Ombra

di Stefano Marino

© Fred Cigno

Dell’ombra mi piace la sua capacità anti-intuitiva di sopravvivere anche al buio. È sufficiente che il buio non sia assoluto, vuoto, e l’ombra rimane. Suppongo che le ombre moriranno solo alla fine dei tempi, quando la luce avrà esaurito tutti i suoi scopi. Ma  è una cosa difficile da immaginare e le cose inimmaginabili fanno paura.

Mi piace pensare che, contro ogni legge della fisica, anche le cose intangibili abbiano un’ombra e mi piace ipotizzare le forme, di quelle ombre. Che ombra può avere un sentimento? La rabbia, per esempio, avrà un’ombra ferina, l’amore un’ombra ectoplasmatica. E gli addii, che ombra hanno? Voglio credere che sia un’ombra a forma  di nontiscordardimé, o di cipresso. È tutto un grande gioco di ombre, insomma. E, come la sagoma dei morti di Hiroshima, spesso l’ombra rimane per tanto tempo, nei luoghi vissuti da chi l’ha generata, come a dire che il passato è tutto uno spettacolo di ombre cinesi sgorgato da mani che non sono più lì. E lo sforzo di seguire l’ombra, per arrivare alla mano che l’ha creata, è tra quelli più vani.

Ogni vita passata è una storia di ombre. Alla fine, questa è la verità più grande che, mi sembra, un’ombra possa insegnarmi.

1.

Era un giorno di maggio, in una Singapore così incoerente con il normale passare delle stagioni a cui ero abituato, che di primaverile non aveva proprio nulla.

Camminavo per strada, sprofondato in pensieri irrilevanti, quando mi fermai  davanti a una bottega con un cartello in legno sul marciapiede. Il cartello prometteva uno spettacolo sensazionale di ombre cinesi. Non so come mai, ma decisi di entrare. Una signora che sedeva dietro a un bancone mi porse un biglietto, io lo presi. Le chiesi quanto costasse, lei mi rispose che per chi vedeva lo spettacolo per la prima volta era gratis. Poi fece il giro attorno al bancone e mi accompagnò al fondo della bottega, dove la stanza sembrava essere delimitata da un tendone. Tirò la tenda e davanti a me si aprì un piccolo teatro con sei file. Mi fece accomodare in prima fila, posto centrale.

C’ero solo io, nella sala. Iniziai a chiedermi quante persone sarebbero dovute arrivare prima che lo spettacolo potesse iniziare. Ebbi appena il tempo di concludere quel pensiero che la sala divenne buia e un grande fascio di luce illuminò il piccolo palco, pochi metri davanti a me, per poi andarsi a infrangere su un telone bianco. Una musica asiatica iniziò a risuonare. Su quella sorta di candido schermo, apparve l’ombra di due mani che si congiunsero, poi si aprirono, creando un fiore di loto. Ciò  mi procurò una strana sensazione. Quelle mani, quelle mani che diventavano fiore, poi cane, poi rondine, poi profilo di donna, creavano un universo tutto loro, come un dio minore esiliato. Quelle mani io le conoscevo, quando passavano da una forma all’altra e fugacemente regalavano ai miei occhi l’ombra del loro vero aspetto. Io le riconoscevo: non avrei mai potuto dimenticare quelle mani. Erano le sue mani. E misteriosamente erano arrivate fin lì, a Singapore, e ora stavano mettendo in scena uno spettacolo tutto per me. Mentre sul telone veniva inscenato un pesce, io ricordavo il contatto con quelle mani: le sentivo addosso come se fossero state un ferro ustionante, mi marchiavano, mentre il mio sguardo si perdeva in quelle dita affusolate, propaggini di mani così morbide da non crederci.

Non sono più riuscito a resistere: mi sono alzato e sono corso verso il palco. La volevo vedere, volevo vedere dove si nascondeva e dove si nascondevano le sue mani che creavano quelle ombre. Sono salito sul palco, mi sono guardato intorno ma lei non c’era. Lei, nascosta tra le quinte, non c’era. Lei, dietro lo schermo bianco, non c’era. Lei, sotto, di fianco, sopra, non c’era. Non c’era lei e non c’era nessuno.

