di Livia Del Gaudio
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla @unite_azioneletteraria #unite #rompiamoilsilenzio

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro
Un uomo sui settant’anni – bianco, pelato e in leggero sovrappeso – è inquadrato al centro dello schermo: indossa un completo antracite, una camicia bianca, una cravatta Regimental; in mano ha un foglio con degli appunti, nell’altra un piccolo microfono, di quelli che normalmente si appuntano al petto. La didascalia sovraimpressa informa: 28 settembre 1989 – Senatore della Carolina del Nord, Jesse Helms – Senato degli Stati Uniti d’America.
Il sito dove è archiviato il filmato è quello di una televisione americana; l’ho trovato digitando su Google “jesse helms vs mapplethorpe”. Ce n’erano tre, di diversa durata; ho scelto l’intermedio.
Conosco questo video. O meglio, ne conosco la parte più famosa, quella in cui Jesse Helms sventola davanti al Senato Man in Polyester Suit gridando: «Non leggete il Washington Post, non leggete il New York Times. Guardate le foto!», e non è questo quello che mi interessa. Quello che cerco è ciò che viene prima dell’invettiva finale: il processo, i movimenti del corpo, l’intonazione della voce attraverso i quali si realizza. Quello che cerco sono i dettagli.
Incrocio le gambe e posiziono il computer in grembo. Davanti a me Helms si muove lentamente, pochi passi avanti e indietro a sottolineare la gravità del discorso. La sua arringa è pacata; tiene il mento ripiegato sul petto come fanno certi professori universitari alle prese con i loro monologhi interiori, poi si volta e appoggia il foglio sul banco dietro di lui. Una segretaria di cui si vede solo la nuca si prodiga a cercare qualcosa tra i documenti.
Nell’affanno della donna contrapposto alla calma di Helms riconosco qualcosa. La sensazione che provo non è soltanto quella di trovarmi davanti a uno spettacolo costruito a tavolino come uno show televisivo, ma a qualcosa di familiare, che ho già visto molte volte. Fermo il filmato nel momento in cui Helms prende in mano la foto e la mostra al pubblico. Faccio uno screenshot dell’immagine. Due uomini – il senatore e l’uomo ritratto da Mapplethorpe – sono allineati davanti a me. Tra loro esiste una simmetria che non può essere frutto del caso: è un cortocircuito che risveglia un’altra immagine.

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro
È il 1994. Ho tredici anni. Non so nulla del senatore Helms, non so nulla di Robert Mapplethorpe; l’unico maschio che abbia mai visto nudo è mio fratello, di diciotto mesi più piccolo. Cammino per lo sterrato che dal campeggio porta alla spiaggia: è agosto, un’ora imprecisata tra mezzogiorno e le due, sotto le fronde dei pini marittimi cade un’ombra piccola e chiara, trasparente, utile solo a sottolineare il caldo.
Non so perché ma oggi sono sola. Devo aver insistito fino a quando mia madre mi ha dato il permesso di raggiungere i miei nuovi amici al mare, invece che fermarmi con lei e mio fratello a riposare in roulotte dopo pranzo. Cammino distratta. Ho un vestito a fiori che arriva sotto il ginocchio, dei sandali di cuoio, i capelli sciolti sulle spalle: la mia presenza nella pineta non ferisce, né potrebbe farlo, essendo io tanto adorabile.
All’inizio non capisco, e non capisco nemmeno che si tratta di un uomo. Percepisco soltanto una sagoma in controluce lì dove la strada si allarga in uno spazio più ampio circondato da basse dune di sabbia. Qualcosa mi obbliga a fermarmi.
Resto perfettamente immobile, metto a fuoco l’immagine. È strano, ma ora che ricostruisco il ricordo non riesco a vedere niente: sento solo il respiro dell’uomo sempre più affannato, mentre una vena di sudore gli scivola dal collo sul petto allargando una macchia scura al centro della maglietta.
