoltà di Scienze e Tecniche Psicologiche. L’obiettivo è quello di coniugare fotografia e psicologia, arte e scienza.. Libri fotografici: Il Paesino Racconta i Suoi Eroi, reportage sul suo paesino di origine, Monteprandone; Oktobermess, reportage sulle tre fasi di una sbronza all’Oktoberfest; Routine”, autoritratti sulla vita di coppia; Pandemonio”, ritratti sugli attacchi di panico.

Alessia Spina. Born in San Benedetto del Tronto, in 1989. She takes photos so as not to implode. She lives in Milan, she is a tourist guide, she studied to become an interpreter and translator, she works in a hospital. Creative and scientific writing are interests she hides behind a motley profile. In 2016 she attended to a school of photography, Bottega Immagine, and in 2018 she did a workshop of Water & Surf Photography with Silvia Potenza, and a class about the darkroom. In 2019 she attended the photographic lab Isozero2 with Efrem Raimondi. Her favourite cameras: Voigtlander VitoII, Canon AE1. Nowadays she is enrolled in the Faculty of Psychology. Her aim is to link photography to psychology, art to science. Photographic books: Il Paesino Racconta i Suoi Eroi, areportage about her hometown, Monteprandone; Oktobermess, areportage about the three steps to drunkenness at Oktoberfest; Routine, self portraits about life as couple; Pandemonio, portraits about panic attacks.

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