Ferro e Carbonio, una lega

di Veronica Galletta

© Gianluigi Armando Frezza

1. tracciarsi su un diagramma di stato

Nella mia vita oscillo fra due mondi. Quello della letteratura, a cui sono approdata come straniera, e quello della tecnica, da cui provengo. Ho studiato e praticato l’ingegneria ogni giorno per quasi trent’anni, lavoro sulle parole (quasi) ogni giorno da meno di dieci. Eppure l’oscillazione non cessa. Ci sono stati periodi in cui il moto armonico è stato libero, naturale. Più spesso forzato, costretto verso la tecnica dalla forza della ragione. A volte dolorosamente smorzato, di ampiezza minima, quasi fermo.

Per anni ho cercato il grafico giusto, quello in cui le mie due curve, della scrittura, dell’ingegneria, trovassero un punto di contatto, un’intersezione stabile e felice. Adesso, che mi sono rassegnata, so che la mia vita fra i due mondi è un diagramma di stato.

Mi piacciono i diagrammi di stato, che siano riferiti a una sostanza pura o a una miscela. Mi piace la rappresentazione cartesiana di un fenomeno, in cui alcune variabili rimangono fissate. Si fermano, generosamente, per permettere alle altre di esprimersi. Apprezzo questo tentativo di ridurre i gradi di libertà, di cercare una soluzione, seppure approssimata, ai problemi della realtà, immaginare una cornice che cerchi di contenerli. I diagrammi di stato infatti, detti anche diagrammi di fase, provano a definire quali siano le linee di equilibrio, o i cambiamenti nella miscela fra elementi diversi, al variare di una condizione (i.e. la temperatura), date per costanti le altre (i.e. la pressione). Diagrammi che cercano l’equilibrio ostinatamente, si preoccupano di controllare le fasi e i passaggi di stato: da solido a liquido, da liquido a solido, in uno scambio che non è mai a somma zero.

Il mio preferito è il Diagramma ferro-carbonio, che studia l’equilibrio della miscela dei due elementi, il ferro e il carbonio, appunto. Data la pressione costante, al variare della percentuale del secondo rispetto al primo, e della temperatura, vengono fuori due leghe: l’acciaio e la ghisa. Di lui ho scritto in Nina sull’argine

«[…] ricordava bene solo il diagramma di stato ferro-carbonio, da una parte l’acciaio e dall’altra la ghisa. Ricordava anche una certa riprovazione generale nei confronti della ghisa, così dura ma fragile, messa poi a confronto con l’acciaio, flessibile, adattabile, lucido. In sintesi, adatto alla vita. […] le viene in mente che ha sempre preferito la ghisa, con quel colore grigio opaco, dura ma fragile, inadatta alla trazione e alla flessione, ma resistente alla compressione e alla corrosione. Come nella La cicala e la formica di Rodari, non ha dubbi: sta dalla parte della ghisa, che la sua fragilità non vende, regala.»1

Rileggendo adesso le mie parole, a distanza di qualche anno, vedo affiorare in controluce dei segni. Sono tracce, linee sottili del mio ritratto, e posso, attraverso il ferro e il carbonio, attraverso le loro leghe, l’acciaio e la ghisa, cercare di dare un ordine alla mia vita. Il Diagramma quindi come radiografia del mio sentire, tentativo di autobiografia.

Nei mondi dentro i quali oscillo, l’acciaio sarà l’ingegneria, la ghisa la scrittura. L’acciaio la vita pratica, il lavoro; la ghisa il mondo delle parole, delle velleità di chi pensa di capire il mondo (cambiare il mondo) attraverso i libri. Separerò le parti, osserverò le variabili. Analizzerò l’ordinata della temperatura, frugherò l’ascissa nei suoi due estremi, il ferro da una parte, il carbonio dall’altra. Mi muoverò con cautela lungo le curve dei cambiamenti di stato, le braccia larghe a non perdere l’equilibrio, Il sistema periodico di Primo Levi come mia unica guida. Partirò dal suo Ferro e dal suo Carbonio. Analizzerò il suo scriversi attraverso gli elementi per tentare di scrivermi attraverso una lega di elementi. Ancora, due poli: da una parte la chimica, scienza di precisione ed elementi puri, dall’altra l’ingegneria, scienza applicata della tecnica, della mediazione.

