Mancare la vita: l’etica della beatitudine

di Adele Bilotta

© Francesco Sambati

Francesco sgranchisce le gambe, sta cambiando il tempo, lo avverte dal ginocchio che cigola più del solito. Il fianco sembra concentrare ogni muscolo del corpo: un’unica fascia muscolare che parte dal bacino, avvolge il busto, lo agguanta fino alla caviglia e all’orecchio destro. Tutto sembra fargli male e tutto è percezione del tempo che cambia.

Rina ha il grembiule sporco e le maniche pulite, come le hanno insegnato in pasticceria. Gira e rigira il suo lievitato; ci vuole forza, braccia dure che impastino e dita leggere che diano forma ai croissant.

Francesco beve il caffè avanzato dal giorno prima, con la grana dei chicchi che rimane sul fondo e s’incastra tra i denti; deve comprare una moka per una persona sola ma finge di dimenticarlo, beve un’intera macchinetta e prende le pillole per la tachicardia. Non ha lo specchio in bagno, si lava la faccia senza sapone, senza conoscere la direzione che hanno preso i baffi o i capelli completamente bianchi.

Rina infila nel forno tre teglie: settantatré cornetti a riposo, quattro torte pronte per essere farcite e le ultime dieci pagnotte di cinquantatré in uscita. Indossa i guanti da forno, tira fuori le teglie, l’odore dei lievitati è impresso nelle pareti, la vernice non lo lascia andare. Rina si occupa delle prime preparazioni, di ciò che si impasta tra le tre e le cinque del mattino, è da sola e decide tutto lei: le finestre restano chiuse, anche la porta che dà sul retro, poca luce e nessun rumore, il calore del vapore dei lievitati deve rimanere dentro. La nebbia in una stanza.

Francesco infila una maglia di flanella, un vecchio giaccone impermeabile e stivali alti fino al ginocchio. Esce di casa e rientra subito, con un maglione in più tra le mani esce di nuovo.

Rina appende il grembiule alla parete. I croissant che restano sono settanta, tre li infila nello zaino; apre le finestre solo perché stanno per arrivare i suoi colleghi, lei ha finito, la nebbia può uscire dalla cucina.

Francesco non chiude mai la porta di casa, lascia le chiavi nella toppa: le persone che non sono nate sull’isola si riconoscono subito, imparano velocemente certe abitudini.

Rina ha il costume da bagno sotto il cardigan e i jeans. Cucina con un vecchio costume intero da piscina nascosto dai vestiti; uscendo non ha incrociato nessuno, è sollevata. Fa più freddo del solito, per scaldarsi corre verso la spiaggia.

Francesco respira l’aria fredda, sente i capillari arrossire sul naso, il sale gli irrigidisce i capelli.

Rina lacrima per il vento che le arriva contro. Spogliarsi è la parte più dura, lo fa mentre corre verso il mare.

Francesco prende una sediola di plastica.

Rina lancia i pantaloni.

Francesco tira fuori un libro da una tasca del giaccone.

Rina è in acqua.

Lui la osserva tutte le mattine, arriva sempre un po’ dopo di lei, si mette comodo e la guarda: avrebbe l’età di sua figlia se ne avesse voluta una. Ha mancato la vita, ha attraversato il tempo sbagliando velocità, Francesco ha corso una maratona e ha scoperto a più di sessant’anni che non c’era una fine, nessun traguardo da tagliare. È dimagrito, si tocca la pancia sotto la maglia, è dimagrito? Rifiuta i riflessi, gli specchi; i capelli se li fa tagliare da Rina, è lei che decide quando è il momento di accorciarli. 

© Francesco Sambati

L’estetica personale è una forma dell’etica del sé. Se Barthes aveva ragione nel dire che viviamo una distanza costante tra ciò che vediamo e ciò che vorremmo vedere, allora l’estetica personale è l’intimo – e talvolta disperato – tentativo di colmare questa rottura: un vuoto, un frammento tra l’Io e l’Io. 

