di Morgana Chittari

© Dario Fiorentino
Eludere il paradigma
«Eludere il paradigma è un’attività ardente, che brucia1» scrive Roland Barthes.
Ho conosciuto molte persone androgine nella mia vita e ne sono sempre stata attratta. Non mi riferisco al mero dato estetico, ma al modo di portare nel mondo un corpo che, in una società ancorata alle dicotomie e alla cristallizzazione dei ruoli, diventa rivoluzionario proprio in quanto enigmatico.
Mi soffermo sul sostantivo αἴνιγμα (dal verbo greco che indica il “parlare per indovinelli, oracoli”, a sua volta dal maschile αἶνος, racconto, favola, discorso allegorico): parola neutra che, costringendo a indugiare e domandare, promette gioco, mistero e sfida; parola che si fa creatura che non chiede di essere illuminata ma si nutre della propria ineffabilità e oscurità. Penso alla carica sensuale che l’androgino emana, alle reazioni suscitate in chi guarda e si domanda, con malcelata inquietudine, «Uomo o Donna?». Non di rado le creature androgine mettono in atto comportamenti seduttivi in modo spontaneo, compiacendosi delle reazioni di chi le osserva. L’androgino, dunque, come Sfinge: vertigine che ci sfida a scoprire ciò che vuole restare nascosto, a domandare continuamente senza cedere a facili e confortanti soluzioni.
«Definisco il Neutro come ciò che elude il paradigma […] il paradigma è la molla del senso; là dove c’è un senso, c’è un paradigma, e là dove c’è un paradigma (opposizione) c’è un senso ➝ detto ellitticamente: il senso si basa sul conflitto (la scelta di un termine contro l’altro) e ogni conflitto è generatore di senso: scegliere l’uno e respingere l’altro, è sempre sacrificare al senso, produrre senso, darlo da consumare2» prosegue Barthes spiegando che il binarismo (A oppure B) nei sistemi linguistici viene superato dal ricorso a un terzo termine che si presenta come A + B o come neutro, né A né B.
«[…] per me il Neutro non rinvia a ‘impressioni’ di grigiore, di ‘neutralità’, d’indifferenza. Il Neutro – il mio Neutro – può rinviare a stati intensi, forti, straordinari3». Barthes mi offre la possibilità di dare solide radici al mio discorso intorno al desiderio di neutralizzazione del genere come forma di arricchimento e non di annullamento, di produzione di senso e non di svuotamento.
1 Roland Barthes, Il Neutro, Corso al Collége de France (1977-1978), Mimesis, Milano 2022, p.82 2 Ivi, pp. 80-81 3 Ivi, pp. 81-82
Quelli che verranno dopo
Penso alla mia tensione interiore verso l’ambiguità, ai modi in cui l’ho esplorata. Sentirmi non A e non B. Non parlo solo di identità sessuale ma di desiderio. In coloro che ho amato e desiderato ho cercato sempre un elemento che evidenziasse il contrasto: se uomini, amavo quelli dotati di tratti caratteriali e/o fisici che ne negassero, almeno in parte, la mascolinità; discorso inverso per le donne. Quando, una volta compresa e accolta, ho dichiarato la mia bisessualità a conoscenti, amici e parenti mi sono piovute addosso le domande di rito. «Ti piacciono le donne, allora sei lesbica?»; «Sei insoddisfatta?»; «Sei indecisa?»; «Non sei bisessuale, sei solo confusa»; «Relazione aperta?»; «Allora non ti vuoi impegnare?»; «Significa che non ti innamori?». Quest’ultima frase in particolare, detta a una che si innamora ogni giorno dieci volte al giorno, faceva ridere. All’inizio mi infastidivano, poi sono diventati la mia barzelletta preferita. Ero felice di aver “inventato” (sì, inventare è la parola esatta, perché racchiude e dischiude l’etimologia di “trovare” e insieme l’atto della creazione) la radice profonda del mio desiderio: volevo gridare al mondo che la bisessualità era una parte essenziale di me, mi qualificava come creatura in grado di danzare sul confine e, al contempo, in grado di bastare a sé stessa.
