Il giro di amaro

di Federico Ghillino

© Alessandro Reitano

Scrivo con l’angoscia che mi venga chiesto conto di ciò che scrivo. Immagino qualcuno che me lo domanda, senza accuse, per sapere, ma faccio scena muta – mi hanno beccato, penso, e non so cosa dire. Ho letto pagine memorabili di scrittori che sussurrano – in strofe, in paragrafi, in stralci, in passaggi – come affrontano e cosa sanno dello scrivere. Lo hanno detto in tratti eccellenti di parola e pensiero, con frasi raffinate e ricercate che, parlando di scrittura, hanno generato la scrittura stessa – limpida, dissetante. Il mio incubo è fare scena muta.

Cartarescu dice di avere scritto alcune migliaia di pagine di letteratura, poi tutto si è dissolto in fumo. Nelle vanaglorie notturne mi sono confrontato con lui, in un penoso braccio di ferro da cui non potevo uscire che sconfitto: nella grandezza delle ossessioni, delle manie, del prurito. Mi sono visto tra il piumino e il materasso, nudo, a sgranchirmi come un lombrico accecato dal sole, snidato da un arpione come una chiocciola spacciata. Ai primi bagliori mi sono dovuto ammettere sconfitto anche sulla pagina e, per giunta, del poco che ho scritto, ho scoperto di non sapere nulla.

*

Continuo a trovare insopportabile la poesia contemporanea. Lo dico come se la conoscessi nella sua interezza – ovviamente non è così – ma l’indisposizione torna negligente, uguale a quando ero studente. Perdo tempo su testi che conosco, mi accoccolo nell’uguale, non vado avanti.

Rincorro qualche scrittore che ho studiato all’università e ho amato da ventenne. Insisto: lo strattono per la giacca, a volte mi dà retta, alle volte mi concede la parola. L’amore, un tempo corrisposto, oggi é guardingo, indolente, maldisposto a cedere. Nel mio volto non c’è più lo studente entusiasta: oggi sono un adulto, tra gli altri, con delle ambizioni. Rileggo un vecchio libro consumato, imito qualche metro, scimmiotto una ridicola epica intima, ripasso i nomi a voce alta: un’invocazione, il disperato tentativo di essere ancora un bravo scolaro. Niente, non si va da nessuna parte, mi brucia anche un po’ la gola.

Un amico cita scrittori che non conosco. Ci facciamo un pranzo economico con la zuppa surgelata, parliamo di alcuni autori che conosciamo di persona. Non me ne va bene uno. Un tempo la letteratura sperimentale mi piaceva, era affilata, scientifica, in camice da laboratorio. Era fredda, ghiacciata che faceva male ai denti – ma che gusto: era deliziosa. Ora tutto è una pietanza sgualcita: se c’é lirica è troppo lirica, se c’é esperimento è troppo esperimento – fate l’amore se volete essere lirici, dico tra me e me, frustrato e invidioso, scrivete saggi se vi sentite scienziati –. Faccio dell’erba un fascio e riempio di astio i miei silenzi. Continuo a non saper rispondere alle domande sulla mia scrittura, tantomeno a quelle della mia scrittura. L’inciampo si raddoppia, il capitombolo si fa carpiato, roteo a mezz’aria e cado in piedi, scosso, confuso, disorientato. Continuo a non trovare la strada.

La narrazione mi conforta. L’ordine schematico, misurabile, mi fa sentire al sicuro – ecco: si vede che sto invecchiando. Tento di salvarmi sulla via del progetto ordinato: il mio personale cimento è uno specchietto. Sento di partire per la tangente – una sensazione fisica –, l’ordine assoluto a cui anelo si schianta nel disordine da cui sono abitato, forse infestato. Che fatica.

© Alessandro Reitano

Lascio perdere ed esco. Incrocio Ferdinand al bar, fuma nel solito modo nervoso e contrito. Parla serio con la persona che siede di fronte a lui. Un certo Nino, non lo conosco, ha la faccia da ragazzetto ma avrà la mia età, anche meno. Quando Ferdinand me lo presenta, lui sfoggia un sorriso che accompagna alla perfezione il ciuffo studiatissimo – “a dare movimento”, dice lui. Mi informano che stanno parlando di letteratura sperimentale, io mi siedo rinfrancato dall’incontro e dico «Continuate pure, non vi voglio interrompere» e Nino continua.

