Ferro e Carbonio, una lega. Ipertesto

di Veronica Galletta e Livia Del Gaudio

© Livia Del Gaudio. Anonimo, Centrale Geotermica di Larderello, 1970

Sullo scrivere intorno a Primo Levi

(Il sistema periodico come bacino di infinite storie)

di Veronica Galletta

Fuori delle mura dell’Istituto Chimico era notte, la notte dell’Europa: Chamberlain era ritornato giocato da Monaco, Hitler era entrato a Praga senza sparare un colpo, Franco aveva piegato Barcellona e sedeva a Madrid. L’Italia fascista, pirata minore, aveva occupato l’Albania, e la premonizione della catastrofe imminente si condensava come una rugiada viscida per le case e nelle strade, nei discorsi cauti e nelle coscienze assopite. Ma dentro quelle spesse mura la notte non penetrava; la stessa censura fascista, capolavoro del regime, ci teneva separati dal mondo, in un bianco limbo di anestesia.

L’ipertesto di Livia Del Gaudio, dal titolo di Fe, comincia con un brano di Ferro, che racconta in poche righe cosa accadeva durante gli anni in cui Primo Levi frequentava l’Università. Non sapendo nulla sull’articolazione, l’ho letto con interesse, e lo stupore di scoprire un altro racconto, rispetto alle parti usate da me per il mio Ferro Carbonio, una lega.

Mentre il mio testo ruota intorno alla figura di Sandro Dalmastro e al suo essere concreto, come la loro amicizia, e quindi coglie dello scrittore un momento intimo, in questo brano, in poche righe, c’è l’apertura verso il mondo, il racconto del contesto, la storia quella detta con la esse maiuscola raccontata in poche righe, e senza mai perdere la propria cifra – quel “pirata minore” che racconta di Levi e del suo passione per i romanzi marinareschi e l’avventura, a partire da Conrad, al quale dedicò, con una fra se di chiusura da Tifone, anche La chiave a stella.

In questo, anche, sta per me il fascino di questo scrittore. La generosità con cui si è dato per intero, corpo e anima, corpo come quel braccio che mostrava a chi glielo chiedesse, anche se la domanda a volte si faceva impudica, e chiedeva che fosse mostrato il segno, più e più volte. 

Questa sua generosità, questa complessità levigata tanto da risultare una superficie (apparentemente) lucida, è quello che ha permesso a me di usare le parti più concrete di Ferro, perché intorno a quelle coagulavano meglio le mie riflessioni, e a Livia Del Gaudio di costruire una storia del metallo, usando un cut up più estremo, quasi poetico, che riflettendo sull’origine della materia amplia ancora il senso del racconto, mantenendosi sul solco dell’ambiguità, per cui la stella “concentrata su se stessa, ha alimentato la voracità che la condanna”. 

A questo contribuisce, in maniera quasi sebaldiana, la scelta di accostare al testo, carico già di parole spia (collasso, consumo, contagio, esplosione) un’immagine della Centrale Geotermica di Larderello, che, apparentemente innocua nel suo rappresentare la produzione di energia rinnovabile, fa corto circuito con il brano, rimandando al nucleare, a Hiroshima, e di nuovo al conflitto. La storia della distruzione si lega a quella della creazione, perché “all’alba della Terra, piove ferro” e “chilometri sotto la superficie terrestre il ferro cresce insieme alla vita”.

Fe

(Elemento chimico di simbolo Fe; numero atomico 26; peso atomico 55,85; densità 7,85 g/cm3; punto di fusione 1536 °C.)

di Livia Del Gaudio

Fuori delle mura dell’Istituto Chimico era notte, la notte dell’Europa: Chamberlain era ritornato giocato da Monaco, Hitler era entrato a Praga senza sparare un colpo, Franco aveva piegato Barcellona e sedeva a Madrid. L’Italia fascista, pirata minore, aveva occupato l’Albania, e la premonizione della catastrofe imminente si condensava come una rugiada viscida per le case e nelle strade, nei discorsi cauti e nelle coscienze assopite. Ma dentro quelle spesse mura la notte non penetrava; la stessa censura fascista, capolavoro del regime, ci teneva separati dal mondo, in un bianco limbo di anestesia.1

La luce è blu. Il blu incandescente di una fiamma che consuma idrogeno a una temperatura superficiale di trentamila gradi Kelvin, galleggiando nello spazio in una solitudine pari soltanto all’intensità che produce: simile a un vortice, risponde al vuoto che la circonda avvitandosi su sé stessa. Siamo alla fine di una stella massiccia.

La velocità con cui è cresciuta rappresenta un’anomalia. Più pesante delle compagne più piccole, in dieci milioni di anni ha raggiunto una massa nove volte superiore, consumando materiale nucleare a ritmo elevatissimo: mentre le altre stelle iniziavano a formarsi raccogliendo polvere dalla galassia e trasformandola in elio, in particelle di litio, nelle prime tracce di ossigeno, lei esauriva la sequenza principale avanzando verso gli elementi più pesanti della catena. Concentrata su sé stessa, ha alimentato la voracità che la condanna.

La fusione all’interno del nucleo si è svolta in maniera isotermica. Fino a questo momento la stella ha prodotto energia nella stessa misura in cui l’ha consumata. Esaurito l’idrogeno, il nucleo collassa.

Dal centro della stella il ferro dilaga come un contagio: irrigidisce i legami, coagula i fluidi, le impedisce di espandersi. In non più di un giorno solare, l’energia, che sembrava inesauribile, si rivolta contro sé stessa. Un attimo prima di esplodere, la luce si spegne. 

*

© Livia Del Gaudio. Anonimo, Centrale Geotermica di Larderello, 1970

Alle due del pomeriggio, il Professor D., dall’aria ascetica e distratta, consegnava ad ognuno di noi un grammo esatto di una certa polverina: entro il giorno successivo bisognava completare l’analisi qualitativa, e cioè riferire quali metalli e non-metalli c’erano contenuti. Riferire per iscritto, sotto forma di verbale, di sì e di no, perché non erano ammessi i dubbi né le esitazioni: era ogni volta una scelta, un deliberare; un’impresa matura e responsabile, a cui il fascismo non ci aveva preparati, e che emanava un buon odore asciutto e pulito.2

All’alba della Terra, piove ferro. I resti dell’esplosione della supernova hanno viaggiato per la galassia a una velocità di trentamila chilometri al secondo; con il tempo il metallo di cui sono composti si è aggregato in coaguli rocciosi: asteroidi dalle forme appuntite che corrono nel vuoto senza trovare resistenza. L’impatto con la superficie è un crivellare di colpi. Alte colonne di vapore ferroso si innalzano dal basso stagliandosi rosse nel buio che avvolge la Terra prima del cielo. 

L’arrivo delle tempeste condensa il ferro. Il metallo precipita di nuovo, sprofonda nella massa liquida del pianeta incandescente, si arresta nel nucleo. 

Chilometri sotto la superficie terrestre il ferro cresce insieme alla vita.

Attraverso la foschia, e nel silenzio affaccendato, si udì una voce piemontese che diceva: “Nuntio vobis gaudium magnum. Habemus ferrum”.3
  1. Primo Levi, Ferro racconto contenuto nella raccolta Il sistema periodico, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014 ↩︎
  2. Ibidem ↩︎
  3. Ibidem ↩︎

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