Mi bastò sentire un suono di passi alle mie spalle per capire che la signora stava venendo verso di me, ed era infastidita. Mi arrivò a pochi centimetri. Io ero ancora sul palco, la sua faccia era all’altezza delle mie ginocchia ma i suoi occhi puntavano in alto.

«Hai provato a svelare il trucco» mi disse. «Ora devi pagare».

Scesi dal palco, le diedi i soldi che reclamava e me ne andai. Appena arrivai in strada mi sembrò che finalmente, in quel momento, la primavera somigliasse davvero alla primavera.

© Fred Cigno

2.

Il termine ostensivo, in linguistica, per essere spiegato ha bisogno di essere accompagnato dalla rappresentazione di ciò che si vuol dire. I colori, per esempio: se una persona non avesse idea di cosa fosse il giallo, non ci sarebbe modo di spiegarlo a parole. Bisognerebbe fargli vedere un limone, indicarne la buccia e dire: «Questo è il giallo».

“Ombra” non è un termine ostensivo. La definizione di “ombra”, per la Treccani, è «zona della superficie di un corpo illuminato che è oscura in quanto è in posizione non raggiungibile dai raggi luminosi, oppure in quanto potrebbe essere illuminata ma i raggi luminosi sono intercettati da un corpo interposto tra essa e la sorgente di luce». Questo vuol dire che tra la luce e l’ombra si staglia sempre ciò che la genera. Quindi, l’ombra è un atto di creazione. Forse l’atto più primordiale che esista. Un neonato, ancor prima di emettere il suo primo vagito, prima del respiro iniziale della sua vita, ha già generato un’ombra. E quell’ombra lì crescerà, vivrà e morirà con lui.

Io non sono così convinto che “ombra” non sia un termine ostensivo. Possiamo raccontare l’ombra, possiamo definirla, possiamo persino derivarla da formule scientifiche che calcolano l’angolazione della luce che si infrange sulla materia. Ma niente sarà mai così incisivo come indicare una sagoma oscura che segue i nostri passi e dire: «Vedi, ragazzo, questa è la tua ombra».

© Fred Cigno

3.

C’è un’immagine che mi racconta una storia. Dei panni stesi su un prato sterminato ai piedi delle montagne, un unico filo tirato a un metro e mezzo da terra: non si vede né il suo inizio né la fine. I panni proiettano un’ombra per terra che sembra una parola di quattro lettere in un alfabeto indecifrabile, roba da archeologi umbratili. Una tovaglia con sopra dei motivi art nouveau genera a terra un’ombra netta, rettangolare, monolitica.

Il paesaggio dà un senso di fissità nel tempo, come se nulla sia mai realmente cambiato da quando le montagne sono emerse dal mare, e lo stesso vale per la tovaglia, che mi piace pensare possa essere una tovaglia generazionale su cui abbiano alloggiato pietanze provenienti da tutti i tempi, in un balletto di cibi fuori da ogni cronologia. Avrà visto famiglie amarsi e litigare, caffellatte sgocciolati da un pezzo di pane inzuppato. L’ombra della tovaglia è la seconda lettera. Le altre tre lettere derivano da magliette e felpe. Una felpa, appesa a testa in giù, genera una sorta di “A” fatta d’ombra. È l’unica lettera intellegibile, in quella strana parola. La “A” è la penultima. Chissà cosa c’è scritto. È una tara degli esseri umani cercare forzatamente poesia anche dove non c’è e, spesso, la risposta più prosaica è quella più vera. Forse, c’è scritto soltanto “ciao”.

© Fred Cigno

4.

«Hai mai unito i puntini delle lentiggini sulla tua schiena?»

«Che dici?»

«Fidati di me, sdraiati a pancia in giù».

Mi ascolta, si toglie la maglietta e si sdraia. Passo il mio dito indice sulla catena della bicicletta, più e più volte, lo imbevo di grasso e inizio a unire le lentiggini sulla sua schiena. Decido io quale sia il punto di partenza e quale quello finale. Dopo qualche linea nera, vedo comparire un volto di profilo con una pesante ruga sulla guancia, non capisco se sia una ruga o una cicatrice. Sembra un pirata, o un marinaio, uno di quelli da racconti antichi, quelli di De André e della sua Crêuza de Mä: “Umbre de muri, muri de mainé”, “ombre di facce, facce di marinai”. Il mio dito si rimpingua di grasso e poi riprende il suo lavoro. Andando avanti il viso sparisce, si sovrappongono altre linee e diventa sempre più nitida la sagoma di un airone.