Dico “bisessualità” per semplificare: non sapevo che in seguito non sarebbe bastata. Oggi, con più consapevolezza, parlerei di pansessualità. Esiste questa parola, “pansessuale”, più adatta a una persona come me, eppure insufficiente, perché in quel suo essere così “tecnica”, ancorata alla tensione del corpo, la percepisco come parziale. Mi pare che non riveli pienamente il desiderio di cui parlo: collocarsi sulla soglia, la stessa soglia in cui dimora l’androgino.
In Middlesex di Eugenides c’è un dialogo tra la donna ermafrodita e il protagonista:
«Io voglio che la gente sappia, Cal» «Perché?» Zora ripiegò le lunghe gambe sotto di sé. Con i suoi occhi da fata mi lanciò un’occhiata gelida e disse: «Perché noi siamo quelli che verranno dopo4».
Il desiderio «che la gente sappia» qualifica l’androgino. Non di rado appartiene anche alla persona transgender, che di fatto non intende effettuare la transizione (cioè modificare il proprio corpo) ma desidera essere identificata secondo il genere percepito. Artisti e scrittori provano per la figura dell’androgino una grande fascinazione: spesso la associano a un essere superiore, capace di portare la mente umana in territori inesplorati: «quelli che verranno dopo» in Eugenides sono coloro che apriranno strade mai battute prima. Trovo questa visione dell’androginia piena di possibilità per il futuro. Chi si fa carico di aprire nuove strade all’inizio viene deriso. Ne L’uomo senza qualità Musil fa dire al protagonista: «ci guarderanno mezzo commossi mezzo ironici come sempre accade quando qualcosa gli ricorda i misteri della loro creazione5».
Ancora ne La montagna incantata di Mann, il tema viene associato al processo alchemico. Hans Castorp dialoga con il gesuita Naphta che, parlando dell’androginia, dichiara: «Purificazione, trasformazione e nobilitazione della materia, transustanziazione in una forma più elevata, accrescimento dunque… il lapis philospohorum, l’androgino prodotto di zolfo e mercurio, la res bina, la bisessuale prima materia, altro non è, né più né meno, che il principio dell’accrescimento, dello sviluppo dovuto a influenze esterne, verso una forma superiore…6». Ed ecco il riferimento all’androgino come creatura superiore: un altro modo per dire creatura «che verrà dopo».
Facciamo un passo indietro e consideriamo le riflessioni racchiuse nel saggio di Barbara Mapelli in cui l’androgino (lat. androgy̆nus, gr. ἀνδρόγυνος, comp. di ἀνήρ ἀνδρός «uomo» e γυνή «donna») non è inteso solo come sinonimo di ermafrodito ma indagato come creatura integra e stabile nel suo disequilibrio, paga del suo abitare la soglia tra i sessi, molto simile a quelli che in botanica sono i fiori monoclini, i cui pistilli vengono fecondati dal polline dello stesso fiore. La crisi non è dell’androgino che guarda sé stesso, ma di chi lo guarda. L’essere umano che non riusciamo a identificare subito come «certamente uomo» o «certamente donna» ci disorienta e, al contempo, impone una riflessione necessaria. Se abbiamo bisogno di rispondere subito alla domanda «Uomo o Donna?» è perché la domanda ci ossessiona da secoli e continua a ossessionarci perché non riceve risposta. E se alla domanda la creatura androgina risponde «L’uno e l’altra, in base al mio diletto» troverete chi si sente preso in giro. Ma l’androgino dice la verità. Una verità ambigua ma reale. Essere completo, che non manca di nulla. Crasi di ogni possibile. Facendo dell’erranza uno stile di vita, l’androgino ci interroga con la sua semplice esistenza. Esemplificare nel corpo il diritto alla fluttuazione rende libero non solo il portatore di quell’ambiguità, ma anche chi lo guarda. Se guardare è un modo di comprendere l’altro e accoglierlo, allora l’androgino è necessario affinché ogni essere umano si interroghi sulla propria appartenenza di genere.
Anche qualora si decida di restare fermi su una posizione univoca per tutta la vita. L’atto del domandare conta.