Dal momento in cui mi accorgo della sua presenza a quando realizzo cosa sta facendo passano pochi istanti nei quali non posso veramente dirmi scioccata. Lo shock semmai arriva dopo, quando sento qualcuno gridare alle mie spalle. L’uomo batte in ritirata.
«Stai bene?» mi chiede una voce. È uno degli animatori del campeggio, un ragazzo di vent’anni di nome Alberto. Rispondo di sì, sto bene; Alberto si offre di accompagnarmi comunque fino alla spiaggia. «Mi dispiace» dice, senza guardarmi. Lo ripete almeno due volte. Non capisco perché sia così dispiaciuto: mi sento strana, è vero, ma non ho bisogno di essere consolata. Quello di cui avrei bisogno è capire cosa è successo. Non chiedo niente. Lo seguo docile fino alla spiaggia.
È questo il primo contatto con ciò che solo dopo imparerò a chiamare osceno: un uomo con in mano il suo pene in un pomeriggio d’agosto nella Versilia degli anni Novanta.
*
Per Bataille oscenità è «lo squilibrio che sconvolge uno stato dei corpi conforme al possesso di sé, al possesso di una individualità solida e duratura»1; per Sartre «osceno è un modo dell’essere-per-l’altro che appartiene al genere dello sgraziato»2; per Moana Pozzi osceno è ciò che «conduce al sublime»3.
Per il senatore Jesse Helms oscena è la fotografia di Robert Mapplethorpe, in particolare Man in Polyester Suit.
Man in Polyester Suit è uno scatto del 1980. Raccolto all’interno di X Portfolio, ritrae un busto senza testa, l’allora amante di Mapplethorpe, Milton Moore; una posa che il sito del Getty Museum definisce così: «uomo di colore in abito grigio e gilet con il pene non circonciso che esce dalla cerniera».
Quando in America esplode lo scandalo, Mapplethorpe è morto da sei mesi; la sua morte non è passata inosservata, e non tanto per la giovane età – quarantadue anni – o per il talento dell’artista, quanto perché Mapplethorpe è morto di AIDS. The perfect moment, la retrospettiva a lui dedicata, allestita a Cincinnati con lo scopo di viaggiare per gli Stati Uniti, contiene solo sette scatti esplicitamente sessuali; la produzione di Mapplethorpe è sterminata, passa dalle polaroid ai fiori; comprende ritratti di personaggi famosi, copertine di album, riviste; una lunga serie dedicata alla culturista Lisa Lyon; per non parlare del fatto che le fotografie incriminate sono posizionate in una speciale vetrina a prova di bambino, posta a un metro e mezzo da terra: l’AIDS è una morte parlante, e a nulla valgono le precauzioni. Anche se in quel periodo escono sulle maggiori testate del Paese articoli di esperti e critici d’arte che sottolineano che Mapplethorpe tratta i suoi soggetti non come personalità ma come oggetti, sculture umane; che il suo lavoro di fotografo deriva da una rigida formazione accademica e che nella sua ricerca non c’è nulla di istintivo o improvvisato ma ogni stampa è frutto di un lungo lavoro in studio, le organizzazioni conservatrici e religiose si oppongono al finanziamento pubblico dei lavori e, più in generale all’esposizione delle sue fotografie. Dennis Barrie, l’allora direttore del Cincinnati Contemporay Arts Center, viene trascinato in tribunale con l’accusa di induzione all’oscenità e il verdetto di assoluzione totale, per lui e per il museo, non basta a placare gli animi: Robert Mapplethorpe – che nella sua vita ha fatto tutto fuorché attivismo politico e che è descritto dai suoi amici come la creatura più opportunista e affamata di successo che abbia mai calcato la Terra – diventa oggetto di una campagna mediatica che puzza di zolfo. Cosa che, dall’idea che mi sono fatta del fotografo, non gli sarebbe per nulla dispiaciuta.