L’individuo costruisce la propria vita come un’opera d’arte, o perlomeno tenta di farlo. Nel dirlo, Foucault compie un’operazione di sdoppiamento: l’individuo diventa Soggetto che guarda e Oggetto che viene guardato. Questa separazione anima l’idea dell’estetica personale come forma etica, e scava più affondo quel fossato che allunga le distanze tra l’Io e l’Io definito da Barthes. Inoltre, il malcapitato Io-Oggetto non è soltanto osservato dall’inseparabile Io-Soggetto, che giudica e, come il più esperto dei burattinai, muove il suo doppio a favore dell’ideale “opera d’arte” da creare, ma diviene materia di narrazione dell’Altro. Adriana Cavarero1 apre la scena a un terzo personaggio: la gente, o meglio, il racconto che “la gente” fornisce dell’Io come individuo unico, inseparabile e tuttavia costretto entro una narrazione non propria. È in questo triangolo che nasce il continuo disallineamento tra realtà e aspettativa: come l’Euridice di Rilke, priva del desiderio di essere riportata tra i vivi ma piena di rabbia verso un uomo che, pensando di fare il suo bene, non si rivolge a lei chiedendo se la vita è ciò che vuole, l’Io-Oggetto possiede un’estetica personale plasmata tanto dalla propria narrazione quanto da quella altrui, da come lo vogliono e come vorrebbe essere. 

In cosa differiscono estetica e apparenza?

L’identità, osservata e costruita da più sguardi, è frammentata. È composta da atti ripetuti, gesti, posture. Se Butler2 avesse ragione, se l’apparenza non è la maschera del sé ma la sua messa in scena quotidiana, allora l’Individuo possiede un linguaggio, una grammatica del sé che svela quanto nasconde, che costruisce ma che può anche decostruire. 

«Il più sicuro indizio della mia mancanza di libertà è il mio timore di vivere3». 

Per Dagerman il timore di vivere è la paura di esporsi, di decostruire ciò che ha già preso forma; eppure ammette il bisogno, la dipendenza da quel timore per poter ricercare la consolazione del giorno in cui «il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza». Sognando il giorno della sua libertà, galleggiando nella consolazione, è consapevole e riconosce che la sua vita sembra avere come scopo quello di procurarsi pietre da attaccare al collo: «ciò che potrebbe darmi libertà mi dà schiavitù e pietre al posto del pane». 

L’estetica personale è una forma di etica del sé, e la potenza risiede nell’atto: non galleggiare nella propria consolazione, ma uscire dal triangolo formato con l’Io-Soggetto e la narrazione della gente. Non lasciandosi dominare né dalla propria narrazione né da quella altrui, si riacquista il controllo della relazione tra apparenza e realtà. Solo così è possibile riallineare realtà e aspettativa: non mancare alla vita, ma colmare lo spazio di cui parla Barthes, unendo nuovamente l’Io-Soggetto con l’Io-Oggetto.

© Francesco Sambati

La barba è stata più complessa: si è chiesto come un cieco potesse stare al mondo, come potesse vivere nell’estetica, nell’etica dell’estetica, allora ha passato un’intera settimana a capire come radersi usando solo tatto e udito.

Rina esce dall’acqua correndo per il freddo, Francesco la avvolge in un telo senza neanche darle il buongiorno, non sa bene come funzioni per lei il giorno e la notte, poi le passa quel maglione in più che si è portato. 

Lo sapeva che lei non l’avrebbe portato, lui lo sa sempre. 

La bellezza e la beatitudine si collocano fuori dal tempo, lo diceva Dagerman in un suo libro4; Francesco sa cos’è la bellezza, e lo sa perché ha vissuto più di quanto gli rimanga da vivere, gli piace credere nella saggezza di chi è consapevole di essere vicino alla fine. Rina è bella. Anzi, non è bella, Rina è segnata: la sua pelle racconta, ha piaghe che conservano solitudine, cicatrici, tagli di coltelli e bruciature da forno che trattengono la sua bellezza: anche lei sta mancando la vita.

Se davvero esiste un’autenticità e un’oggettività nella bellezza, allora starebbe nella traccia dell’esistenza, nella prova tangibile di ciò che si racconta.