4 Jeffrey Eugenides, Middlesex, (citato in B. Mapelli, L’androgino tra noi, Ediesse 2015) Mondadori Milano 2008, p. 558 5 Robert Musil, L’uomo senza qualità, (citato in B. Mapelli, L’androgino tra noi, Ediesse 2015) Einaudi 1962, p. 877 6 T. Mann, La montagna magica, (cit. in B. Mapelli, L’androgino tra noi, Ediesse 2015) Mondadori Milano 2011, p. 755

© Dario Fiorentino
Il corpo del desiderio e il desiderio del corpo
Io sono perfettamente donna, dal punto di vista estetico: mi sarebbe piaciuto nascere anche con tratti fisici maschili e ammetto di aver praticato la boxe sull’onda dell’emulazione di pugili come il Toro del Bronx Jake La Motta, il rissoso Rocky Graziano, lo schivo e monacale Rocky Marciano, l’elegante Joe Louis. Quando mi accostai alla boxe per la prima volta avevo una visione simile a quella di Joyce Carol Oates, che considera questo sport come simbolo dell’attributo maschile per eccellenza: l’aggressività. Non solo. C’era un altro elemento che mi seduceva. Oltre a essere, ai miei occhi, il più maschile degli sport, la boxe è anche il più solitario: l’idea che il pugile salga sul ring prima di tutto con sé stesso corrisponde alla realtà; lo dimostrano le centinaia di ore di “vuoto” (tipico allenamento in cui si danno pugni senza guantoni, senza sacco né sparring partner), di modo che l’avversario sia tu.
«Il pugile affronta un avversario che è una distorsione onirica di sé stesso, nel senso che i suoi punti deboli, le sue probabilità di fallire e di farsi seriamente male, i suoi errori di calcolo, tutto può essere interpretato come punti forti dell’Altro […]. Lui è il mio io-ombra, non la mia (semplice) ombra» scrive Oates7.
La scoperta della bisessualità ha coinciso per me con un periodo di grande disequilibrio, non solo dal punto di vista emotivo. Il desiderio di scolpire e modellare il proprio corpo può diventare possente quando si percepisce che qualcosa della realtà esterna ci sfugge, è fuori controllo; per compensare, si tenta almeno di gestire la realtà minima della propria carne, lo spazio minimo del proprio corpo. Sentivo che il mondo che conoscevo stava andando in frantumi e non avevo idea di come gestire la metamorfosi che si annunciava. Se scavo in quegli anni trovo soprattutto un sentimento: la rabbia. Rabbia per non aver compreso prima il desiderio del mio corpo, per averlo represso e ignorato. Rabbia per aver compiaciuto gli altri più che me stessa. Rabbia per non aver reagito a soprusi psicologici intollerabili. In quel momento bramavo la libertà di essere selvaggia e feroce – una donna feroce – e dimostrare, a me stessa prima di tutto (al mio «io-ombra») che ero in grado di riscattarmi, di recuperare il tempo perduto. Volevo uno spazio in cui essere solitudine feroce insieme ad altre solitudini feroci senza essere giudicata meno donna. Volevo vedere legittimato il mio corpo aggressivo. Restando donna bramavo la libertà concessa agli uomini di essere rabbia e sudore. Ero determinata ma confusa. Mi serviva uno spazio da dominare, dove le regole del gioco selvaggio erano chiare, stabilite a priori. Per una persona che ha appena iniziato a conoscersi il mondo fuori è uno spazio troppo grande, troppo difficile da dominare.
La palestra di pugilato era il mio pianoforte, era la tastiera che potevo imparare a suonare, lo spazio in cui potevo sublimare e governare l’aggressività e il desiderio. Fin da ragazzina ero sempre stata attratta dalle storie dei pugili: consumavo libri, film, cronache dei match, gli articoli di Gianni Minà, le biografie dei grandi, i neri soprattutto. Leggevo la boxe, studiavo la boxe, amavo la boxe e trovavo solo uomini. Eppure, entrai in palestra per la prima volta grazie a una donna.
