di Livia Del Gaudio

© Alessandra Stabile
Procedere per assonanza: l’Alta marea di Anahí Flores, quella di Lucian Segura e Giovani umani in fuga di Gianni Celati
di Livia Del Gaudio
Nel 1991, con il titolo Alta Marea, Lucian Segura presenta al Torino Film Festival un lungometraggio tratto da un racconto di Gianni Celati, Giovani umani in fuga.
Ultimo capitolo della raccolta I narratori delle pianure1, Giovani umani in fuga è la storia di un viaggio senza direzione: quattro ragazzi attraversano campagne disabitate, carcasse di città e di fiumi, luoghi scomparsi e zone militarizzate con l’unico scopo di nascondere sé stessi e il cadavere di un amico morto. Una fuga assurda perché immotivata, compiuta da quattro innocenti, perché “così succede in questo mondo e non ce n’è un altro, non può esserci altro, non c’è da sperare altro”.
Giovani umani in fuga non segna la conclusione de I narratori delle pianure quanto il suo ribaltamento: se fino a questo momento Celati ha fatto del territorio, della sua riconoscibilità geografica e storica, un manifesto, sulla soglia del volume abbandona la strada del realismo e si rivolge al perturbante.
La vicenda è raccontata senza artifici. L’autore si attiene a una fedele trascrizione dei fatti riportati come all’interno di un articolo di cronaca nera del quale imita il tono grazie all’uso dell’imperfetto. La strada della verosimiglianza è abbandonata in maniera sottile inserendo l’elemento fantastico attraverso il paesaggio: la nebbia che si coagula in brina, in fango, nel delta del fiume e infine nel mare. L’identità dei luoghi diventa fumosa. Man mano che la fuga procede, l’acqua da elemento marginale si fa predominante: un’acqua che avanza, che monta, che travolge la realtà trasformandola in psicosi.
L’incipit è quello delle favole. Nonostante Celati affermi che si tratta di “un tempo non lontano” siamo subito portati in un aldilà mitologico dove la violenza irrompe ingiusta e fraudolenta, nella forma del padrone di una discoteca che, pur di mantenere l’ordine nel suo locale, assolda dei poliziotti senza scrupoli che uccidono a manganellate un giovane, riversando poi la colpa dell’omicidio sui quattro amici presenti. Per Celati l’identità è un ingombro di cui liberarsi alla svelta, e dei protagonisti non conosceremo mai il nome, così come dei luoghi, sostituiti da generiche indicazioni (“la città delle piastrelle”), cartelli stradali e manifesti pubblicitari poco attendibili e soprattutto insegne al neon, simboli di una modernità postindustriale che riecheggia la città-miraggio descritta da Robert Venturi in Imparare da Las Vegas2.
Le scene, di nuovo come nelle fiabe, si ripetono: chi offre aiuto e segnalazione ai fuggiaschi è sempre un personaggio magico (il venditore arabo, l’arrotino, Mazinga) che li guida in un viaggio dell’eroe al contrario, sempre più giù verso l’acqua; una fuga che prende presto i connotati della sparizione dentro un paesaggio mutato dalla foschia e poi dalla pioggia; denso di grigi, labirintico e irriconoscibile. L’indicazione che tutti forniscono è la stessa: dirigersi verso una zona chiamata la “sacca dei morti”, unica forma di salvezza per coloro che ai morti sembrano sempre più assomigliare per il digiuno prolungato, la sete e un tremore che li coglie “dalla testa ai piedi”. Quando alla fine, dopo aver abbandonato la macchina e proceduto attraverso la laguna a piedi, con il cadavere del compagno sulle spalle, i quattro sono ormai profondamente mutati e pronti al compiersi della profezia: la “sacca dei morti” altro non è che “una baracca fatta di lamiera ondulata, col tetto di eternit” accanto alla quale è ancorata una barca.
Sul limitare del mare, lì dove ogni terra si discioglie in acqua, la scelta è obbligata: procedere verso l’orizzonte, continuare a remare, credere, come i marinai, che prima o poi l’acqua conduca da qualche parte.