«Cos’è la beatitudine?».

Rina non parla, sceglie: seleziona ogni parola che poi produce sottovoce, sussurrando. Francesco lo sa eppure le pone costantemente domande, non aspetta risposte.

«Parlo della beatitudine con la “b” minuscola, non quella di Dio», Francesco tira fuori dal suo libro un pezzo di carta strappato. È scritto a matita, legge: «Bellezza e beatitudine si collocano fuori dal tempo. Se l’essere umano attraversa il tempo per performare, allora manca la vita. Bisogna tendere allo sviluppo della perfezione perché la perfezione non performa, opera nella quiete». 

Sono spunti presi da Dagerman.

«Mi ha fatto pensare a Dante, ai suoi Angeli e ai Cieli: non c’è atto ma solo quiete nella perfezione raggiunta».

Rina conosce perfettamente il discorso; finisce di asciugarsi, si siede sulla sabbia, alza gli occhi al cielo, si solleva, leva la sabbia dalle gambe, si risiede, si rialza innervosita, si rimette a sedere.

«Ti senti beata?».

Rina si alza di nuovo, tira fuori dallo zaino una busta di carta ancora calda, i croissant, la lancia addosso a Francesco.

«Quindi è questa per te la beatitudine?», lui ride, la prende in giro. 

«I cornetti caldi alle sei del mattino? Lo ammetto: è una bella forma di beatitudine», ne prende uno alla crema dandogli un gran morso, sporcandosi completamente i baffi e il mento, con la farcia che gli cola dal volto al ginocchio, il piede e infine sulla sabbia, «Io così mi sento molto beato».

Per se stessa ha tenuto da parte un piccolo croissant alla marmellata di more, sono più buone le cose acide; sa che Francesco sta usando “beata” per dire “felice”. Parole diverse per gli stessi discorsi. 

Ma i sinonimi non esistono, e chi li usa mente sapendo di mentire.

© Francesco Sambati

Felice è uno stato di contentezza, uno stato quotidiano e non permanente; la beatitudine è piena e perfetta, spirituale, più profonda, è duratura quindi non può essere quotidiana. La beatitudine resiste ai cambiamenti, del mondo e del corpo, ed essendo fuori dal tempo non può essere che eterna.

Sant’Agostino segnala il ricordo di una poesia: prima di declamarla, esiste nella sua anticipazione; appena terminata esiste nella memoria: nel mezzo c’è solo un passaggio transitorio dalla declamazione alla memoria. Così, per il Santo, funzionava la vita intera: le scelte e le azioni hanno un intimo legame fra i diversi tempi del tempo, c’è una successione tra scelta-azione-reazione che non si addice alla beatitudine, è propria della nostalgia. 

“Felice” è uno stato di contentezza, labile e quotidiano, non permanente. La felicità si muove nel tempo seguendone il ritmo discontinuo e frammentato; tuttavia, per Dagerman, anch’essa, nel suo tracciato tutt’altro che lineare, è una forma di consolazione. L’individuo guarda il cielo, cammina sulla spiaggia e, all’improvviso, sente piovergli addosso la sfida dell’eternità contro la propria piccola esistenza: una sfida che ha sede nell’incessante movimento del mare o nell’inarrestabile fuga del vento. 

«Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché niente di umano può essere  perenne? E che consolazione miserabile». 

La felicità, proprio per la sua intrinseca caratteristica che le nega l’eternità, deresponsabilizza l’Individuo attraverso una sfida che non potrebbe vincere: lo consola.

La beatitudine, invece, ha un’altra natura. È piena, perfetta, immobile, spirituale: non solo resiste ai cambiamenti del mondo e del corpo, ma li trascende. È fuori dal tempo, per cui non può che essere eterna. Secondo Spinoza, «felici non si è, beati lo si è eternamente»; la beatitudine è una concessione mossa dalla conoscenza di Dio, un sapere che riconcilia l’Individuo con l’ordine del tutto. 