© Gianluigi Armando Frezza

2. il ferro, facile e franco

«C’erano elementi facili e franchi, incapaci di nascondersi, come il ferro ed il rame; altri insidiosi e fuggitivi, come il bismuto e il cadmio»2, scrive Primo Levi in Ferro, dove racconta la breve vita di un uomo solido, Sandro Dalmastro, amico e collega di università, morto nel 1944 da partigiano: «Non era uomo da raccontare né da fargli monumenti, lui che dei monumenti rideva: stava tutto nelle azioni, e, finite quelle, di lui non resta nulla; nulla se non parole, appunto».3

Rileggo Ferro, una volta ancora. Parla davvero di quello che desidero io? Starò forzando un po’ le mie interpretazioni, per portare avanti una teoria, come certi esperimenti scientifici, impeccabili nella forma e nella gestione della metodica, ma sbagliati nelle premesse.

Il ferro nel racconto di Primo Levi è un elemento materico, del lavoro, della solidità. La sua presenza permette di raffreddare il testo, di ancorare a terra il ritratto malinconico dell’amico. È Sandro a esclamare Habemus ferrum, durante le ore in laboratorio, e per lo scrittore diventa l’elemento stesso. «Sandro sembrava fatto di ferro, ed era legato al ferro da una parentela antica: i padri dei suoi padri […] erano stati calderai e fabbri.»4 

Ferro è un racconto di spazi aperti, di speranze future e concrete, di uno studio fatto per avere una professione. «Aveva scelto Chimica perché gli era sembrata meglio che un altro studio: era un mestiere di cose che si vedono e si toccano.»5 Una concretezza spazzata via dalla guerra, che sempre Sandro presagiva. «Gli importava conoscere i suoi limiti, misurarsi e migliorarsi; più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di prepararmi) per un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino.»6 Il legame dell’elemento con il racconto rimane fino a un certo punto tutto metaforico, fino a che non appare «una matassa di fil di ferro per le riparazioni di emergenza»7, che Sandro si porta dietro quando vanno in montagna, unico arnese, insieme a un carciofo in una tasca e un’insalata nell’altra. C’è tutta la maestria di Primo Levi in questo racconto, nel suo dichiarare la sua incapacità di fare. «Mi dimostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia. Quale commercio, quale confidenza avevo io avuto, fino allora, coi quattro elementi di Empedocle? Sapevo accendere una stufa? Guadare un torrente? Conoscevo la tormenta in quota? Il germogliare dei semi? No, e dunque anche lui aveva qualcosa di vitale da insegnarmi.»8 Questo è il ferro, questo era Sandro Dalmastro, facile e franco, per Primo Levi e, attraverso le sue parole, per tutti noi. 

Da questo lato pende il ferro, che porta all’acciaio, duttile e pronto alla vita. 

© Gianluigi Armando Frezza

3. il Carbonio, elemento di lunghe catene

«Caro Primo,

ho guardato Il sistema periodico nuova stesura e mi pare che vada molto bene. Ho letto i nuovi capitoli Ferro, Fosforo, Azoto, Uranio, Argento, Vanadio, che arricchiscono l’«autobiografia chimica» (e morale).

Mettere Carbonio in fondo, facendogli simboleggiare l’esperienza dello scrittore è una buona idea.»9

Così scrive, da Parigi, Italo Calvino a Primo Levi il 12 ottobre 1974.

Ultimo elemento de Il sistema periodico, Carbonio è un racconto speculativo, che segue l’avventura di un atomo di carbonio, attraverso il quale Primo Levi ci fa girare per la Terra, dentro un forno a calce, sollevato dal vento, respirato da un falco; diventa anidride carbonica, presiede alla fotosintesi, diventa glucosio, acido lattico, si fa tarlo insetto e farfalla, fino al nostro bicchiere di latte, in un viaggio caleidoscopico dentro l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. «Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. Perciò il carbonio è l’elemento chiave della sostanza vivente»10, scrive Primo Levi, e così il carbonio è come le parole, che possono legarsi le une alle altre in lunghe catene, come i racconti che ci necessitano per vivere. Un fuoco, delle persone sedute intorno a raccontare, ecco l’origine delle cose, e il racconto delle trasformazioni dell’atomo come un’odissea, la scrittura come un Ulisse inquieto, che si compone e si trasforma, che ci sopravvive, perché «la morte degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile».11

Il carbonio quindi come elemento generatore, che aggiunto al ferro, nelle giuste proporzioni, permette l’esistenza di chi scrive, fragile ghisa.

Tutto torna con la mia tesi iniziale, il carbonio come componente che porta alla ghisa, alla scrittura. 