7 Joyce Carol Oates, Sulla boxe, trad. di L.M. Pignataro 66thand2nd Roma 2015, p. 21
L’amplesso tra maschile e femminile
Fui attratta dall’idea di praticare la boxe poco dopo aver scoperto la mia bisessualità e non sarebbe potuto accadere prima, perché non esiste un “prima” in fatto di consapevolezza del desiderio: come se, prima di boxare e innamorarmi di una donna, avessi sempre avuto una conoscenza approssimativa e incompleta di me stessa. Se decisi di praticare è anche perché percepivo la boxe – questa lotta tra due creature che culmina in un abbraccio – come il correlativo oggettivo della lotta e dell’amplesso tra maschile e femminile che si consumava dentro di me. Mi è impossibile parlare di desiderio senza pensare al pugilato. Le persone tendono a sfuggire il dolore – quante volte mi sono sentita domandare «Ma perché proprio la boxe? Ma chi te lo fa fare?» – mentre io gli andavo incontro a braccia aperte. Volevo conoscere tutto di me, a ogni costo, sentire fino a che punto potevo spingere i limiti del mio corpo, e avevo i minuti contati: avvertivo il peso del tempo perché troppo ne avevo “perso” senza sapermi. Nella boxe il tempo è tutto e il pugile ne è ossessionato: tempo è il ritmo della danza, il minutaggio dei round e del riposo all’angolo; tempo è il conteggio dell’arbitro quando vai al tappeto: quando un pugile è al tappeto si dice che è “fuori dal tempo”; e “fuori i secondi” dichiara l’arbitro per segnalare l’inizio della ripresa, dire ai pugili di avvicinarsi al centro del ring. Il tempo percepito durante il match è dilatato: venti minuti sembrano venti ore. Iniziando a boxare scoprivo di essere ossessionata dal tempo (e dalla morte, naturalmente. «Sapere che si è mortali significa morire due volte, anzi, tutte le volte che si sa di dover morire» scrive Cioran8). Quindi, essere nel tempo, essere donna feroce e selvaggia, modellare il mio corpo a immagine e somiglianza del corpo dei pugili amati: queste, le ragioni che mi spingevano a boxare. Oates indaga spesso le derive delle dimostrazioni egotiche del maschio in competizione; i suoi articoli sul pugilato hanno tutti lo stesso sottotesto: la boxe è uno sport per uomini, espressione di ego tipicamente maschile. Il padre la portava con sé ad assistere agli incontri e la piccola Joyce si sentiva al contempo attratta e respinta dalla brutalità tipica di questo sport, come si è sedotti e intimoriti dalla violenza e dalla guerra. Ma violenza e istinto “polemico” (da πόλεμος, guerra) sono connaturati all’essere umano, e questo Oates lo sapeva bene. Come sapeva, e tutti noi lo sappiamo, che storicamente la violenza, l’aggressività e la guerra sono sempre stati connessi alla natura maschile. Non a caso era la mia “parte maschile” a voler boxare. Entrai in palestra per far esplodere anni di rabbia e desiderio repressi e volevo lo scontro, l’impatto dei colpi; volevo la catarsi del gesto violento ma non volevo far del male a nessuno: il sacco non prova dolore, il Mister sta lì davanti a te col paracolpi per allenarti a picchiare duro usando tecnica, riflessi ed equilibrio. Volevo praticare una violenza che fosse disciplinata e metodica a tal punto da nobilitarsi ad arte. Alla vita ho chiesto di meno. Oates considera la vita metafora della boxe. Non il contrario. La boxe è metafora solo di sé stessa. La boxe non è la vita, è «più della vita», dice Oates, e questo “più” io lo bramavo. Dalla fatica pretendevo forma, precisione, bellezza e invidiavo il corpo dei pugili perché a loro era concesso di essere nobili e brutali. Boxavo per somigliare, in corpo e spirito, ai pugili che ammiravo, perché la boxe è davvero uno sport elegante nella sua ferocia. Lo strumento del pugile è il suo corpo. Siete mai entrati in una palestra di boxe? Sentirete parlare in continuazione di come prendere o perdere peso, soprattutto dagli agonisti. Il pugile è ossessionato dal modellare le proprie membra per rientrare nella giusta categoria di peso e gareggiare. In quel periodo della mia vita, in cui mi sentivo abitata da nuovi furori e desideravo una metamorfosi totale, anche la forma del mio corpo divenne un’ossessione. Invidiavo le gambe nerborute e il petto gonfio degli uomini ed entrai in palestra sperando di scolpire i muscoli e rendere le braccia forti e robuste. Invece mi si strinsero i fianchi. I miei jab non raggiunsero la potenza d’impatto di quelli di Nino o di Tony ma il mio fiato e la mia resistenza alla fatica migliorarono visibilmente; allo sparring con i compagni preferivo il sacco o il focus pad perché lì potevo essere selvaggia. E poi c’erano loro, Desi e Ludo, che mi riportano prepotentemente al corpo dell’androgino, e al motivo per cui restai in palestra più del previsto.