La grande avversativa di Dagerman, il suo grande “ma”, risiede nella consapevolezza che il mare e il vento sopravviveranno all’Individuo, e che l’eternità non si curerà degli esseri umani. 

«Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità?». 

La vita, come la felicità, è breve solo se la si colloca sul patibolo del calcolo del tempo: «ma chi mi chiede di fare questo conto?».

Eppure, secondo lo scrittore, tutto ciò che accade di importante, che conferisce alla vita il suo contenuto meraviglioso: l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, il brivido di fronte alla bellezza (nulla, dunque, che abbia a che fare con Dio o con le alte sfere) si svolge fuori dal tempo. Dagerman individua “contenuti meravigliosi” e, collocandoli fuori dal tempo, permette loro di rientrare nel concetto di beatitudine che «nega ogni relazione tra il tempo e la vita».

Sant’Agostino, nelle Confessioni, si esprime sul mistero del tempo attraverso l’immagine di una poesia recitata a memoria. Prima di declamarla, la poesia esiste nell’attesa, nell’anticipazione; appena terminata, scivola nella memoria. In mezzo c’è solo il passaggio transitorio dall’attesa alla memoria. Il tempo interiore dell’Individuo non è mai puro presente: è la coesistenza di tre tempi, e si dispiega attraverso l’intimo legame fra i diversi tempi del tempo.

Questa dinamica – scelta, azione, ricordo – è propria della nostalgia, non della beatitudine. La nostalgia vive del tempo e ne accetta la ferita; la beatitudine, invece, la oltrepassa. Nella beatitudine esiste un unico tempo: un istante immobile. È allora Simone Weil5 che trova la perfetta sintesi tra Dagerman e Sant’Agostino: la beatitudine è «l’accordo dell’anima con il mondo», un punto di perfetta adesione tra l’Individuo, la volontà e il reale, in cui il tempo si ritrae, lasciando – come ossi di seppia sulla riva – solo il “contenuto meraviglioso”.

© Francesco Sambati

Quello è il loro tempo, lo scarto di spazio per le persone che mancano la vita. 

E lui la vorrebbe beata, non felice, beata! 

Che sciocchezza, un’assurdità, anzi, è una cattiveria: lui pretende che lei si senta così. Ma nessuno ha il diritto di pretendere: arrogarsi il diritto di trasformare il corpo dell’altro in una prigionia dedita al servizio di determinate funzioni. Il mare non era calmo, anzi: lei si è tuffata sotto un’onda, si è buttata, è andata contro corrente, ha respirato acqua salata, nuotato nell’acqua gelida. Non ha preteso che il mare fosse qualcosa di diverso da come si presenta, da come si stava presentando a lei. In più non ne era in balia, respirava a pieni polmoni, spingeva via l’acqua dal corpo: non ha operato nella quiete. Francesco sbaglia. 

È questo che lui vuole: farla ragionare, magari persino arrabbiare, solo per tirarle fuori qualche parola.

Finisce la colazione e si avvicina a lui, gli tocca una delle tasche del giaccone.

«Vuoi farlo ora?». Lei annuisce.

Francesco si alza con difficoltà, si prepara, Rina non riesce a guardarlo: è lui che si lascia andare, è lui ad essere in balia, rimane nel suo stato di quiete pur non essendo beato. 

Si muove poco, mangia male, beve molto, non ci vede bene e rifiuta il medico, non cammina bene e rifiuta il medico, e poi il cuore. Francesco è generoso, come il suo cuore, che fa sempre un po’ di più rispetto a quello che dovrebbe fare: ogni mattina beve un’intera moka, da solo, Rina non è sicura che prenda le pillole per la tachicardia, per la pressione, per il colesterolo. 

Non riesce a guardarlo mentre galleggia inerme.

Secondo Dagerman la beatitudine si colloca fuori dal tempo, per Sartre invece, per il quale l’orrore e il disagio derivano dalla consapevolezza del peso della propria esistenza, la beatitudine è vicina a una condizione di presenza cosciente, la consapevolezza di essere nel mondo con il proprio peso, con la propria etica ed estetica. Rina non guarda Francesco, e quando lo guarda si preoccupa: lui dove si colloca? Su quale confine cammina? In quale tempo?

