

Helba Huara.
«La bolletta del telefono non è stata pagata, Helba (Helba Huara, ballerina peruviana ricoperta di piume; zigomi piatti e pelle color del caffè) ha bisogno di uno specchio nuovo per i suoi balli. Inutile chiedere a Henry, che sostiene di poter vivere di niente o di essere addirittura capace di trovarsi un lavoro. Tutti intorno a lei sono “irresponsabili, incuranti del naufragio”.»
Ballerina a nove anni per soldi, madre a quattordici, modella e stella di Broadway a trenta, Helba Huara (Cuzco, Perù, 1900 – Parigi, 1986) entra a far parte dell’entourage di Anaïs Nin grazie al marito Gonzalo More. Le due si incontrano per la prima volta a una festa, a Parigi, nel 1936. Come spesso avviene nella biografia di Nin non si tratta di un rapporto semplice.
A quel tempo la carriera di Helba come ballerina è ormai conclusa; quasi del tutto sorda, vive sottoterra, in uno scantinato popolato da uno scheletro trafugato chissà dove e innumerevoli bottiglie vuote, in compagnia di un uomo alcolizzato e un gruppo di rivoluzionari spagnoli. Nei suoi diari, Anaïs Nin la chiama “Zara”: la donna serpente, la donna piuma, nevrotica e insoddisfatta zavorra del cuore di Gonzalo, con il quale la scrittrice intrattiene una relazione. Per facilitare i loro incontri, ha affittato per i due coniugi una casa galleggiante sulla Senna: come spesso è accaduto anche con Henry Miller, Nin paga i suoi vizi nascondendoli dietro un’improbabile generosità.
Perpetua la sua dipendenza nutrendo una corte di clientes che venera e detesta allo stesso tempo, dalla quale è ricambiata con precisa simmetria.
Nel 1940 entrambe sono a New York. La Grande Mela in cui, trascinato dalla guerra e da Duchamp, si è trasferito il gota del Surrealismo europeo. Con i soldi di Anaïs, Gonzalo apre una casa editrice, Helba una scuola di danza: poi i soldi finiscono, ogni impresa fallisce.
Sono del 1924 le foto più famose di Helba. Scattate dai fratelli Vargas, Carlos e Miguel la ritraggono mentre danza; la testa piegata all’indietro, i gesti potenti di una sciamana. Sotto di lei un kilim senza peso sul quale atterrano piume sostenute da spilli. Alle sue spalle nulla, solo buio. Un corpo arrestato, senza caduta.
Hell’s Angels.
«Si raggruppano in circoli, sette esclusive e coese che ricordano le brigate nelle quali li ha costretti la guerra e dove, nella distanza, nella paura e nella morte, hanno finito per trovare sicurezza e desiderio. Tra loro, in molti condividono la passione per le moto; attorno a esse nascono, a partire dagli anni Cinquanta, quelle che saranno le prime bande da cui fiorirà la cultura Leather, dal nome della loro “divisa”, quella seconda pelle con la quale si rivestono che li espone celandoli, forma che muta in sostanza, espressione di alterità, superficie di ogni superficie.»
Il 17 marzo 1948, a San Bernardino in California, i POBOB (Pissed-Off Bastards Of Bloomington) cambiano nome in Hell’s Angels. La scelta è dovuta a un film del 1927 con Ben Lyon e Jean Harlow: Gli angeli dell’inferno. La pellicola narra la storia di un gruppo di aviatori della prima guerra mondiale; durante la seconda guerra mondiale era, infatti, divenuta pratica comune tra gli stormi dei bombardieri dell’esercito statunitense rinominare i propri aerei e i propri equipaggi con nomi di fantasia, che sottolineassero il carattere impavido dei militari; usanza che la banda di motociclisti, anch’essi reduci, non a caso riprende. Se dobbiamo credere che il destino è scritto già dalla nascita, in quello dei Leathers c’è il cinema.
Resi famosi da Easy Rider (Dennis Hopper, U.S.A., 1969) irrompono nella scena americana negli anni Sessanta. Barbuti, alcolizzati, nemici del sistema: ben prima di Woodstock e della Summer of love, sono loro a sconvolgere le comunità cristiane e conservatrici del sud della California. In sella ai loro chopper, sono i nuovi cavalieri del West, principi incontrastati della libertà a qualunque costo; incontrarli significa abbandonare ogni difesa, perdere tutto: lo svelarsi improvviso di ogni vuoto inganno borghese.
Ombra della banda è infatti la setta; così come alcol e anfetamine altro non sono che i mezzi attraverso i quali l’oracolo incontra il divino. Più si sforzano di farsi impenetrabili, più l’antidogmatismo diventa fede; e dentro la fede ecco irrompere il rito:
«Quando escono in gruppo, ubriachi o sobri che siano, partono come una squadriglia di caccia al decollo: uno alla volta, in rapida successione e con un rumore assordante. L’idea di base è che alle partenze individuali prevengano le collisioni, ma gli Angels hanno ormai sviluppato questo rituale al livello di una rappresentazione drammatica. Non è importante l’ordine di partenza, ma lo stile e il ritmo sì. Avviano il motore con attenzione perché le moto partano al primo colpo. Se a un fuorilegge la moto non si accende come una saetta gli resta come uno stigma incancellabile. Come un’arma che si inceppa in combattimento o un attore che si incarta a una battuta cruciale…» (Hunter S. Thompson, Hell’s Angels: The Strange and Terrible Saga of the Outlaw Motorcycle Gangs, Random House, 1967).
Georges Bataille
«Sono gli anni Cinquanta, quelli in cui, per lo meno all’interno di una ristretta cerchia di intellettuali, l’erotismo e il desiderio sessuale iniziano a essere indagati, anche grazie alla spinta fornita dagli studi di Freud e dalla terapia analitica in generale (alla quale spesso questi saggi tornano, ma con fastidio, con l’orticaria tipica del poeta che fatica a rientrare nelle categorie diagnostiche del medico). Testi, come quello di Bataille, vedono la luce non tanto con l’intento di fornire risposte, quanto di ampliare lo sguardo su una realtà complessa e su un’umanità che fa sempre più fatica a nascondersi dietro lo spettro del visibile.»
Georges Bataille (Billom, 1897 – Parigi, 1962) è una figura difficile da cogliere. Molteplici i suoi interessi, i suoi campi d’azione, come frammentari e disarmonici i suoi scritti.
Prete mancato nella vita, si fa sacerdote del “non sapere”: la religione dell’incessante ricerca senza scopo, della resa incondizionata a un desiderio che trova dentro di sè la sua autorità, affermandosi e riaffermandosi attraverso la trasgressione al limite.
L’esperienza, concepita da Bataille non più come mezzo ma come fine ultimo dell’esistenza, diventa quindi “un viaggio ai confini del possibile dell’uomo” che si realizza solo con il riso, il rito, la festa e un erotismo non diluito ma lanciato al di là dei confini, lì dove il cerchio si chiude e si riunisce al sacro.
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