Stelle effimere. La vita nasce da mari profondi e da fuochi nuovi. Ipertesto

a cura di Aurora Dell’Oro

© Alessia Spina

Per raccontare le foreste occorre una lingua dimenticata

La poesia di William Stanley Merwin

In un vecchio documentario girato alla fine degli anni novanta, Merwin siede sulla veranda di casa. A dire il vero, della veranda si vede appena qualche trave di legno; il bordo di un tavolo; uno schienale di sedia. Perciò, più che vedersi, la si indovina. Il poeta, invece, è in primo piano. Rimane così per tutta la durata dell’intervista. Ha superato la mezza età; ha gli occhi azzurri; i capelli brizzolati, bianchi; e indossa un cardigan nero. Sembra timido. Dev’essere inverno, forse autunno. La sua immagine si alterna a quella di una foresta lussureggiante, intensamente viva: alberi ad alto fusto che non riesco a riconoscere, felci carnose, corsi d’acqua. Mi chiedo se troverei lo stesso verde, se oggi m’imbarcassi su un volo per Haiku, Maui. 

Merwin, che è morto nel 2019, ci si era trasferito nel 1977, ma alle Hawaii c’era arrivato prima, nel 1971, per studiare buddismo zen. Insieme alla moglie, Paula Schwartz, avrebbe poi acquistato un’ex piantagione di ananas. Ogni giorno ci piantava un albero. Un albero e settantacinque versi, da scrivere e tradurre, rispettivamente; ogni giorno. La posologia gliel’aveva data Pound: era il 1946, era il manicomio criminale di Washington D.C. 

Forse è stato durante quella visita, o durante l’anno passato nel reparto psichiatrico della Chelsea – pegno da pagare per avere lasciato la Marina, dopo essersi arruolato volontario – che il poeta ha cominciato a riflettere sul concetto di separazione. A riflettere sull’uomo, unica specie separata dalla natura. 

Dice Merwin che per raccontare le foreste occorre una lingua dimenticata. Che il linguaggio è figlio della natura; e che se una soffre, l’altro s’impoverisce. 

Ma che a ben vedere è solo una la storia da raccontare; solo una, o nessuna.  

Alla fine dell’anno le stelle si spengono
L’aria smette di respirare e la Sibilla canta
Per prima canta l’oscurità che può vedere
Il suo canto continua finché arriva all’epoca
Senza tempo e al buio che non può vedere
[…]
Una luce che da lontano entra negli occhi
Dove inizia prima che lei possa vederla

Arde attraverso le parole a cui nessuno ha creduto 

(da W.S. Merwin, L’essenziale, trad.it. di Chandra Candiani, Roma, Ubiliber, 2022, p. 133)

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