La scrittura, in quello stato di equilibrio così delicato in cui galleggia, condizionato da pressioni che devono essere costanti, da materiali che a seconda della temperatura assumono forme diverse, da strane combinazioni di solido e liquido, di liquido e solido, di liquido e liquido, in cui la somma delle proprietà dei materiali può creare un materiale più instabile, ecco in mezzo a tutto questo la scrittura, così fragile, deve essere protetta. 

© Gianluigi Armando Frezza

4. sulle temperature che variano, e sulle pressioni costanti

Nel Diagramma delle due leghe il carbonio non è mai libero, ma composto con tre atomi di ferro, a farsi cementite. D’altro canto non è libero neanche il ferro: proprio lui, l’elemento associato alla forza per eccellenza, da solo non riesce a esistere, e cede alla sua natura polimorfa, manifestandosi con strutture diverse a temperature diverse. Sul Diagramma li troviamo in ascissa: scorrendo lungo l’asse delle x da sinistra a destra, all’aumentare della percentuale di carbonio la lega si trasforma: passa da essere acciaio a farsi ghisa. Dalla concretezza della scienza applicata e della tecnologia, passiamo alla scrittura, al mondo impalpabile delle idee. In ordinata, lungo l’asse delle y, sta la temperatura, al salire della quale la miscela cambia di stato. Lascia la sua fase solida, diventa liquida. Nella miscela di ferro e carbonio, di lavoro e scrittura, è liquido il modo in cui il cervello scantona, l’occhio lavora when I look out the window, a sentire certe citazioni apocrife di Joseph Conrad, spazia mentre fa altro, fino a quando trasmette alle mani che scrivono, svicolando l’attenzione vigile del resto del corpo. Si scrive nonostante il sé, attraversandosi. Nel Diagramma la fase liquida si raggiunge a temperature molto alte, bisogna superare la soglia perché i due elementi si mescolino, e i due volti del Giano comunichino fra loro. È una via pericolosa, quella della mescolanza, che non è possibile ripercorrere a ritroso. Non ci sono fenomeni fisici completamente elastici, nessuna briciola per Pollicino da solo nel bosco.

E poi c’è la pressione. Il Diagramma ferro-carbonio è costruito su un’isobara, per dirla con il linguaggio elegante della tecnica. Una sola pressione costante come un mondo fra tanti possibili, una slice del solido composto da infiniti diagrammi di equilibrio. La pressione, quella atmosferica della Terra che abitiamo, è il nostro carico giornaliero. Fare la spesa, prenotare il dentista, caricare la lavatrice, guardare i compiti del figlio, le attività che scorrono con il pensiero fisso al finestrino del tempo eroso alla scrittura, in cui galleggiare dentro la fase liquida, ancora e ancora. 

Acciaio e ghisa, ingegneria e scrittura, due leghe separate da uno scrimine sottile. L’acciaio è duttile, energico, la ghisa instabile, lamellare, sferoidale. Senza l’acciaio non esisterebbe scrittura, è il Diagramma che lo mostra: le quantità di carbonio sono contenute, mai superiori al 6,69% della percentuale di ferro, che è l’elemento principale, montagna da scalare con un amico Sandro accanto, sempre alta, preponderante. Per uno scrittore bifronte, scisso, lacerato, è pericoloso spingersi ai limiti possibili, all’estremo destro dell’ascissa, dove di acciaio non vi è più traccia e la ghisa è più fragile. In quelle zone la scrittura si ripiega su sé stessa, cercando la sua forma in purezza, l’esistenza tautologica della parola, si assottiglia, scompare. È più sicuro surfare nelle zone centrali del Diagramma, in uno stato di equilibrio sempre incerto ma vivo, con gli elementi che cambiano stato con la temperatura, creano nuove forme. Solido e solido, liquido e solido, liquido e liquido.

Anche l’estremo sinistro dell’asse delle x, dove il carbonio scarseggia, ha i suoi problemi. Gli acciai infatti si classificano in base al tenore di carbonio, da extra dolce a dolce a semidolce fino a duro, durissimo, extra duro. Di tutti, l’acciaio extra dolce, quello con più ferro e meno carbonio, è il meno pregiato. Senza scrittura, quindi, senza la potenza della parola, anche la tecnica vale poco. Tutto parte dal mondo delle idee, seppure fragile. Anche l’acciaio si produce a partire dalla ghisa, che viene decarburata, eliminando il carbonio che si fa anidride carbonica. Viaggia via, come nel racconto di Primo Levi, e non c’è bisogno di grandi salti metaforici per concludere che qualunque formazione tecnica, duttile, elastica, ha bisogno di una forma dura da cui partire.

