Lettere al maestro. Una speculazione attorno a tre minute di Emily Dickinson che hanno dato vita a un Mistery Case mai risolto, che qui risolviamo. Ipertesto

© Francesco Levi.

Emily Dickinson 

«Sarei forse più sola / senza la mia solitudine».

Una solitudine scelta a discapito della possibilità di reali viaggi: dopo una prima formazione ricevuta nel centro educativo fondato da sua padre, entra in un seminario per la formazione di giovani missionari. Si diploma ma sceglie di tornare alla casa paterna, dove resterà per il resto della sua vita.

Lo spazio domestico è la cassa di risonanza dell’interiorità di Dickinson, i cui confini coincidono con il giardino dove Emily passa il tempo a osservare quella natura cuore della sua poetica; una natura portatrice di verità universali, come la finitezza umana di fronte a essa: «La nostra saggezza è impotente – Di fronte alla sua semplicità». Una semplicità  che si riflette nello stile dei suoi brevi componimenti scevri da regole accademiche: quasi sprovvisti di punteggiatura, maiuscole usate per enfatizzare e trattini per spezzare le frasi, a accompagnare il ritmo del respiro. Le immagini naturali sono accostate nella loro concretezza a concetti astratti, legati da una relazione ermetica ma chiarificatrice dei profondi richiami che sussistono in ciò che ci circonda.

Dickinson, negli ultimi 15 anni della sua vita,  non uscirà più dalla sua stanza: la casa è uno spazio  non necessario, quando le vere distanze sono percorribili dal vascello veloce della parola poetica. La letteratura si fa l’unica esperienza esistenziale che Dickinson sceglie di esperire.

Reverendo Wadsworth

Il primo incontro tra Emily e il reverendo Charles Wadsworth avvenne nel 1855, quando la famiglia Dickinson partì da Amherst per visitare Philadelphia. Fu allora, presumibilmente, che Emily assistette alle predicazioni del reverendo, un oratore dalla forza straordinaria.

Nel 1863, George Burrowes, pubblicò le sue impressioni riguardo a Wadsworth, spiegandone la popolarità. Lo descrisse come un uomo pratico: non retorico, né enfatico, e con una schiettezza capace di penetrare il cuore degli astanti.  Nonostante  i sermoni capaci di indurre al pianto l’assemblea, Wadsworth si mostrava  afflitto da un perenne senso di fallimento. “Un’umiltà così sincera, unita a tanta grandezza”, non poteva che conferire al reverendo un infallibile carisma.

Emily e Charles si incontrarono solo altre due volte (nel 1860 e nel 1880), ma la loro relazione proseguì nel corso degli anni grazie a una ricca corrispondenza di cui è sopravvissuta una sola lettera (da Wadsworth a Dickinson). 

L’impatto che Charles ebbe su Emily è lampante: nei suoi scritti lo nomina affettuosamente come my Philadelphia” “my Clergyman” “my dearest earthly friend” e “my Shepherd from ‘Little Girl’hood

Tra la fine degli anni 1850 e l’inizio degli anni 1860,  Dickinson sperimentò un’esplosione creativa: scrisse 52 poesie nel solo anno 1858,  molte delle quali affrontano il tema della passione, talvolta la disperazione. Wadsworth si trasferì a San Francisco nel 1862 e si ritiene che Dickinson abbia indossato abiti bianchi solo a partire dal 1861. E se il reverendo avesse anticipato a Emily i suoi piani?

Wadsworth morì nel 1882 e Dickinson, nella sua corrispondenza, continuò a esprimere stima e affetto verso l’amico. In una lettera a Elizabeth Holland, scrisse: All other Surprise is at last monotonous, but the Death of the Loved is all moments – now – Love has but one Date – ‘The first of April’ / ‘Yesterday, Today and Forever.

Tutti gli scritti di Wadsworth e di Dickinson rivelano un rapporto di confidenza e di confronto spirituale, ma in esso è percepibile una profondità ulteriore, una forte intensità, un mistero che è giusto rimanga insondato.


Susan Gilbert Dickinson


A Susan Gilbert, 11 giugno 1852
«In questo pomeriggio di giugno, Susie, ho un solo pensiero, e quel pensiero riguarda te, e una sola preghiera: cara Susie, anche quella riguarda te. Che tu e io, mano nella mano, come facciamo dentro di noi, possiamo vagabondare lontano, nei boschi e nei campi, come fanno i bambini, possiamo dimenticare tutti questi anni, dimenticare affanni, e tutte e due ridiventare bambine – ci riuscirei, se fosse così, Susie, e quando mi guardo intorno e mi ritrovo sola, di nuovo sospiro per te; sospiri brevi, sospiri inutili, che non ti riporteranno a casa».

Dickinson conosce la cognata Susan Gilbert alla soglia dei vent’anni, incontro cruciale che diede origine a una delle relazioni più intense della sua vita. Gilbert fu amica, madre e anima affine con la quale Dickinson condivide la propria produzione letteraria: le invia tutti i suoi versi, chiedendole opinioni e revisioni, e arriva a definire Susan sua mentore alla stregua di Shakespeare.
La metafora letteraria, infatti, fu quella privilegiata da Dickinson per descrivere il suo rapporto con Gilbert: paragonò il suo amore a quello di Dante per Beatrice, di Swift per Stella, e di Mirabeau per Sophie de Ruffey.

Quando alla morte di Dickinson fu prodotto il primo volumetto di poesie con i testi ritrovati nella camera della poetessa, Susan si mostrò estremamente critica verso la forma data alla pubblicazione. Immaginava per Emily un libro che andava aldilà dell’aspetto canonico della raccolta di poesie: un volume ricco, oltre che di liriche, di disegni della stessa Dickinson, di battute – Susan considerava Emily estremamente ironica -, dove sarebbero state abolite le categorie convenzionali di “Vita”, “Amore”, “Tempo” e “Natura” in cui le poesie erano state divise nella raccolta pubblicata, ma avrebbe enfatizzato il legame tra poesia e esperienza quotidiana, l’abilità intellettuale di Emily, e i suoi interrogativi filosofici e spirituali, corporei e emotivi.

Paradossalmente, però, Susan rallentò l’ascesa editoriale di Dickinson: dopo la sua morte, la nipote Martha scoprì trecento poesie inedite, delle quali 276 dedicate a Susan, che Emily aveva dato in custodia all’amica quando era ancora in vita e che Gilbert scelse di tenere strette a sé. 

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