di Mauricio Miranda
Traduzione dallo spagnolo di Silvia Dammacco

© David Dalla Venezia, no.643, olio su tela cm.22×27 2011
Non avevo niente da fare così notai una vena più marcata proprio sul mio braccio. Iniziai a sfilarla lentamente, senza fermarmi. La pelle che la ricopriva si schiuse e riuscii a tirarla fuori come la lunga radice di una pianta. Quando la estrassi sentii dapprima dolore, poi la soddisfazione di aver estirpato, finalmente, un pelo incarnito.
La vena gocciolava sangue. Era lunga forse un metro e ricordava la forma di un albero, un tronco che si divide in rami sempre più piccoli.
Dalla ferita sulla pelle si scorgevano altre vene. Le estrassi una alla volta e, dopo molte ore, riuscii a disfarmi dell’intero apparato circolatorio lasciando all’interno solo il cuore.
Fu allora che ebbi paura, perché come sarei sopravvissuto senza che il sangue si diramasse nel mio corpo? Certo, però, ero vivo e cosa più importante mi sentivo bene; probabilmente era successo esattamente come quando riesci a sfilare il mattoncino in basso alla torre senza farla cadere. Forse ero riuscito a rimuovere i vasi sanguigni con sufficiente accortezza tanto da non far precipitare la mia vita che, come quella torre, resisteva in piedi benché più fragile in attesa, chissà, di un soffio d’aria o di un movimento brusco che l’avrebbe sgretolata.


© David Dalla Venezia, sin: no.881, olio su tela cm.122.5×92 2013/2023; dest: no.685, olio su tela cm.60×120 2014
Sapevo che con pazienza e precisione era possibile compiere meraviglie come quella appena realizzata. È noto, ad esempio, che esiste un modo per sfilare rapidamente la tovaglia da una tavola senza spostare piatti e posate. Tutto resta al proprio posto, però senza tovaglia. Anche a me è successo qualcosa di simile e incredibile. Una volta feci un sogno interessante e non volevo dimenticarlo perciò mossi il capo lentamente, con estrema cautela, così da evitare che le immagini nella mia mente si mescolassero tra loro. Avanzai piano, uno o due centimetri al minuto, fino a raggiungere penna e taccuino su cui annotare il mio sogno. Ci misi in tutto sei ore ma non mi sfuggì nulla.
Il problema adesso, essendo totalmente privo di vene, era capire se avrei dovuto muovermi rapidamente come nel caso della tovaglia o lentamente come quando custodisci i sogni, oppure restare completamente immobile.
Decisi di muovermi a passo regolare verso lo specchio. Arrivato, mi sorprese il fatto che nonostante la mia pelle fosse già chiara il mio riflesso fosse bianco come un lenzuolo. Sembrava mi fossi preso il peggiore degli spaventi. Avrei dovuto aver paura vedendomi in questo stato invece il mio cuore non batteva affatto all’impazzata, lo sentivo muoversi lentamente dentro di me come un soffice gatto che si rigira con comodo su un cuscino. Non era più legato né a vene né ad arterie, non aveva più alcuna mansione. Adesso batteva solo per se stesso, tranquillo, cosa che probabilmente confondeva le mie emozioni.


© David Dalla Venezia, sin: no.665, olio su tela cm.33×33 2013; dest: no.748, olio su tela cm.38×46 2015
Quanto ancora mi restava? Forse la torre non stava per crollare, forse era diventata addirittura più stabile. Come fare a saperlo? Se fossi andato dal medico di sicuro mi avrebbe detto che è impossibile sopravvivere senza sistema circolatorio, mi avrebbe mostrato ricerche realizzate su animali secondo le quali tutti muoiono in meno di un’ora dopo aver perso le arterie principali. E non sarei stato capace di convincerlo del contrario nonostante l’insistenza sulle differenze tra esseri umani e animali, nonostante la prova della mia sopravvivenza. Avrei pagato inutilmente una visita.
Ciononostante, la parte razionale del mio cervello non smetteva di mettermi in guardia sulla mia imminente morte. Cosa fare per restare vivo? Pensai a quella volta in cui riuscii a conservare il mio sogno attraverso le parole e realizzai che, chissà, le parole avrebbero potuto non solo catturare quanto accaduto ma anche custodire la realtà. Ci starei in un testo? Forse con molta pazienza avrei potuto annotare per iscritto non solo idee ma anche parti del mio corpo e qualche oggetto personale. Su carta non avrei necessità né di organi né di muscoli, solo di un lettore; la voce nella sua testa o dalle sue labbra sarebbe sufficiente a farmi muovere, a mostrare i miei pensieri e i miei sentimenti. Starei sveglio a ogni lettura e per il resto del tempo dormirei tra le pagine di un libro.
Forse l’unico rischio sarebbe che qualcuno scoprisse che le lettere sono fatte di fili sottili d’inchiostro. E magari, non avendo niente di meglio da fare, questa persona trovasse il modo per estrarre una per una le vocali, le consonanti, i segni ortografici, come frammenti di vene nere. E così cancellerebbe parole, righe, fino a creare una pagina più bianca del mio viso, uno spazio senza alcuna traccia di me anche se, questo sì, con infinite possibilità davanti.