Siamo tutti fatti di storie e di parole, seppure in diversa percentuale, tutto sta alla velocità dei processi: come con un raffreddamento repentino si tempra l’acciaio ma non si lavora la ghisa, anche il processo creativo è soggetto a sbalzi termici improvvisi. Prime stesure febbrili e scomposte seguite da raffreddamenti lenti. Meditazioni, ripensamenti, riscritture.

© Gianluigi Armando Frezza

5. sull’impurezza

Siamo arrivati all’ultima tessera di questa breve passeggiata tra i materiali. Nessuna lega è pura, non lo è l’acciaio, non lo è la ghisa. Azoto, rame, zinco, cromo, sono alcuni degli elementi presenti, e da ogni combinazione scaturiscono acciai diversi, ghise differenti. La purezza non esiste, e non è fertile. Ferro è il racconto di un’amicizia che si fonda sull’impurezza, fra due isolati. Da una parte Sandro, isolato per censo, senza il cappotto e con «il passo lungo e lento del contadino»12, dall’altra Primo, isolato per le leggi razziali, seppure impercettibilmente, e «ogni sguardo scambiato […] era accompagnato da un lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto».13

Del resto, senza il ferro dentro al Diagramma non ci sarebbe vita. È lui che permette alla scrittura di esistere, così mi sono detta, giorno dopo giorno, in tutti gli anni in cui ho scalato, tassello dopo tassello, le mie giornate fatte di faticosi incastri, dicendomi che tutto mi serviva per scrivere. L’impurezza è necessaria nella scrittura, è quella singolarità che permette alle idee di coagularsi, di cui lo scrittore si fa catalizzatore, mero trasformatore. A volte – seppure con cautela –, forzante, aggregatore. Anche l’acciaio più ammirato è un impuro. Sto parlando dell’acciaio inossidabile, il materiale perfetto. Non aggredibile dagli agenti atmosferici, non corrompibile, il cui volume concreto possiamo immaginare resti invariato nel tempo. Questo materiale altissimo, vanitoso nella sua eccellenza, nasce dall’unione con il cromo. 

© Gianluigi Armando Frezza

6. sull’autobiografia come racconto degli errori

«C’era pesce come secondo piatto, ma il vino era rosso»14, recita l’incipit di Cromo di Primo Levi, in cui si racconta, fra un ritratto di fabbrica e una citazione di Samuel T. Coleridge, alternando le tinte poliziesche al resoconto amaro del primo dopoguerra, l’esito di un aggiustamento di una formula per una vernice: 2 o 3 gocce che diventano, per un errore di trascrizione, 23. L’errore esiste, ed è da accettare, nel proliferare di variabili in cui siamo immersi, tante da spezzare il fiato. C’è un infinito numero di combinazioni possibili, di modi per dare corpo a un’idea, per raccontare una storia, «innumerevoli storie diverse […] Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio»15, scrive Primo Levi in Carbonio. Ma non bisogna avere paura. Dentro la complessità ci sarà sempre un mondo da interpretare, e nuove storie da scrivere. Questo pensiero ci deve confortare.

«Questo non è un trattato di chimica», scrive Primo Levi in Carbonio, «Non è neppure un’autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici per cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana»16, e adesso che siamo in fondo a questo strambo discettare, posso affermare anche io che questo non è un trattato sulle leghe, questa non è un’autobiografia. È, forse, solo una riflessione sull’errore che sta alla base di ogni esperimento, come questa mia idea di combinare Ferro e Carbonio, per raccontarmi come acciaio, per descrivermi come ghisa. Come Primo Levi, che «essendo un chimico per l’occhio del mondo, e sentendomi invece sangue di scrittore nelle vene, mi pareva di avere in corpo due anime, che sono troppe»17, ho in corpo due leghe. Una tira verso una visione razionale del mondo, l’altra scalpita, vuole esprimersi come creativa. In mezzo ci sono io, come il dottor Frankestein: da questo contrasto nasce la mia personale Creatura. Dalla parte dell’acciaio pende il mondo del lavoro, dalla parte della ghisa le necessità della scrittura. Non posso rinnegare nessuna delle due leghe, anche nei momenti in cui vorrei. L’ingegneria mi ha instillato l’abitudine a osservare i problemi, a cercare di considerare la materia nella sua complessità, ad accettare il limite e l’imperfezione che caratterizza ogni tecnologia applicata. Mi ha insegnato ad accettare l’errore che è sempre presente, nella necessità di mettere, anche nella ghisa più fragile, un po’ di ferro per ancorarla alla realtà.