«Dicevamo della questione stilistica e dell’impersonalità. La faccio breve, non ti ripeto tutto il discorso. La mia posizione potrà essere un po’ âgé, ma ho bisogno di passione e romanticismo nella mia arte. Non è un tentativo di rifiutare la contemporaneità, piuttosto tento di portare l’oggi a una dimensione emotiva più domestica, più umana. Detto ciò: la poesia mi ha dato la vita; poi è arrivato il cinema e me l’ha cambiata. Ad oggi sono entrambi irrinunciabili.»

Il suo discorso fila e la genuinità con cui lo conduce mi sorprende, comunque taccio. Ferdinand ribatte senza considerarmi: scuote la sigaretta con vigore e incespica nel suo accento francese.

«Non c’è stile senza amore, ma l’amore a un certo punto finisce. Allora vale stare zitti o trovare uno stile nuovo che ne sappia fare a meno. Mi hanno detto “Bardamu! Dov’è finita la tua passione? Di te conoscevo il ragazzo che ama!”, la passione c’era, ma a forza di sperperarla giorno per giorno è andata. Si vede che sei giovane, Nino, anche io credevo nell’amore, ma quando si estingue resta spazio per cose meno potenti e più reali. L’amore si fa pena, l’odio insofferenza – meglio andarsene a quel punto, ritirarsi e stare sulle proprie.»

Nino è tutt’altro che persuaso. Io non dico niente, assisto alla recita degli intellettuali e – senza dichiararmi su nulla, assumendo una postura concentrata – entro a farne parte. Penso alla coppia che sta facendo colazione nel tavolino accanto. Li immagino che ci ascoltano e si lanciano sguardi silenziosi e scandalizzati, ridendo. Provo pena per noi.

© Alessandro Reitano

Mentre cammino mi affianca: non riesco ad abbracciare il mio disordine. Cambio panchina, mi torna vicino. Non si é mai presentato ma ci si conosce da una vita. É un vecchio amico con cui ormai é impossibile stare, la ex con cui si è da anni in buoni rapporti e assume l’aspetto di un parente – ha un fascino sgualcito ed è ormai intollerabile.

Ascolto un podcast, una scrittrice cita uno stralcio di Marías, vado a cercarlo in biblioteca e lo leggo più volte – faccio come col cibo, mi ingozzo. Ho già dimenticato il titolo. Dice che lui va a tentoni, non progetta, esplora la mappa e rispetta il passato. Molto bello, parole da grande scrittore, chiusa clamorosa, tutto magnifico.

Un’amica mi parla di Ivano Ferrari, lo cerco su internet, leggo due versi, svariati articoli. Le sue vicende personali, il suo lavoro e quello che ha scritto mi mettono un malessere generalizzato. Vorrei che il vicino mettesse la musica a palla, vorrei una distrazione a caso, crogiolarmi in un pensiero comodo e triste, far finta di nulla. Forse la narrativa mi aiuta a star calmo.

Rileggo The hunting of the Snark, l’ho letto molte volte, mi stordisce come un pappagallo che urla nell’orecchio, perciò lo rileggo. Capisco, alla fine, che la cosa da non fare è soppesare ciò che scrivo, è un gesto violento, totalmente inutile; ha l’obiettivo di valutare e finisce per svalutare, mi mette alle strette, non riesco a star fermo e voglio scappare.

Nel frattempo sono mesi che mi dico rileggo Celine. Metto il libro sulla scrivania e rimane lì fermo. Ne contemplo la geometria, ne percepisco la contrita densità. Lo sfoglio, rileggo qualche pagina a caso, cerco di ricordare la trama e non la ricordo, a tratti confondo i personaggi. Cerco una frase cattiva, una qualunque, che mi dia il brivido del cinismo, non sempre la trovo, sento lo slang un po’ strano – lo ricordavo diverso. Mi viene in mente un amico, chissà perché, gli mando un vocale dove leggo lo stralcio. Non ricevo risposta. Lascio il libro qualche giorno sul tavolo, la mattina buona lo apro a caso, lo annuso e lo rimetto in libreria. Aspetto qualche settimana e ripeto da capo.