 «C’è un airone» le dico.

Lei non può voltarsi a guardare la schiena. « Fai una foto e fammela vedere» risponde. «Aspetta. Prima fammi finire il lavoro».

Proseguo, l’airone si deforma e dalle sue ceneri esce un percorso, fatto di strade e sentieri, una mappa del tesoro, piena di curve dolci, mai a gomito o improvvise: dev’essere una di quelle strade divertenti da fare in moto o in bicicletta, tipo una strada di langa che sale e che scende, sale e scende, quelle che gli esperti chiamano “mangia e bevi”: l’ho sempre trovata una definizione bellissima.

«Manca poco: ho quasi finito» le dico. 

«Dai, fai in fretta, sono curiosa».

Unisco le ultime lentiggini mancanti e di colpo ecco una farfalla, perfetta,  simmetrica rispetto alla colonna vertebrale, come fosse un tatuaggio: Quale fu l’immortale mano o l’occhio/ch’ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?

Fui io, mia la mano, mio l’occhio, tua la schiena, tue le lentiggini.   

«Fai una foto, dai».

Prendo il telefono e scatto. Le mostro la farfalla della sua schiena, impressa sullo schermo. Lei guarda.

«Tu hai qualche problema» mi dice ridendo. Poi si spoglia completamente, togliendosi il poco che le rimaneva addosso e si butta nel fiume per togliersi tutto quel grasso dalla schiena. La vedo, nell’acqua gelida, sbattere le braccia e cercare di raggiungere punti impossibili con le sue mani per lavarsi.

«Ehi, vieni qua, aiutami a pulirmi» mi dice. Una farfalla.

© Fred Cigno

5.

Voglio far tagliare quell’albero davanti casa. Mi fa ombra sulla finestra e io, di ombra, in casa non ne voglio. Voglio poter guardare fuori, non voglio ostacoli tra me e la luce.

Voglio far tagliare quell’albero davanti casa perché di ombre, qua dentro, ne ho abbastanza e sarei anche stufo. Tutto ciò che è passato di qua mi ha lasciato in eredità la sua ombra e vi devo convivere. Non voglio ombre altrui. Proprio no.

Voglio far tagliare quell’albero davanti casa perché al mio vicino piace tanto, quell’albero. Però a me non piace il mio vicino e quindi il sillogismo è presto fatto.

Voglio far tagliare quell’albero davanti casa perché ricordo tutte le volte che ho recuperato il tuo pallone incastrato fra i suoi rami. Fingevo che mi scocciasse farlo, arrivavo in cortile, con un manico di scopa, scuotendo la testa, poi saltavo e slanciavo il braccio che reggeva il manico, fino a quando non colpivo il tuo pallone e lo facevo tornare a terra. Mi dicevi grazie, ti rispondevo prego. La prossima volta fai attenzione, però attenzione non la facevi mai e continuavi a impigliare palloni tra i rami. L’ultima volta non mi hai neanche chiesto di recuperartelo, sei tornato a casa come se niente fosse e poi non hai mai più giocato in cortile. Il tuo pallone è ancora lì, da anni. Oramai sarà parte di quell’albero, come quei bubboni che crescono sui rami e che da bambino pensavo fossero malattie.

Voglio far tagliare quell’albero davanti a casa, perché sì. Perché a volte non c’è bisogno di giustificare la propria smania distruttiva. Perché bisogna distruggere per poter creare o, anche solo, distruggere per tentar di ritrovare la pace. E poi, dicevo, quell’albero mi fa ombra. Da quella finestra lì, non mi ricordo neanche più che colore abbia il cielo.

© Fred Cigno

6.