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro
Ho raccolto le fotografie di X Portfolio in una cartella del telefono. Ogni tanto le guardo; non so dire che tipo di emozione suscitino in me ma non le trovo oscene. «Nel fotografare un fiore mi pongo più o meno nello stesso modo di quando fotografo un cazzo. In sostanza è la stessa cosa. È un problema di luce e composizione (…) la visione è la stessa»4.
Condivido queste parole. Eppure tengo le foto nascoste. Faccio attenzione a non aprire la cartella quando ci sono nei paraggi le mie figlie, me ne nutro come di un piacere proibito. Quella che provo, sul fondo di ogni altra considerazione di carattere artistico, filosofico o politico, è vergogna. Una vergogna antica: la stessa che mi ha impedito di raccontare di quel giorno in Versilia, quando ho visto per la prima volta un uomo masturbarsi davanti a me. Meno chiaro è il mio interesse per il personaggio Mapplethorpe.
La parabola di Robert Mapplethorpe segue quella del mito, è la storia di una metamorfosi. Nato da una famiglia cattolica di origine irlandese (osservante ma non abbastanza da impedirgli di proseguire gli studi artistici al Pratt Institute di Brooklyn) la sua carriera esplode a New York a ventisei anni. Dopo la breve e famosa liaison con Patti Smith trova la sua occasione in Sam Wagstaff, ricco mecenate di cui diventa amante; sono gli anni Settanta e, agli occhi del mondo, Mapplethorpe è una ninfa bella e capricciosa armata di Polaroid. Tra il Chelsea Hotel e i ritratti alle stelle di Hollywood, succede però qualcosa. La gioventù si trasforma: l’interesse per la pelle nera, il sadomaso e le messe sataniche diventano un occhio che dalla Hasselblad (sì, perché adesso Mapplethorpe fa scatti da migliaia di dollari, con fari disposti ad arte, due segretarie e un tecnico di stampa che lavora quasi venti ore al giorno per lui) si impossessa di Robert. Alla fine, anche il suo aspetto si trasforma: Marcus Leatherdale, il suo ultimo amante bianco, che ritrae a diciott’anni, nudo e con in spalla un coniglio morto, dirà che Robert assomiglia a un satiro, metà capra, metà uomo. Della ninfa nessuna traccia.
Torno alla fotografia, cerco nella cartella Man in Polyester Suit, la apro. L’immagine è classica, elegante, in qualche modo conformista. Mapplethorpe è uno scultore che usa la fotografia, il suo genio non sta nella macchina, ma in come la macchina guarda.
Man in Polyester Suit ribalta in un colpo quattromila anni di storia dell’arte presentando un pene maschile come oggetto di analisi estetica: l’ingrandimento fisico del dettaglio fotografico va di pari passo con l’amplificazione pop dell’arte tradizionale, nulla di nuovo, ma fino a Mapplethorpe l’operazione era stata applicata solo al corpo femminile, con l’idea maschile di ingigantire le donne in un gioco di ego ipertrofici. Robert Mapplethorpe porta in scena un nuovo sguardo, ed è questo che non può essergli perdonato.

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro
Per qualche giorno lascio perdere la mia indagine su Mapplethorpe, non guardo più le sue foto. Rileggo un saggio di Baudrillard, Della seduzione. A un certo punto il filosofo scrive: «L’anatomia è il destino, diceva Freud. […] Ora, soltanto la seduzione si oppone radicalmente all’anatomia come destino»5.
Sottolineo la frase, anche se ancora non so come usarla. C’è qualcosa che non perdono a Robert Mapplethorpe: provo per lui attrazione ma è qualcosa di sgradevole, che sfiora il disgusto. So che si tratta di uno specchio.