© Alessandro Reitano

Scrivo e leggo in modo disordinato e disfunzionale. La solitudine me le rende attività complesse: sono rifugi senza finestre, belvederi che contemplano baratri, danno un conforto che tramuta in sconforto; mi dico da anni che se avessi smesso di scrivere, o di provare a farlo, sarei molto più avanti col lavoro, con i soldi, con tutti i correlati di questa vita. Con una capriola mi infilo nel letto, cerco di addormentarmi in una posizione dinoccolata, come se fossi un cadavere, lasciando la luce accesa – poi la lampadina mi suscita un’angoscia sottile di cui non voglio farmi carico e alla fine la spengo. Non mi lavo i denti.

Le citazioni: all’università mi circondavano persone dalla memoria enciclopedica. La mia invece è sempre stata randomica, una memoria che non ricorda le cose utili e necessarie ma suggerisce particolari belli e inutili, piacevolmente specifici, per il gusto del diorama, dell’osservazione al microscopio, dell’entomologia.

Ho dimenticato testi con cui mi sono misurato più volte ma, in questo pescaggio infinito, ricordo due versi di Nino Oxilia che ho letto una sola volta, anni fa, perché li trovo da anni simpatici, perché da anni mi suonano proprio bene. All’epoca non sapevo nulla di Nino Oxilia, non avevo letto abbastanza da poter affermare che mi piacesse; mi aveva dato l’idea di essere un tipo spassoso, con cui ci si diverte e sicuro le serate vanno bene – magari ti infili a caso a una festa o alla fine si tira su il gruppone senza aver organizzato nulla, in modo casuale, ma stavolta con piacere.

*

Esco di nuovo e vado da Paul. Sull’uscio, in mezzo a un casino che non ci si muove, c’è Ferdinand. Beve solo vino bianco, fuma la ventisettesima sigaretta della giornata, straparla di qualcosa che non merita di essere riportato. Si confonde alla perfezione coi cinquantenni ubriachi che frequentano il bar: ha un’altra statura ma, per il resto, è esattamente uguale a loro. Vicino a lui c’è la ragazza che sta frequentando in questo periodo, chissà quanto durerà questa volta – non indago oltre. Dal fondo del vicolo, noto che si avvicinano tre tipi con passo zelante. Forse li ho già visti, non saprei. Attraversano al galoppo Canneto il Curto. Hanno tre scintillanti cappellini a visiera, di vent’anni fa, che ombreggiano tre grugni niente male.

Quello che sembra il capetto della brigata approccia con fare aggressivo uno che sta lì fuori, uno dei soliti, che non si fa intimidire dai modi sfacciati. Appena risponde «Sì, sono io», riceve una sberla in piena faccia. Parte una rissa di gruppo, si mettono in mezzo tutti, qualche amico cerca di separarli senza successo. Si strattonano e si danno pugni e schiaffi, non si capisce nemmeno chi voglia fermare e chi alimentare lo scontro. È un putiferio: la gente si affaccia e urla di smetterla; attorno si forma il cerchio; c’è chi scappa via senza pagare; chi non partecipa, istiga e ride; la maggior parte rimangono impalati di fronte allo spettacolo. Tra quelli, io.

Quando mi riprendo sono a bocca aperta. Sto per rovesciare l’ultimo sorso dal bicchiere: lo trangugio. Al bancone ne prendo un altro e vado a rilassarmi in fondo al locale, che è deserto perché sono tutti fuori. Seduto a un tavolino, mi godo Paul, il barista, che dopo essere uscito a urlare qualcosa contro la zuffa, entra e chiama la polizia alla velocità della luce. È incazzato nero.

Nino non sembra entusiasta. Mi raggiunge in fondo al locale.

«Che palle: scontato come nei film.» Dice mentre si siede vicino a me.

«Non pensavo di vedere mai un casino simile da Paul. Ma cos’è successo? L’hai capito?»