In paese, faceva ogni tanto la sua apparizione un ragazzo con i capelli lunghi che avevamo soprannominato Che Guevara. La nostra fantasia di dodicenni non arrivava più in là di così e per dei paesani puro sangue, con un orizzonte che corrispondeva alla punta delle nostre scarpe, vedere un ragazzo più grande di noi portare i capelli lunghi era la cosa più trasgressiva che potessimo immaginare. Nella scelta del soprannome Che Guevara qualche piccolo elemento di oggettività c’era: era impegnato politicamente, quel ragazzo, si vestiva come facevano i militanti nei licei di città e ci trattava quasi da pari, cercando di interessarci a tematiche sociali che sul momento ci sembravano importantissime, ma appena qualcuno se ne usciva con l’idea di andare a tirare i petardi ai rospi, le dimenticavamo con la stessa velocità con cui le avevamo assimilate.

Una domenica d’inverno, trovammo Che Guevara al suo tavolo d’ordinanza al bar, mentre rollava una sigaretta e sorseggiava una birra con la stessa liturgia e cura che si riserva a un whisky d’annata. Su una sedia vicino a lui, aveva posato uno zaino  da campeggio.

«Ehi, Che» gli disse uno di noi.

Rispose al saluto sbuffando il fumo nella nostra direzione. Iniziammo a ronzargli intorno, in attesa che ci elargisse la sua perla politica quotidiana, di modo che il dimenticarla in fretta diventasse una scusa per cimentarci con qualche gioco che ci facesse trascorrere il pomeriggio.

«Fra poco parto» ci disse. E intanto centellinò un altro sorso di quella birra  oramai senza schiuma che neanche l’inverno poteva conservare fredda.

«E dove vai?» gli risposi.

«In Spagna. A piedi».

«Ma come a piedi?» gli disse Nanni.

«Sì, voglio partire a piedi e arrivare fino in Spagna». Ci avesse detto che   voleva arrivare a piedi su Giove, per noi sarebbe stato lo stesso, la Spagna ci sembrava irraggiungibile ed esotica. Non ci sforzavamo neanche di immaginare che strada avrebbe preso. Accogliemmo semplicemente questa sua informazione come un dato di fatto, lo salutammo e ce ne andammo nel bosco in bicicletta a buttarci giù dalle rive innevate. Dopo qualche discesa, sudati e sporchi, ci sedemmo su un tronco, sotto un faggio, a fumare sigarette che avevamo rubato ai nostri genitori. Sentimmo un rumore alle nostre spalle, ci girammo e lo trovammo lì: Che Guevara, zaino in spalla, eskimo e scarponi. Gli rivolgemmo un cenno di saluto, uno di noi gli concesse un “buon viaggio”. Lui si fermò, si mise lo zaino sul davanti, aprì una tasca e ci lasciò tre sigarette già rollate. «Grazie, Che. Sei un grande» gli dicemmo. Non ci rispose e riprese a camminare fino a quando non lo vedemmo sparire in quella distesa di neve, castagni e faggi.

Dal giorno dopo, iniziammo a fantasticare sul viaggio di Che Guevara, fino a convincerci che fosse morto congelato nel bosco. Così decidemmo di andare a cercare la salma. Partimmo a piedi e raggiungemmo il punto in cui lo avevamo incontrato. Ci aspettavamo di imbatterci nel suo cadavere da un momento all’altro, cercavamo le sue tracce nella neve. Urlavamo “Che!”, con la presunzione che un morto potesse rispondere al nostro richiamo.

Perlustrammo quel bosco ogni pomeriggio per tutto l’inverno, ma del cadavere neanche l’ombra. L’idea di trovarne la salma svanì insieme alla neve, con l’arrivare dei primi afflati di primavera.

Una mattina di aprile, io e Nanni decidemmo di andare alla grotta, per fumare e bere una bottiglia di vodka alla menta. La grotta era un rifugio partigiano durante la guerra e si trovava poco più in alto rispetto al punto dove incontrammo Che Guevara quel pomeriggio d’inverno. Nelle nostre battute di ricerca al cadavere la grotta ci era preclusa: d’inverno c’era talmente tanta neve da renderne impossibile l’accesso. La mattina, su quel versante nord, il sole non batteva e la grotta era così buia da far dubitare del primo atto compiuto da Dio. Per noi, era sempre una prova di coraggio, ficcarsi lì dentro a fumare e bere. Nessuno aveva mai ammesso a voce alta di aver paura e, se ce lo fossimo chiesto a vicenda, avremmo negato fino alla morte.