Immaginatele ora, Desiree, una cresta leonina di ricci biondo scuro, e Ludovica, capelli lunghi neri, entrambe alte, magre; Desi fianchi stretti e seni generosi, Ludo una prima di reggiseno; entrambe il volto sottile, le labbra sempre aperte come in procinto di schioccare un bacio. Immaginatele entrare in uno scantinato di Milano adibito a palestra, e immaginate me, un giorno, seguire Ludo dall’Esselunga fino alla scala che porta all’ingresso e poi giù fino allo spogliatoio e poi alla cassa a pagare l’abbonamento mensile; poi giù, ancora più giù, a comprare fascette, paradenti, guantoni; e ancora più giù, tra le loro braccia, le loro carezze, e giù, ancora più giù.
Erano loro l’altro motivo per cui iniziai ad allenarmi regolarmente, tutti i giorni alla stessa ora. Con quelle come me, Desi e Ludo non facevano sparring. Si allenavano solo con il Mister e con gli agonisti, si preparavano a gareggiare. A guardare due uomini combattere ero abituata, ma osservare due donne lottare e sudare come e meglio degli uomini era una novità assoluta. È vero che avevo appena scoperto di essere attratta dalle ragazze ma capii presto che mi interessavano solo quelle come Desi e Ludo, quelle dai tratti marcatamente androgini. Iniziai a cercare copie di Desi e Ludo ovunque; le cercavo per guardarle muoversi ed esistere, per rubare loro il segreto, il mistero, e ricreare in me quella sensazione di sperdimento, farmi piombare nel tempo sospeso dell’infatuazione. Erano la mia droga a buon mercato. Mi accorsi infatti che Milano era generosa nell’offrirmi queste creature. Non le avevo mai notate, prima. Si vede che non ero pronta. Ma ora inseguivo, come Aschenbach di Morte a Venezia di Mann, il loro sorriso.
Desi era bisessuale. Delle due, era la più schiva. Aveva iniziato a boxare e frequentare le donne solo dopo aver rotto con il suo ex: negli ultimi tre mesi della loro relazione lui l’aveva picchiata e lei non aveva saputo difendersi. Era finita in ospedale un paio di volte e si era data la colpa di tutto. Ludo capitò nella sua vita per caso e per fortuna. Erano state amiche, prima di diventare amanti. Dalla boxe Desi aveva imparato la fiducia in sé stessa.
Ludo era orfana di padre e lesbica. Mi disse che le due cose, secondo lei, erano in parte connesse: in casa era sempre mancata una figura maschile di riferimento e quella figura era stata lei; era stata un marito per sua madre, e per sé stessa un padre. Ludo era un animale sociale, una di quelle persone che entra nello spazio e ne sposta l’energia, catalizzandola su di sé. Aveva sempre desiderato le donne. A sedici anni aveva iniziato a praticare la boxe per irrobustire e definire alcune parti del corpo. Ludo rendeva indistinguibili le sue forme sotto felpe taglia XL o camicie da uomo; al contempo amava guardarsi allo specchio quando restava nuda. Era un Narciso e adorava la propria immagine riflessa. Il lesbismo è spesso associato all’androginia e non di rado le persone androgine mostrano di essere innamorate della loro immagine allo specchio: se pacificate con la propria identità di genere, come Ludo, si fanno un vanto del loro corpo ambiguo e si mostrano molto sicure di sé. Ludo aveva piena consapevolezza della propria identità di genere da quando era adolescente. Si definiva gender queer. «Hai il cazzo o la fica?» le chiedevano, e lei non rispondeva, come a voler rivendicare il diritto di sentirsi un’incognita.
Io, che mi sentivo confusa e risoluta, non potevo che innamorarmi di entrambe. Volevo sapere tutto del loro mondo: come parlavano, vivevano, si vestivano, che cibo mangiavano, che musica ascoltavano, quante ore dormivano la notte e soprattutto come facevano l’amore. Due donne, come facevano l’amore? Non facevo altro che immaginare la scena. Desi era la mia fragilità, Ludo il mio desiderio di ostentare. Provammo a frequentarci per un po’, noi tre, e scoprii che, oltre a desiderare le donne, desideravo anche un tipo di relazione diversa dalla coppia tradizionale. Mi piaceva l’idea di stare insieme a entrambe, oppure solo con una delle due per volta.