© Francesco Sambati

Il passato è un lusso da proprietari: la gente accende la luce e legge, guarda fuori dalla finestra, vive tra un armadio e un comò, cammina tra cose ereditate e mobili nuovi. Pentole, medaglie, candele, fermacarte, scialli, vestiti vecchi e nuovi, giornali, la gente conserva tutto e cammina tra i propri ricordi.

Il passato ha bisogno di una casa per essere conservato. Spesso di una casa grande, capace di contenere i mobili ereditati della nonna, i silenzi, i vecchi vinili e le presenze che non tornano più.

Un essere umano solo, invece, possiede soltanto il proprio corpo: non ci si può mettere il passato in tasca. È necessaria una casa per non essere attraversati dai ricordi, un luogo per lasciarli immutati. Perché le storie, a furia di narrarle, muoiono: si consumano, si deformano, le immagini si sostituiscono e nulla viene veramente conservato. Una casa conserva, un corpo viene attraversato.

Sartre6, in fondo, lo sapeva: l’individuo potrebbe allora tentare di costruire una casa interiore per difendersi dal flusso dell’esistenza, ma la coscienza è sempre in movimento, proiettata verso il mondo, e la casa non potrebbe essere stabile. Così il corpo stesso, che si apre e si espone, non è un rifugio, ma un passaggio: costantemente attraversato da una memoria che, ad ogni passo, muta come incantata da un maleficio. Quando le immagini cambiano, a chi appartengono? 

Il passato ha bisogno di una casa per non ritrovarsi un corpo abitato da fantasmi della memoria, fantasmi per i quali il tempo non passa ma ristagna.

Avere cura di qualcuno, allora, è forse costruire per l’Altro la casa che il Soggetto-Io non possiede: offrirgli un luogo di permanenza dentro l’Io, un riparo dalla precarietà. Essere narrati, custoditi nella voce di chi si ama, è la forma più profonda di appartenenza. Così, prendersi cura diventa un atto di ospitalità narrativa: permettere all’Altro di abitare la storia del Soggetto-Io senza che se ne appropri. Accettare il peso – fisico e morale – dell’Altro è un atto di cura e al tempo stesso di esposizione. Levinas7 scriveva che l’amore non chiede ritorno: amare è un atto di responsabilità verso qualcuno che non si possiede, è rispondere a un appello che non si può ignorare. E, nella risposta all’appello, si apre una casa che non trattiene ma accoglie e custodisce: qui la cura e la memoria si intrecciano. Offrire all’Altro un luogo dove il tempo possa fermarsi e il ricordo non mutare ma riposare significa, inevitabilmente, offrirlo anche a se stessi. 

Una casa custodisce, un corpo viene attraversato, ma chi ama costruisce. Così l’amore diventa un modo di abitare il tempo: non si cerca di conservare ciò che sfugge, ma di dare luogo alla sua traccia.

© Francesco Sambati

«Andiamo?», propone lui.

Francesco tira fuori dalla tasca del giaccone un pesce rosso, un vivopescerosso.

Rina gli offre la mano, lui la prende ma come gesto d’affetto, non d’appoggio, non riuscirebbe mai ad ammettere di doversi sorreggere ad altri.

«Mi sembra solo, più solo del solito», lo dice tirando su la bustina di plastica dei surgelati, la usa per portare a spasso Pesce, il suo animale domestico «tu come lo vedi?».

Rina alza le spalle, non vuole veramente rispondergli.

Entrambi senza scarpe e senza calzini si immergono in acqua; aperta la bustina di Pesce, l’afferrano e si piegano per immergerla a riva. 

«Vedi altri pesci? Ha qualcuno attorno?».

Nessun animale rimarrebbe a riva con quelle onde, e comunque nessun pesce si avvicinerebbe a loro, a una bustina di plastica in acqua, ma Francesco è convinto che quel gesto basti per rendere il suo fedele e silenzioso compagno più felice.

«Ti sembra meno triste?».