«Oh, fai luce» mi disse Nanni. Io tirai fuori dalla tasca l’accendino. Sfregai il pollice sulla rotella per accenderlo ma niente da fare, emetteva solo una rapida e inutile scintilla.

«Coglione, non sei neanche riuscito a prendere un accendino che vada».

«E allora la prossima volta portalo tu!» gli risposi con spavalderia per mascherare il mio senso di colpa. Non ribatté, ma lo immaginai nell’oscurità che mi mandava a fare in culo con il gesto della mano.

Poi vi fu un rumore che interruppe quel silenzio: «Ho dato un calcio a qualcosa» mi disse Nanni, e si accovacciò per tastare il suolo. «Cazzo, è uno scarpone. È quello del Che! È quello del Che!» si mise a urlare. Lanciò via ciò che aveva raccolto, come se scottasse. In quel momento, finalmente, l’accendino emise la sua fiamma: nell’oscurità rischiarata solo da una flebile luce, entrambi vedemmo un’ombra, fissa, che poteva ricordare qualsiasi cosa abbia mai messo piede sulla terra, ma noi eravamo più che certi fosse l’ombra di un uomo, in piedi. D’istinto facemmo le uniche due cose che ci sembravano sensate in quel momento: urlammo e corremmo fuori, verso la luce. Corremmo via dal bosco, corremmo fino in paese, corremmo come non avevamo mai corso in vita nostra. E senza mai smettere di urlare.

I ragazzini di oggi chiamano quel posto “la grotta del Che” e si sfidano a entrarci. Narrano che lì dentro viva il fantasma di un ragazzo partito per la Spagna e morto congelato. Io glielo lascio credere. In quella grotta non sono mai più entrato.

Editing di Fabiana Castellino

Stefano Marino vive a Torino e fa l’architetto. Quando gira bene, scrive racconti e articoli di critica letteraria. Suoi scritti sono apparsi su: Nazione Indiana, Doppiozero, Marvin, L’indiependente, Narrandom e Morel.

«Automobili affollate che escono in strada aperta. Benzinai che riempiono serbatoi di automobili decappottabili e cabriolet.

Giardini rocciosi: parasole; ombrelloni da spiaggia; rive sabbiose con onde che si gonfiano dolcemente; onde spumeggianti che coprono di spruzzi barche a vela nell’orizzonte lontano.

Gente in piedi all’ombra di alberi e tende da sole. Finestrini aperti su tram e sugli autobus; acqua potabile da sorgenti o vecchi pozzi, punti ombrosi lungo gli argini – sole sull’acqua intorno; gente che nuota in stagni, fiumi, ruscelli».

Il brano, estratto dagli appunti presi per il progetto Estate di Roy Stryker, e riportato da Geoff Dyer in L’infinito istante, mostra cosa accade alla fotografia quando persegue la strada del documento: si trasforma in poesia. Quello che in apparenza è un elenco da consegnare ai fotografi coinvolti dalla Farm Security Administration (FSA) diretta da Stryker nella realizzazione di un’istantanea dell’America degli anni Trenta diventa un gioco di rimandi, accostamenti, immagini e allusioni che molto ha a che fare con il verso libero, e ben poco con la statistica. 

La fotografia di Fred Cigno sembra appartenere a questa metamorfosi. Apparentemente oggettiva, pulita, priva di trucchi autoriali si muove dalla realtà ma dentro il reale produce uno scarto: quello dato da un obiettivo che rifugge la posa avvicinandosi al soggetto fino a una distanza di non protezione, di troppo vicino. L’ombra raccontata dai suoi scatti è un’ombra quotidiana, lontana dal palcoscenico, che racconta la pelle, la stoffa, la superficie di un muro. Un’ombra da cui emerge la trasparenza della luce.

Livia Del Gaudio

Fred Cigno è un fotografo interessato all’arte e al documentario. Lavora tra pensieri, racconti e ricerca sul campo, utilizzando il camminare e un processo creativo lento come strumenti per contrastare la crescente velocità della vita attuale, riunendo immagini istintive in riflessioni metaforiche. Segue un flusso di lavoro analogico controllando l’intero processo, dallo scatto alla stampa in camera oscura o vicino alla natura. Nel 2022 è uscito il suo primo libro autoprodotto (Ombra-Forma), si è formato studiando fotografia all’Accademia di Belle Arti.

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