«Ho sentito il nome del tipo che ha iniziato, si chiama Filippo, c’è di mezzo qualcosa che è stato scritto su qualcuno. Si saranno diffamati. Non mi interessa. Pensa quando arrivano gli sbirri che brutti quarti d’ora.»

Alle urla si aggiungono altre urla – dure e impositive, non quelle degli avventori ubriachi, biascicate – ed entrano due agenti che vanno dritti da Paul.

«Eccoli, i campioni.» Nino lo dice, io lo penso.

Gli sbirri arrivano in massa. Per dieci pezzenti accorrono in quantità. La rissa termina in un attimo. Guardandoli negli occhi, si legge subito chi ha un rapporto complicato con la propria fedina penale. Vengono schedati. I più caldi che non vogliono darsi una calmata sono portati in questura. Cala prima il silenzio di chi ha qualcosa da nascondere, poi il malumore di chi non vede l’ora di andarsene.

«Nino, che si fa? Qui marca male.»

«Io cambio bar, si è guastata l’aria.»

«Vorrei vedere come va a finire.»

«Ma goditela sta vita, Tobia, che dura un attimo.» Entra un poliziotto che inizia a fare domande a Paul, Nino lo squadra e riprende: «Io me ne vado, se mi raggiungi ti racconto com’è la notte a Torino.»

© Alessandro Reitano

Sono anni che deambulo in città impugnando il cellulare, col sogno di fare alta letteratura mentre digito a sproposito sulle note, vagando verso luoghi dove spero di non incontrare nessuno. Alterno a momenti di ipnosi, come questo, l’insistita attività della chiacchiera, che viola i malcapitati con monologhi galoppanti, per il gusto di argomentare e con l’infausto risultato di annoiare.

Ripasso le note sul telefono. Ci sono pezzi di cose, oscillano tra pensierini e belle frasi totalmente decontestualizzate – spesso suonano bene e basta. Trovo nomi che mi piacciono, un po’ veri, sentiti in qualche dialogo, letti su qualche citofono, un po’ inventati. A volte segno singole parole, qualche verso, qualche rima. Mi soffermo su una nota: riporta solo la parola “Dissanguamento”. Chissà quando me la sono segnata, chissà a cosa faceva riferimento. Rileggo le note e produco nuove strutture di senso, così, per il gusto del florilegio, per esplorare l’infinito spazio lacunoso tra una nota e l’altra. Trovo anche delle citazioni di romanzi, saggi o poesia, a volte ho scritto i riferimenti, altre no.

Mi imbatto in qualche frase da Mafarka il futurista. L’ho letto un secolo fa. Ripenso ai futuristi che tanto mi sono stati cari. Forse li ho sempre trovati dei magnifici illusi, ma così magnifici che gli perdono tutto. Se li incontrassi sono sicuro che penserei male di loro – che deficienti, penserei, non incontrano i miei valori, sono invadenti e fastidiosi. Eppure mi sono sempre andati a genio. Il racconto della rissa alle Giubbe Rosse coi vociani è uno spasso. Fossi stato presente ne avrei pensato ogni male.

*

Torno a letture di un tempo, indugio su versi che conosco ma che ho dimenticato, vado indietro, la mia esplorazione di nuovi testi procede a fatica, veleggio su un mare melmoso, astringente, infecondo. Penso a un verso del secondo novecento – forse Sereni, se mi sento cantabile Caproni – scivola indietro nel tempo, il verso assume un aspetto vetusto, un po’ latino, fa la coda di rondine come un merlo che incorona una chiesa, assume materia pietrosa, diventa umido, imbraccia l’alabarda, la mazza, un blasone che porta uno spino. Perdo tempo in una landa feudale, dominata da un bieco vassallo, ricorro ad armature, ho a mente un ottonario di un qualche romanzo del ciclo arturiano, probabilmente lo ricordo sbagliato, lo brandisco e passo il ponte di spada per andare nel regno di Gorre senza sperare il ritorno. Poi mi addormento in un prato fiorito.