Anche se la mia vita adesso pende dalla parte della ghisa, ho studiato e praticato l’acciaio fin dalla giovinezza, ogni giorno, per quasi trent’anni. Io, ingegnera che da qualche tempo non pratica più – l’ingegneria, come un’arte marziale, ha bisogno della pratica quotidiana –, grazie al distacco dalla scienza applicata, comprendo ciò che l’acciaio mi ha insegnato: accogliere l’imperfezione. «Il rapporto che lega un uomo alla sua professione […] viene compreso appieno solo quando si spezza»18, dice Primo Levi.Seguendo la lezione, mi assicuro che non ci sia troppo carbonio nella mia ghisa. Pur sentendomi straniera in entrambe, non posso rinnegare nessuna delle due leghe. Scrivo perché sono un’ingegnera, ma rimango ghisa, anche se con meno paura.

Editing di Fabiana Castellino

Veronica Galletta è nata a Siracusa e vive a Livorno. Con Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Con Nina sull’argine (minimum fax 2021) è stata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Letteratura d’Impresa. Il romanzo Pelleossa, già finalista al Premio Neri Pozza per opere inedite, è uscito per minimum fax nel 2023.

Nei lavori dell’artista Gianluigi Armando Frezza la composizione è la spina dorsale dell’opera creata intorno a una geometricità essenziale che distribuisce con equilibrio il peso dei materiali all’interno del ritaglio fotografico, così come i rapporti tra pieno e vuoto, tra verticalità e orizzontalità. Elementi che immaginiamo duri, compatti (strumenti di lavoro in acciaio, il ferro rovinato delle costruzioni abbandonate, il marmo, la ghisa di un vecchio torchio, la roccia del cratere del Vesuvio) e che, grazie ai contrasti tonali che muovono tra aree scure e aree illuminate, si smaterializzano come a lasciare intravedere una loro possibile disintegrazione. Come un tecnico a teatro, Frezza lavora sugli effetti di luce mettendo in risalto la figura contro il fondo: la nostra mente vive un’esperienza di profondità a partire da questi movimenti chiaroscurali generati dalle ombre, dall’intervallo e dalla distanza che circondano gli oggetti. I volumi sono evocati da un effetto scultoreo che riproduce i rilievi tra superfici ora opache ora trasparenti e, quando la figura umana è presente, abita lo spazio attraverso una serie di piani intersecantisi senza mai perdere la sua plasticità né la sua vocazione al mutamento.  Lo scatto fotografico solo in apparenza fissa: si esibisce invece come processo transitorio e impermanente nell’interdipendenza spaziotemporale con lo sguardo dell’osservatore.

Maria Teresa Rovitto

Gianluigi Armando Frezza, ventinove anni. Fotografo professionista con sede a Trentola Ducenta. Si diploma al liceo scientifico E. Fermi di Aversa, dopo il quale frequenta dapprima la facoltà di economia, poi quella di lingue, senza portare a termine il percorso di studi. Lavora come contabile insieme a suo padre dai diciotto ai ventitré anni. Dai ventitré ai ventisei come amministratore in un locale notturno di sua proprietà. Con l’arrivo del covid decide di investire le proprie risorse nella fotografia fino ad allora rimasta mezzo solo liberamente espressivo.

  1. Veronica Galletta, Nina sull’argine, ed. minimum fax, Roma, 2021 p. 215 ↩︎
  2. Primo Levi, Il sistema periodico, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014, p.37 ↩︎
  3. Ivi, p.47 ↩︎
  4. Ivi, p.41 ↩︎
  5. Ivi, p.40 ↩︎
  6. Ivi, p.43 ↩︎
  7. Ibidem ↩︎
  8. Ivi, p.41 ↩︎
  9. Italo Calvino, I libri degli altri, lettere 1947-1981 Einaudi Torino 1991, p. 606 ↩︎
  10. Primo Levi, op. cit., p.215 ↩︎
  11. Ivi, p.218 ↩︎
  12. Ivi, p.38 ↩︎
  13. Ivi, p.39 ↩︎
  14. Ivi, p.39 ↩︎
  15. Ivi, p.219 ↩︎
  16. Ivi, p.212 ↩︎
  17. Primo Levi, Tiresia, da La chiave a stella, Einaudi, Torino, 1978 ↩︎
  18. Primo Levi, Ex chimico, da L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 1985, p. 14 ↩︎

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