8 E. M. Cioran, La caduta nel tempo, Adelphi, Milano, 1999, p. 128

© Dario Fiorentino
Il sorriso dell’androgino
Desi e Ludo furono solo le prime. Di persone dalle fattezze androgine continuai a innamorarmi. O almeno così credevo. Qualche volta riuscivo persino a frequentarle per qualche mese ma alla fine non ero più in grado di gestire la relazione. Qualcosa s’inceppava. La verità è che non desideravo il loro corpo o il loro amore. Io volevo essere loro. Le idealizzavo. Mi resi conto che uscivo con loro a bere, a fare la spesa e a fare l’amore come se volessi osservarle al microscopio. Volevo conoscerle per studiarle e capirle, non per amarle. Frequentarle mi permetteva di penetrare oltre il velo, capire se il volto e il corpo ambiguo celavano una natura altrettanto enigmatica e come diventare io stessa quell’enigma. Ero ossessionata da loro perché ero ossessionata da me stessa, dall’idea di penetrare il mio mistero, quanto di me mi era ignoto.
Quando in Morte a Venezia Tadzio gli sorride, Aschenbach pronuncia il rovinoso “Ti amo” a fior di labbra. In Mann c’è una malìa associata al sorriso dell’androgino. Come Aschenbach anch’io accoglievo tutti i sorrisi, di cui le creature androgine sono prodighe. Non so quante volte ho detto “Ti amo” senza pensarci. Naturalmente mi guardavo bene dal dirlo ad alta voce, però lo dicevo e lo scrivevo sui muri, sui taccuini, sulla mia pelle.
Il sorriso dell’androgino si fa metafora della consapevolezza del desiderio. L’androgino è stato maestro di vita. L’enigma mi seduceva proprio perché mi interrogava e io avevo bisogno di domandare a me stessa, incessantemente.
Le persone usano spesso criteri rapidi per stabilire se entrare in contatto con gli altri e farseli amici. Usano l’istinto. Prima catturiamo l’altro con lo sguardo, facciamo una rapida e approssimativa valutazione in base ai tratti del volto, al vestiario, ai movimenti, e proviamo a “inquadrarlo”. Se si prova a inquadrare una persona androgina, resta una domanda, sempre la stessa: «Uomo o donna?».

© Dario Fiorentino
La rivoluzione androgina
Credo davvero che questa “terza forma” di genere includente e inclusiva, visibilmente ambigua, sia in grado di superare gli angusti confini del binomio uomo-donna: su un piano più ampio, si pone come principio estetico, filosofico e culturale di una grande rivoluzione possibile. A prescindere dalle nostre scelte concrete sull’identità di genere, quanto sarebbe liberatorio imparare a giocare e osare di più sul nostro aspetto e non solo? Sfidare la soglia, abitare il confine è un atto politico e poetico. Un gesto di liberazione. La libertà è anche smettere di desiderare chiarimenti e definizioni dove esistono solo domande. L’androgino pone quesiti senza offrire risposte confortanti o definitive, perciò è quanto di più simile alla vita.
Ogni volta che ho creduto di amare una creatura androgina è stato un abbaglio. Cosa cercavo davvero? La rottura, un varco, la trasformazione, una ferita emozionale, essere l’Altro. L’attrazione per le persone androgine innescava una crisi, una frattura nel mio equilibrio interiore che si rispecchiava in un’azione esterna immediata. Crisi era non sentirmi nei vestiti adatti. Crisi era vivere con disagio due elementi che qualificano il femminile: il ciclo mestruale e la possibilità di procreare. Non è “essere donna” il problema ma ciò che l’essere donna comporta, a livello biologico e sociale. Entrare in conflitto con una parte di te che non puoi eliminare non ti fa vivere in pace, ma chi è davvero in pace con sé stesso?
La crisi è una forma di riscatto, la possibilità di conoscere più a fondo il nostro desiderio e il desiderio dell’Altro. Anche quando il desiderio non coincide con ciò che credevamo di sapere di noi stessi, con ciò che per una vita intera abbiamo saputo.