© Alessandro Reitano

Dai, seguiamo il consiglio di Nino: cambiamo aria, cambiamo bar. Lui sarà andato da Nuccio di sicuro. Ci vogliono cinque minuti a piedi: fai Canneto il Curto fino a Piazza Banchi e lì si aprono più scenari. Se ti senti poeta, tiri su per gli Orefici e ti infili in Vico dell’Amor Perfetto. Quando hai a destra chi beve e a sinistra chi fuma sei arrivato. Se invece vuoi una scena da bassifondi, imbocchi vico del Santo Sepolcro da San Luca: saluti gli spacciatori gentilissimi che ti fanno passare, sorridi con diniego alle ragazze che lavorano lungo il vicolo, e quando la via si apre ci sei. Vico Mele ormai è sdoganato. Ultimi e non ultimi gli Orti Bianchi, ma sono solo per gli iniziati.

Faccio vico Mele, non ho voglia di pensarci.

Appena raggiungo il bar mi guardo attorno: Nino non c’è, sicuro incrocerò qualcuno che conosco. Mi accodo alle persone per raggiungere il bancone e prendere da bere, per occuparmi e perdere tempo. C’è ressa. Alla mia destra la fila disordinata di quelli che escono. Diverse persone mi sbattono contro perché sono ubriache, ne favorisco l’uscita accompagnandoli con l’avambraccio. Tra loro mi raggiunge una tizia senza carne addosso, è uno scheletro. Mi indica con l’indice bianco e ossuto, ha un fare pensoso. Si ferma.

«Tu sei quello che ho incrociato nel bosco.»

«Se stavo cacciando sì, sono io.»

Apre le braccia ossute, all’aspetto respingente unisce un fare sfacciatamente amichevole.

«Come to my arms, my beamish boy!»

Ci abbracciamo, non mi aspettavo che fosse così felice di vedermi. Nell’abbracciarmi mi rovescia sulla spalla un po’ del suo amaro. Mi dice che mi aspetta fuori. Quando raggiungo il bancone prendo un prosecco. Mentre pago col POS, Carmelo mi dice «Simpatica la tua amica, sa farsi notare.» Gli rispondo: «Averci a che fare è complesso ma sì, è un bel tipo.» Aspetto la spunta verde e la raggiungo.

Poggiati al muro, senza guardarci, ci troviamo a fare i soliti commenti. Il nostro sport preferito è mettere le brache al mondo, fare terra bruciata di quelli che non ci piacciono – quasi tutti. Le racconto la faccenda della rissa da Paul, si fa una risata, dice che ognuno a suo modo è un pezzente, non rispondo, le è uscita un po’ dura, ma sono d’accordo.

«Ultimamente ti penso spesso», le dico.

«Ti ringrazio, ma non sono qui a raccogliere dichiarazioni», stizzita.

«Quanto ti fermi? Questa città è piena di vecchi.»

«Dai tempo al tempo, c’è stato il momento di seminare ma verrà anche quello di mietere» e batte la punta dell’indice su un falcetto che porta appeso al cinturone campagnolo.

«Occhio con quello, se incroci gli sbirri ti fermano sicuro.»

Lei scuote la testa con fare saggio.

«Sono millenni che lavoro: il metodo è collaudato e uso la massima discrezione.»

D’improvviso qualcuno urla, forte, dietro l’angolo. Sarà una rissa, dei ragazzini che fanno casino, magari tutta una messinscena tra maranza: per qualche ragazza, per qualche grammo di droga, perché si sono pestati per sbaglio le Nike. Davanti a noi passano spedite persone: stanno tossendo, li guardo in faccia e sembrano sofferenti. Qualcuno ha spruzzato dello spray al peperoncino. In questi vicoli madidi e stretti, la corrente d’aria impercettibile trascina la bomboletta vaporizzata lungo la via. La gente inizia a tossire. Sembra che ci stiamo passando la tosse l’un l’altro, un’ondata. Arriva anche a me. È una tosse profonda, brutta, che fa bruciare i polmoni. Mi giro verso la mia amica, le poggio la mano sulla spalla fredda, asciutta e dura, la saluto con un cenno e scappo via correndo giù per l’Amor Perfetto, è il primo vicolo che ho a tiro ma mi sento tutt’altro che poeta. C’è il fuggi fuggi. Le persone scappano in una direzione o nell’altra per uscire dalla nube invisibile che fa bruciare gli occhi. L’unica a rimanere è lei, nel suo candore osseo, intoccata dallo spray: sorseggia l’amaro e aspetta che si ritorni. Potremo tossire per cinque minuti, potremo farci una corsetta dell’isolato per smaltire l’effetto urticante, ma sicuro, prima o poi, torneremo a bere l’ennesima cosa.

