Tre miti dalle Marianne Settentrionali

Hannah Dela Cruz Abrams

Traduzione di Aurora Dell’Oro

© Jessica Chiappini

Il mito della Creazione

Il popolo Chamorro dice Puntan e Fu’una. Puntan il fratello, custode del vuoto. Fu’una la sorella, custode del vuoto. Dice che il fratello morì e la sorella gli strappò gli occhi e li lanciò in alto, sole e luna. Piegò il suo grande petto finché divenne un arco, il grande cielo. Dice che il cuore del fratello batté e dice che il battito è il tempo. Fu’una la sorella adagiò la schiena del fratello in fondo al niente, la depose con delicatezza sul niente. Dice che sminuzzò la schiena del fratello e la unì alla terra e il taro crebbe e il pandano1 crebbe e le api uscirono dagli alberi di cocco. La sorella sorrise e pianse, dice. Nuotò con gli squali e seguì le balene e nel mare vicino a Guahan divenne uno scoglio che si spezzò a metà. Dice che ogni pietra è una persona. Alcune non sono buone. Alcuni pesci, fiumi fangosi, sono teneri, e alla fine del giorno, quando ogni cosa è lenta e la luce è piena di polvere, dice: «Avvicinatevi bambini, e ascoltate.»

© Jessica Chiappini

Il mito degli Antichi

Il popolo Chamorro dice: Siamo venuti qui per molte ragioni. Siamo venuti qui perché non lo sappiamo. Perché c’erano troppe persone nell’altro posto, perché c’era la carestia. Nell’altro posto, c’erano guerre tribali. Non riusciamo a ricordare l’altro posto. Perché si combatteva per dio e per la terra, ecco perché. Una catastrofe, un disastro. Un’eruzione vulcanica. Siamo venuti, perché sentivamo che l’oceano era nostra madre e le stelle erano nostro padre. La notte prima di partire desinammo con del buon cibo, alcuni danzarono e si ubriacarono con il latte di cocco fermentato e ci addormentammo sulla sabbia. E al buio, prima che sorgesse il sole, spingemmo in acqua le nostre sakman2 e alzammo gli alberi. Dicemmo addio a coloro che erano rimasti sulla spiaggia lontana, e poi navigammo per dieci anni, ascoltando le maree. Navigammo per molti anni, osservando i volti che cambiavano, udendo le voci che cambiavano. Quando arrivammo, eravamo un popolo diverso, un popolo nuovo. E tutto quello che avevamo con noi erano pietre e riso.

© Jessica Chiappini

Il mito della sorgente di Lourdes

Il popolo Chamorro dice che non voleva la guerra. Non gli importava della guerra. I Giapponesi erano gentili, dice. I soldati americani erano buoni, avevano le medicine, e del buon tabacco. Dice che quando le spiagge si incendiarono, e il cielo scoppiò come un fuoco artificiale, prese i suoi sacchi di patate, le pentole e i tegami e le croci e i bambini, e andò sulle colline. Nelle grotte buie piene di pipistrelli sulle colline. Dice che durò troppo a lungo. Che il cibo finì. Gli uccelli scapparono. Dalle grotte poteva vedere le navi grigie in acqua e gli aerei in cielo. Dice che i contadini giapponesi corsero verso le scogliere. Con i figli piccoli, tenuti per mano, giù dalle scogliere. Di notte, il cielo era luminoso e assordante, l’oceano rosso. Di notte, pregava. Su mani e ginocchia, pregava. Sul pavimento roccioso delle grotte, le dita che sgranavano i rosari. Acqua fresca sgorgò dalla terra, dice. Portò ai malati l’acqua racchiusa tra le mani. La offrì alle labbra dei moribondi e sentì che la morte se n’andava. Diede alla sorgente il nome Lourdes, e vi lasciò i suoi idoli.

Il testo è stato originariamente pubblicato sulla rivista «StoryQuarterly» n. 50 nel 2017. Ringraziamo autrice e rivista per avere acconsentito alla traduzione.

Hannah Dela Cruz Abrams ha ricevuto nel 2013 il Whithing Writers Award per il romanzo The Man Who Danced with Dolls e per il memoir a cui sta lavorando, The Following Sea. Ha inoltre ricevuto il sostegno del Rona Jaffe National Literary Award e della North Carolina Arts Council Fellowship. I suoi testi sono stati pubblicati in OrionOxford AmericanStoryQuarterlyThe PinchSouthern Humanities Review e altrove. Attualmente Abrams insegna Inglese presso la University of North Carolina Wilmington.

«L’apparecchio fotografico ci ha fornito possibilità sorprendenti, la cui valorizzazione è appena iniziata. Già l’attuale obiettivo, nell’ampliamento del campo visivo, non è più vincolato ai limiti angusti del nostro occhio; nessun mezzo manuale (matita, pennello, ecc.) è in grado di fissare squarci del mondo visti in quel modo; così pure risulta impossibile fissare il movimento nella sua essenza con i mezzi manuali di raffigurazione. anche le possibilità di distorsione dell’obiettivo – veduta dal basso, dall’alto, di scorcio – non sono assolutamente da valutare solo in modo negativo, ma forniscono invece una visione ottica senza pregiudizi, cosa che i nostri occhi, vincolati a leggi associative, non riescono a fare3».

Nella fotografia di Jessica Chiappini risuonano le parole di Moholy-Nagy, la sua è la ricerca di una visione ottica senza pregiudizi che tende a liberare lo sguardo dalla necessità di narrare. Anche quando il soggetto rappresentato è il corpo, si tratta di un corpo che non tocca: un corpo che appare come fantasma, lontano ricordo o visione profetica all’interno di una natura che occupa interamente lo spazio, presenza pre-istorica proveniente dalla notte dei tempi.

Dentro questa natura l’uomo si rifugia e scompare acquattandosi dentro le grotte o mimetizzandosi tra il fogliame, ospite fragile di un mondo non (più) suo. All’immagine, la fotografa preferisce il gesto: l’atto che una volta compiuto divide la luce dal buio, il bene dal male, ciò che poteva essere, da ciò che è.

Livia Del Gaudio

Jessica Chiappini nasce e vive a Pescara, tra la città e la provincia, tra il mare e la montagna che arrivano quasi a toccarsi. Da piccola riempiva interi quaderni di disegni. Crescendo, sceglie la fotocamera invece che la matita per provare a capire il mondo. Frequenta corsi di fotografia, studia cinema, divora film per cui nutre una passione tremebonda. Dal 2017 inizia a lavorare come fotografa freelance, continuando a fare anche lavori diversi, più o meno interessanti. Urbex è una sua passione, esplorare, entrare nelle case o nelle fabbriche abbandonate, fotografarle, disegnarle con la luce, ma soprattutto con l’ombra.

  1. Il taro è una pianta erbacea tipica dell’Asia centro-meridionale dal cui tubero si ricava farina e amido. Il pandano, diffuso in Africa, Asia e Oceania, è un albero che produce frutti simili all’ananas. Foglie, radici e frutti vengono usati per fabbricare cestini, distillare oli essenziali, estrarre succhi e aromatizzare riso e torte. ↩︎
  2. Imbarcazioni tradizionali del popolo Chamorro, note anche come “prue volanti”. ↩︎
  3.  L. Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film, Einaudi, 2010, p.5 ↩︎

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