Nel 2010 vivo a Napoli, dove lavoro come architetto. Non ho ancora trent’anni, sono da poco tornata da Barcellona, ogni giorno mi costringo a indossare tacchi sempre più alti per non sembrare la ragazzina che la mattina mi guarda allo specchio. In studio siamo in quattro, tutte donne; il professore universitario e suo figlio, che ci ha assunto, scherzano spesso su questo: dicono che lavorare con le donne è più semplice, meno stressante. Da un paio di mesi sto portando avanti da sola un progetto nella zona Est di Ponticelli, un bando europeo da ventisette milioni di euro che, se vinto, prevede la costruzione di più di ventiduemila metri quadri di nuova edilizia residenziale, tra sociale e privata. Ho passato il fine settimana a lavorare sulle tavole, sono arrivata al lavoro un’ora prima per stamparle, sono pronta per la riunione. Davanti a me c’è un altro professore universitario; il progetto porta il suo nome, è sua la direzione, anche se è la prima volta che lo incontro. Dà un’occhiata sbrigativa ai render, prende una penna e traccia due grosse croci sopra le torri disegnate in sezione. «Lo vedi?» dice. «Qui hai seguito la strada del verticalismo nordico, senza prendere in considerazione l’orizzontalità tellurica del sud».
Barra per intero il mio disegno, volta il foglio e traccia una linea che ricorda il profilo del mio progetto: morbida, allusiva, dal sapore vagamente freudiano. Solleva lo sguardo in direzione del mio datore di lavoro che a sua volta sorride. L’umiliazione che provo è fulminea, schiacciante; l’espressione sul volto dei due uomini è senza alcun dubbio la cosa più oscena che abbia mai visto.
Rileggo gli appunti che ho preso sulla vita di Mapplethorpe; cerco tra i suoi autoritratti i segni della trasformazione. Quello che non riesco a perdonagli – quello che non riesco a perdonare a me stessa – è che per liberare il suo sguardo ha sacrificato la ninfa sull’altare del satiro.

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro
Torno allo screenshot del video di Jesse Helms con la determinazione di chi vuole smascherare il mago. Dev’esserci un modo, mi dico, per salvare la ninfa e non cadere in trappola.
Osservo il completo dozzinale in poliestere dal quale esce il pene di Moore, lo paragono a quello del senatore, dal taglio sartoriale. Alla fine capisco. La provocazione di Mapplethorpe non risiede nell’immagine esplicita dei genitali, ma nella caricatura rappresentata dall’abito: è questo ciò che Helms vuole coprire. La censura riveste ciò che è nudo: non con una veste di grazia, ma con una veste di vergogna.
Ripenso all’esperienza con l’esibizionista: non è certo qualcosa di piacevole, ma è il fatto di non riuscire ancora oggi a trovare le parole per raccontarla che scatena la mia rabbia. La vergogna copre ogni cosa, soffoca il ricordo fino a renderlo non più mio: è qualcosa che mi assale dall’esterno imprigionandomi dentro uno sguardo che mi è stato insegnato da uomini come Helms. Uomini che mi hanno imposto di rinunciare a creare una mia immagine del corpo maschile.
Quello che voglio, adesso, è guardare.
Editing di Fabiana Castellino
Livia Del Gaudio ha studiato e lavorato come architetto, ora insegna storia dell’arte nelle scuole superiori. Ha collaborato con l’editore Feltrinelli in veste di lettrice, ha svolto attività di editor freelance ed è stata consulente editoriale per festival letterari. Nel 2021 ha fondato con Aurora Dell’Oro la rivista online «In allarmata radura». Ha scritto racconti e saggi, alcuni dei quali pubblicati su riviste online e cartacee («Subway Letteratura»; «Diaforia»; «Cadillac»; «Bomarscè»; «In allarmata radura»; «Retabloid», etc…). Collabora come critica d’arte con diversi illustratori e fotografi. Nel 2024 è uscita la novella Edwin Land. L’uomo della luce, Coppola Editore.





Vite Imperfette di Barbara Cannizzaro.