Entra nel locale. Hanno chiuso le porte per non far entrare l’aria velenosa. Carmelo le versa un altro giro di amaro. Lei si siede su uno sgabello di fronte all’ingresso a sorseggiare; la cattura una foto appesa al muro. È il residuo di una mostra: due minuscoli barboncini, uno bianco e uno beige, cotonati come due batuffoli, sono stesi tra i cuscini di un letto, e sembrano abbracciarsi. Tra il bianco accecante della mandibola e quello del cranio, sembra accennare un sorriso più di pena che di amore, e pensa che, se gli umani non avessero la parola, sarebbero proprio come dei cani.

Editing di Livia Del Gaudio

Federico Ghillino. Nato nel 1992 a Genova, studia Lettere Moderne presso Unige e Cinema alla Scuola Holden. Lavora al progetto intermediale Parabola di Fera Infèri, costituito da una serie video uscita per Howphelia nel 2022 e da un romanzo in versi edito da Edizioni Prufrock spa nel 2025. Mentre continua il lavoro sulla parola poetica, si avvicina alla prosa con Cronica familiare di Miranda e Costante e di molti altri che nulla hanno potuto, romanzo attualmente in lavorazione, già selezionato da Oblique Studio per Scouting Night Live 2024. È parte di Palazzo Bronzo, artist-run space e collettivo che promuove cultura e arte contemporanea nel centro storico di Genova. Qui il suo sito-portfolio.

C’è uno schermo prima dell’obiettivo, qualcosa che il fotografo Alessandro Reitano frappone fra sé e la macchina il cui effetto si riscontra nel paesaggio: un’immagine filtrata, indiretta; una visione della distanza.

Si può fare tutto in fotografia. […] Io sono per un utilizzo dell’immagine non dico tradizionale, ma in linea con un certo modo di vedere. Molto sobria. Preferisco lavorare all’interno di una visione «normale», sapere che la macchina fotografica ha i suoi limiti, può dire quello che può dire, e ci sono cose che non può dire1.

Prendendo in prestito le parole di Luigi Ghirri, la fotografia di Reitano esplora i limiti di ciò che l’immagine non può dire. Oggetto dell’indagine sembra la visione, come se il fotografo indossasse degli occhiali perennemente appannati e lo facesse per scardinare gli schemi, i giudizi sbrigativi di chi non guarda mai niente. Il risultato sono scatti che frammentano il quotidiano, lo riducono a dettaglio anche lì dove l’immagine si fa ampia, fotografia di paesaggio. Musi di animali, una ciotola, un ragazzo che imita il passo dell’oca accanto alla statua di tre commilitoni; l’universo fotografico di Reitano è domestico, registra la realtà che gli sta attorno, nessuna tensione verso il Perfect moment di Mapplethorpe piuttosto un occhio sensibile allo stupore giocoso di Ghirri. Se il mondo della fotografia è quello della luna nel pozzo, lo specchio rovesciato raccontato nelle fiabe, Reitano si porta dietro un po’ di quel mondo: la capacità di meravigliarsi di fronte a ciò che è noto, la capacità di vedere cose altrimenti invisibili.

Livia Del Gaudio

Alessandro Reitano (1994) nasce a Trento e studia chimica a Bologna, dove incontra la fotografia. Si avvicina soprattutto all’analogico, riscoprendo un elemento dell’infanzia e ritrovando in esso un legame profondo con la chimica. Oggi la fotografia è per lui un mezzo espressivo e terapeutico, che gli permette di esplorare sé stesso e gli altri, entrando in relazione e in empatia con le scene che ritrae.

  1. Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro, Edizioni Quodlibet, Macerata, 2010 ↩︎

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