Rina scuote la testa, guarda lontano, verso il largo: è lì che vorrebbe portarlo, nuotare, nuotare e nuotare con quella bustina dei surgelati legata al polso. 

E magari, per sbaglio, perderla.

Per sbaglio, lasciarlo andare.

Francesco, deluso, tira via la bustina di Pesce dall’acqua: con estrema cura la richiude, un nodo ben stretto che lo riporti sano e salvo nel suo acquario di vetro.

«Riproveremo domani» dice, soppesando sul palmo della mano l’animaletto spaesato che maldestramente nuota in uno spazio ristretto e illusorio, «sì, domani si sentirà meno solo. Sarà meno triste».

Rina prende aria con la bocca aperta, una lunga apnea che rilascia in silenzio.

Domani sarà un altro giorno, un altro tempo: sarà meno triste.

Ediiting di Livia Del Gaudio

Adele Bilotta, classe ’99, nella vita recita, studia, disegna, legge, scrive, canta, suona e si arrabbia quando le persone dicono che bisogna scegliere una sola strada e una sola passione. Laureata prima in Arte drammatica e poi in Lettere, studia Linguistica alla Sapienza, delle volte è conosciuta come editor e delle altre come Adeliocompresso.

La scena si svolge sotto un’ampia loggia scandita da campate regolari: volte a crociera sorrette da sottili colonne, capitelli corinzi, un giardino che si apre rigoglioso sulla sinistra. Al centro, l’arcangelo Gabriele colto nel gesto di inginocchiarsi tiene le braccia incrociate sul petto, lo sguardo fermo e frontale; sulla destra la Vergine, speculare all’angelo nella posizione delle braccia, china il capo e non guarda nessuno, solo la bocca leggermente aperta denota stupore. Beato Angelico immagina così, a metà Quattrocento, il momento in cui a Maria viene offerto di diventare la madre di Dio.

La fotografia di Francesco Sambati conserva il ricordo di Beato Angelico: nella misura, nella distanza, nella luce. I colori sono quelli della luminosità diffusa del primo mattino quando alla notte si sostituisce un giorno senza contrasti. I soggetti, sfuggenti anche quando in primo piano, sono spesso colti di spalle, immortalati nell’atto di sparire. La lezione di Ghirri – assimilata nei toni pastello, nell’orizzontalità e nella spiaggia – è rielaborata da uno sguardo originale, la ricerca di un’armonia che rilegge il tema dell’isola in chiave allegorica e che rimanda, appunto, alla transizione tra Gotico cortese e primo Rinascimento. Nelle fotografie di Sambati il fuoco risiede nel continuo ritorno – da non confondere con il ripetersi dell’uguale –: la stessa tipologia di donna attraversa le immagini chiudendo, come un cerchio, la domanda che Beato Angelico ci impedisce di ascoltare.

Livia Del Gaudio

Francesco Sambati. Nasce a San Pietro Vernotico, il 12/02/1981. Dopo aver concluso gli studi artistici si avvicina alla fotografia, finché, dopo i primi due anni di pubblicazioni ed esposizioni, inizia ad affiancare alla produzione digitale l’attività su pellicola istantanea (Polaroid) che diventa la sua produzione principale fino a collaborare con Polaroid dal 2018, partecipando a diverse campagne promozionali. Le sue foto affrontano in particolar modo i temi dell’esplorazione del paesaggio, dell’assenza e dell’inconscio, cercando di farli convergere insieme  in un comune punto d’incontro. Vive e lavora a Lecce.

  1. Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997. ↩︎
  2. Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. di Sergia Adamo, Roma-Bari, Laterza, 2013. ↩︎
  3. Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione è impossibile da saziare, trad. it. Fulvio Ferrari, Milano, Iperborea, 1991. ↩︎
  4. Idem. ↩︎
  5. Simone Weil, Attesa di Dio, trad. it. Giancarlo Gaeta, Milano, Adelphi, 1984. ↩︎
  6. Jean-Paul Sartre, La Nausée, Gallimard, Paris, 1938. ↩︎
  7. Emmanuel Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Martinus Nijhoff, La Haye, 1961. ↩︎

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