Credo nel potere benefico della crisi, della messa in discussione di quelle identità che si proclamano granitiche e immutabili. Credo che la crisi sia rivoluzionaria non solo a livello personale ma anche sociale. È nell’oscillazione e nell’ambiguità il futuro di una società i cui confini appaiono slabbrati. Nella transessualità per esempio, come anche nell’intersessualità, la metamorfosi non è uno stadio che si supera per giungere a uno dei due schieramenti (uomo/donna) ma una condizione con la quale si convive.
Abitare il confine è restare in bilico.
Credo di aver fatto della soglia, del confine, la mia dimora: non intendo modificare il mio corpo di donna, ma mi sta stretto. Amo alcuni “pezzi” di me, le mie gambe e le mani, per esempio. Mal tollero il sangue e la possibilità di procreare, elementi che rifiuto e con i quali sono in lotta perenne, ma da cui è nata un’indagine che mette in moto la mia creatività, il mio desiderio di conoscere l’Altro e me stessa.
Mi sento una creatura perfettamente androgina. Superata la fase degli autoinganni, indagata e compresa la verità del mio corpo e del mio desiderio, il gioco di entrare e uscire dal genere con tutti gli strumenti a mia disposizione è stato fonte di gioia, libertà e consapevolezza. E lo è ancora.
Ho capito due cose: la prima è che mi sento ostile alla parola “identità”; la seconda è che la mia identità, se esiste (e dovrà esistere, quantomeno per essere comunicabile) consiste proprio nell’abitare lo spazio che Francois Jullien definisce come il “tra”, cioè il punto di contatto con l’alterità che è in me e l’alterità che è in te; io mi colloco in quello spazio “tra” le identità, che non è uno spazio vuoto ma neutro (non è la stessa cosa) e qui mi sento a casa; mi trovo a mio agio nella indefinitezza mentre mi perderei e mi annullerei nella precisione, a tal punto che appena qualcuno prova a incastrarmi in un ruolo io mi ribello.
Mi rendo conto che il gioco al massacro delle identità mutevoli e fluttuanti non permette agli altri di comprenderci a pieno. Ma il gioco deve soddisfare noi. A me piace giocare. Non il risultato ma il processo, mi piace. Il confronto con gli altri è necessario, vitale, impossibile da evitare. Ed è qui che nasce la ricchezza: la crisi che deriva dall’incontro-scontro con lo sguardo altrui genera nuova comprensione o il crollo delle illusioni e la caduta, come nel caso della mia infatuazione per Desiree e Ludovica. In ogni caso, come la boxe insegna, hai tempo fino a dieci per rialzarti e, se guardi bene, all’angolo trovi il Mister pronto a raccogliere il sangue e il sudore e incitarti a ricominciare.
Ogni incontro con altri corpi è una sfida e mi azzarderei a parlare delle persone che vivono l’abito mentale e/o fisico dell’androginia come di corpi e anime in fuga.
Molte anime percepiscono come gabbia il loro stesso corpo ma non credo che il loro (nostro) sia un problema solo intimo e privato. Credo che la questione si possa affrontare a livello macroscopico e sociale. La crisi tra dentro e fuori si genera dallo scontro tra il potenziale di infinito che ci nutre e le limitazioni del reale. La crisi, anche quando crea ferite, non va rifiutata.
Non ho scritto per offrire una soluzione (suvvia, chi scrive per dare soluzioni?) ma solo per condividere la domanda. In questo senso, io credo, l’androgino si pone “visibilmente” come critica radicale contro ogni normatività e rigidità. Sfuggendo all’etichetta estetica ci ricorda che nulla si può definire una volta e per sempre. Più di chiunque altro contiene moltitudini.
Non è forse questo che sfuggiamo? Il potenziale di dubbio, messa in discussione e interrogazione continua che la creatura androgina porta con sé?
Uno dei motivi per cui amo l’androgino è che incarna la figura retorica dell’ironia alla perfezione, quel processo che mira a comprendere il reale, indagarlo e penetrarlo a partire dalla frattura generata dalla crisi. Accogliere l’androgino che è in noi anche solo come possibilità legittima le nostre diverse vocazioni e la loro mutazione nel tempo, rivela la nostra capacità di metterci in discussione; a livello sociale, apre nuovi orizzonti e ci aiuta a comprendere e legittimare le narrazioni di sé che gli altri portano, a non etichettarle a priori. Ci rende più tolleranti e accoglienti. Con noi stessi e con gli altri.