© David Dalla Venezia
Il racconto originale, in spagnolo, pubblicato il 5 luglio 2023, può essere letto su Alternativas – revista cultural, a questo link: https://alternativas.culturaleon.com/entry/ocio
Mauricio Miranda (León, 1974). Ha pubblicato nel 2007 il libro No morirás del todo con l’Instituto Cultural de León e nel 2004 il libro La mujer abeja, Ediciones Media Luna. Ricercatore del Instituto Estatal de la Cultura de Guanajuato (2000 y 2003) e Coordinatore del Laboratorio di scrittura creativa della Ibero León 2006-2008. Direttore della Biblioteca Ibero León.






Il buio entra in pittura con i fiamminghi. A partire dagli anni Trenta del Quattrocento viaggiano per tutta Europa volti lunari stagliati su fondo nero: per la prima volta nella storia dell’arte non è uno spazio, e neppure una decorazione, la materia con cui dialoga il ritratto ma una notte resa ancora più profonda dall’uso della pece.
L’intuizione maturata nelle Fiandre passa da nord a sud attraverso Antonello da Messina; quando arriva a Leonardo da Vinci sono passati cinquant’anni e il buio è diventato tecnica: i nobili e le madonne del Maestro toscano si muovono con disinvoltura davanti a uno schermo che isola gesti e sguardi producendo nell’osservatore la vertigine del denudamento: il buio, affinato dal disegno e dall’uso sapiente della velatura, diventa strumento di un’indagine psicologica che da questo momento in poi contaminerà la ricerca successiva. Eppure la storia del buio non si esaurisce nel passaggio dalla maschera al carattere.
È necessario spostarsi di un secolo, e arrivare alla fine del Cinquecento per vedere l’ombra trasformarsi in scena. A indagare la tridimensionalità del buio fino a farne la sua cifra stilistica è un pittore di nascita e formazione lombarda: Michelangelo Merisi, meglio conosciuto come Caravaggio. Se in Leonardo da Vinci e nella sua scuola lo spazio di transizione tra bianco e nero non è mai assoluto ma passa sempre attraverso lo sfumato, la luce in Caravaggio non conosce penombra: o l’immagine c’è, o non c’è nulla. Ecco la rivoluzione: la rappresentazione del buio in quanto tale.
Come Caravaggio – e da lui passando per Goya, Géricault, Delacroix e Bacon – David Dalla Venezia è un pittore del buio. I colori che usa sono pochissimi, la stesura levigata, l’espressività dei soggetti trattenuta e disciplinata da una materia pittorica che rifiuta la granulosità: il buio che l’artista ci propone è un buio metafisico, potenzialmente infinito, amplificato da una resa a tratti iperrealistica del corpo umano. Ed è dentro quel buio che ci spinge a entrare.
Cosa accada veramente una volta accettato l’invito, non è dato sapere. Quello che si avverte è un mutare dei sensi: dalla vista si passa al tatto, all’olfatto, all’udito; all’improvviso la carne dipinta acquista sapore, e il corpo dell’artista – soggetto unico della sua ricerca – ci diventa prossimo fino alla nausea. Mentre avanziamo in una terza dimensione che si fa assoluta avvertiamo che le gambe ricoperte di peli, le rughe che tagliano le mani, la benda che rende cieco lo sguardo non sono semplici materiali di scena, ma parte di un enigma che ci è chiesto di risolvere: in quale punto del nero è possibile fermarsi, trovare rifugio, accettare che tutto quello che abbiamo a disposizione non è altro che corpo?
Una domanda che riecheggia nei versi che aprono Elogio dell’ombra di Jorge Luis Borges: «Per opera di una magia/ nacqui stranamente da un ventre./ Vissi stregato, imprigionato in un corpo/ […] Conobbi il levigato, il sabbioso, il diseguale, il ruvido, il sapore del miele e della mela,/ l’acqua nella gola della sete,/ il peso di un metallo nel palmo della mano,/ la voce umana, il rumore di passi sull’erba,/ l’odore della pioggia in Galilea,/ l’alto grido degli uccelli./ […] A volte penso con nostalgia all’odore di quella bottega di falegname.1»
Livia Del Gaudio
David Dalla Venezia. Nato a Cannes, Francia, il 10 Aprile 1965. Diplomato al liceo classico ha poi studiato storia dell’arte e filosofia all’università di Venezia. Nel 1989 la sua prima mostra personale ha luogo presso la galleria Bac Art studio di Venezia. Da allora ha dipinto ed esposto in Italia e all’estero sviluppando il suo stile, perfezionando la tecnica pittorica in un continuo confronto con la tradizione e la contemporaneità.
- J. L. Borges, Giovanni, 1, 14 in Elogio dell’ombra, Adelphi Milano, 1995 ↩︎
2 Comments