Questo progetto nasce dal mio desiderio di raccontare la vita che non si vede, che non si conosce di ragazze e donne normali, “modelle” che rappresentano la bellezza fuori da schemi e stereotipi sociali, con difficoltà più o meno visibili e che hanno trovato il coraggio di mostrarsi. Da diversi mesi viaggio per l’Italia per incontrarle nelle loro città, nelle loro case, nei loro luoghi del cuore, parlo con loro, ascolto le loro storie. Storie di donne che hanno deciso di raccontare attraverso le mie immagini, le loro difficoltà, i loro sogni, le paure e le speranze, le loro vite insomma, che raramente, a volte mai, hanno mostrato. Vite uniche ma che somigliano a tante vite, donne uguali a noi ma diverse. Imperfette e vere…come sono, come siamo. Unite dalla convinzione che essere se stesse e raccontarlo è la via migliore per aiutarsi ed aiutare.
Il progetto, nato in collaborazione con l’agenzia di moda inclusiva Imperfetta project è aperto a chiunque senta la necessità di raccontare la sua storia imperfetta. Sono profondamente convinta che la condivisione sia un potente mezzo di autocura e cura; normalizzare la diversità, raccontare difficoltà invisibili ma invalidanti, mostrare le paure inflitte da una società che ci vuole sempre più performanti e competitivi è quello che faccio come fotografa specializzata in fotografia sociale e terapeutica per dare il mio contributo a chi soffre e lotta perché non riesce a vivere incastrato nelle maglie di una società limitante e claustrofobica.
Barbara Cannizzaro (1973) nasce e vive a Roma. Ha studiato c/o O.fotografiche di Roma e il Centro di Fotografia Sperimentale Adams di Roma. È fotografa, educatrice e assistente sociale. In fotografia utilizza spesso l’autoritratto non come gesto egocentrico, come descrizione e raffigurazione sterile di se stessa ma come veicolo di espressione e liberazione di stati d’animo e dei pensieri. Ama, inoltre, fotografare le donne nella loro semplicità e unicità, il ritratto “sbagliato”, fuori dagli schemi e dai canoni classici. Studia ed elaboro progetti che abbiano come protagoniste donne normali(ma cos’è poi la normalità?) senza dar peso alla perfezione del corpo, all’ omologazione che ci rende tutti vuoti e infelici. Sceglie temi sociali e di valenza emotiva e psicologica per rendere la sua fotografia di concreto aiuto e possibile sostegno a chi ne fruisce. Ha ideato e realizzato diversi progetti sui disturbi alimentari (uno in collaborazione con l’agenzia di moda inclusiva Imperfetta Project), body shaming e body positive, rielaborazione del sé dopo gravi malattie. Ha iniziato da qualche mese Vite Imperfette, un progetto a lunga scadenza che mi vedrà in giro per l’Italia per raccontare il quotidiano delle modelle e dei modelli non conformi. Ha vinto diversi premi nazionali ed esposto in gallerie nazionali ed internazionali (Paratissima Torino, T.A.G. Roma, Camera Torino, Praga photo, circuito off di Paris photo, Kromart Gallery Roma, premio nazionale IgersItalia), ha partecipato al Ricarica foto festival di Sustinente nel 2022, fa parte dell’organizzazione della seconda ed. 2024 del Ricarica foto Festival. Si occupa di documentazione fotografica in ambito scolastico. I suoi studi di base come assistente sociale e la sua naturale predisposizione verso gli altri e verso l’animo umano l’ha fatta avvicinare al mondo della fotografia terapeutica. Nel giugno 2022 ha conseguito un master in fotografia terapeutica presso l’ associazione NetFo di A.Turchetti.
- G. Bataille, L’erotismo, 1991, ES, Milano ↩︎
- J.P. Sartre, L’essere e il nulla, 2014, Il Saggiatore, Milano ↩︎
- Intervista di Roberto D’Agostino, tratto da La filosofia di Moana, Moana’s Club, 1993 ↩︎
- Frase di R. Mapplethorpe citata in: J.Fritscher, Robert Mapplethorpe. Fotografia a mano armata, 2016, Johan & Levi Editore, Milano ↩︎
- J. Baudrillard, Della seduzione, 1997, SE, Milano ↩︎