Tutto mi riconduce al punto di partenza, al desiderio di Neutro di cui parla Barthes, la cui definizione è impossibile perché l’androgino, creatura neutra per eccellenza, si rimodella nell’incontro con lo sguardo dell’altro e l’interrogativo incessante che continua a porre. «La descrizione topica, esaustiva, finale di questo desiderio di Neutro non mi appartiene, è il mio enigma, ovvero quanto di me può essere visto soltanto dagli altri. Posso soltanto indovinare, nella boscaglia di me stesso, l’antro in cui esso si apre e si approfondisce9».
Guardo all’androgino come all’orizzonte auspicabile, oltre le gabbie del senso comune, oltre i confini del binarismo e delle dicotomie, e guardo all’androgino soprattutto come invito a mettersi in viaggio in direzione del proprio desiderio reale. L’androgino incarna l’ironia socratica come momento di crisi e frattura. E mentre scrivo queste ultime parole ripenso al sorriso di Narciso, seducente e sedotto da sé stesso.
Il sorriso dell’androgino è crisi e cura. Ci libera dal pericolo di una società incapace di aprirsi, evolvere e guardare al futuro, a «quelli che verranno dopo».
9 Barthes, op. cit., p.89
Editing di Fabiana Castellino
Morgana Chittari, si laurea in Lettere moderne e per quindici anni si occupa di giornalismo nei settori cultura, cronaca e antimafia (Stampo Antimafioso, Vulcano Statale) e comunicazione (L’Eco della Stampa e associazioni culturali milanesi). Sedotta dal dialogo tra discipline, si è formata e ha avuto esperienze nell’ambito della recitazione teatrale e della performance art. Nel 2018 presso la Libreria Antigone frequenta la prima edizione milanese di SessFem, laboratorio autogestito nato come FemSex presso University of California (Berkeley, 1994) e da allora inizia ad approfondire le tematiche relative alla sessualità e all’identità di genere. Nel 2021 esce Frantumi (Lekton). Suoi racconti e testi ibridi si trovano sulle riviste Risme, Narrandom, Sulla Quarta Corda, Squadernauti, Tremila battute, Suite italiana, Birò, Grande Kalma, Turchese e GELO. Attualmente si occupa di ghostwriting, servizi editoriali e comunicazione, e nel contempo prosegue la formazione in campo editoriale (workshop di editing a cura della casa editrice Il Saggiatore presso Scuola del libro, corso specialistico in correzione di bozze presso Studio Oblique). Studia le neuroscienze, pratica la boxe e la pittura.




«Il gesto fotografico è un movimento venatorio, in cui fotografo e apparecchio si confondono in una funzione indivisibile. Tale gesto dà la caccia a nuovi stati di cose, a situazioni mai viste prima, all’improbabile, a informazioni. La struttura del gesto fotografico è quantica: è un dubbio composto di esitazioni e decisioni puntiformi.1»
Il lavoro di Dario Fiorentino proietta l’osservatore in un gioco di ombre soggette a mutamento. Un solo colpo d’occhio non è sufficiente, dal momento che la prima visione avvia un processo immaginativo ed esplorativo che si sintonizza su lunghe frequenze, dove lo spettro umano può sparire e riapparire per via di insondabili probabilità, assecondando la corrente di luce con la quale l’obiettivo deve farsi complice. Il fotografo consuma il suo tempo, mentre lo spazio sembra moltiplicarsi, almeno sembra aumentare; non è detto che egli veda tutto, ma questo non ha alcuna importanza. Da dove origina l’appostamento se non da un luogo della sua memoria? Da scene che non sono frontali, per le quali è inutile cercare una posizione diversa dalle circostanze presenti, in cui si rinnovano e ri-appaiono per la prima volta.
Maria Teresa Rovitto
1 Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 48-49
Dario Fiorentino, Napoli, 1988. Art Director e regista presso lo studio Phobos&Deimos. Ha scritto e diretto due cortometraggi presentati ai David Di Donatello e al Globo d’Oro, RELIGO e FLICKERING, nei quali indaga sull’autoisolamento e il rifiuto della realtà. Filma perché non sa parlare.