Testo e fotografie di Livia Del Gaudio | Illustrazioni di Francesco Levi

L’uomo e la donna attendono sulla spiaggia. Non si toccano. Il cielo è bianco incandescente ma il mare è scuro e l’orizzonte è interrotto da nuvole di schiuma e vapore che dall’acqua risalgono verso l’alto. Qualcosa è stato. O meglio, qualcosa è stato sul punto di essere. È questa consapevolezza che curva le spalle dell’uomo e della donna in attesa sulla spiaggia.



Storia di uomo e una donna che diventano un cane un bombardamento un baratro alla fine del mondo. Sono una tempesta che non arriva mai. Baciamoci e fine del film. Andando per esclusione potrei amarti. Non te ne andare quando me ne vado. Se ci amassimo così io e te in un campo manderemmo il mondo a fare in culo noi due compresi. Portami dove c’è la vita disegnare non serve a niente. Queste alcune delle frasi che accompagnano le illustrazioni di Francesco Levi: scritte in stampatello, inchiostro nero; una monocromia che torna anche nella (non) scelta del colore, come se le esperienze vissute passassero attraverso uno sguardo altro – quello di un animale, di un sasso, del mare.
Prima che si chiariscano i lineamenti, prima che i corpi – adesso ridotti a sagome – prendano forma e un gesto rompa l’attesa, ecco apparire la casa. È una casa ridotta a frammenti. Una sedia, una tovaglia, un cassetto di fòrmica. La risacca la trascina a riva: un’onda dopo l’altra, senza sforzo.
Non arrivano soluzioni dall’acqua, ma un movimento. E il movimento concede all’uomo e alla donna in attesa sulla spiaggia di continuare ad attendere. Davanti a loro una stanza: dentro la stanza si acciambella un cane. Si gratta un orecchio, sistema la coda sotto le zampe e infine chiude gli occhi. Nero sul pavimento nero. È diventato invisibile.

La casa non ricorda nulla di ciò che è accaduto. Gli oggetti si ricompongono non per tornare a quello che sono stati, ma per continuare a essere. La casa è il tempo prima del tempo. È ciò che rimane, quando si è perso tutto.




Il laboratorio a Gussago, in provincia di Brescia, dove Francesco Levi lavora da quando ha lasciato Milano: quadri, incisioni, minuscole architetture su carta che si aprono come fiori. Fa tutto qui: da una parte la cucina, dall’altra il torchio. Il suo è un tratto veloce, frutto di una sintesi sedimentata; dalle prime opere – densissime su fondo nero – la figure si sono fatte essenziali ritirandosi nel bianco.
La crosta bianca dell’intonaco e la trasparenza del vetro: queste sono le pareti. Sulle pareti, i quadri; dentro i quadri un riflesso: quello dell’uomo. Ma l’uomo non è qui; qui ci sono solo le cose. I barattoli di pelati con dentro i pennelli; i libri; una scala. Il mare li ha conservati intatti. Sul soffitto gonfia una vela. La lastra del torchio la ancora al fondo.



Nel silenzio, il rosso. La donna è inghiottita, forse morta: ecco il coltello. Una carta sottile, insanguinata come tempera conduce all’inchiostro; la bottiglia di trementina completa la scena. Il colore sgocciola sul tavolo ma non è una ferita: è un passaggio. Una scia di briciole che porta a un desiderio senza coscienza, a qualcosa che è predestinazione prima che amore. Il cane apre gli occhi, annusa la luce. L’uomo si ferma sul limite del suo respiro, gli allunga un biscotto.



Ogni superficie è possibile supporto. Taccuini, lastre di plexiglass, tessuti; tutto è contaminato dal segno anche, e soprattutto, quando si sovrappone ad altri segni. Così scatole di cartone che portano impressi i marchi dei loro viaggi (timbri, codici a barre) si trasformano in un circo, o nel fumo di una fabbrica. Dei suoi studi in disegno industriale rimane l’attitudine al prototipo; anche quando produce in serie – borse, stampe, decorazioni su porcellana – Francesco Levi lo fa con lo sguardo dell'artigiano.
Rimasti soli sulla spiaggia l’uomo e il cane si mettono a scavare; l’uomo con la pala, il cane con il muso. Scavano un pozzo: è per la donna, è per la casa che lei contiene. Nascosto dietro le nuvole il sole è in negativo, fa da sfondo a un gruppo di gabbiani che assomigliano a corvi. La tempesta viaggia dentro la terra, risvegliata dal lavoro dell’uomo e del cane, dal loro scavare. È un borbottare di sassi e saliva, una eco vibrante che si appoggia alle cose, le nasconde, le rende più grandi.
Da ultimo, arriva il mare.


Quello che Francesco Levi cerca è l’impermanenza. Nelle sue immagini il tempo non si trasforma in una storia ma è costante ripetizione, risveglio che non ricorda nulla di ciò che è accaduto prima del sonno o durante il sogno. Nel contatto con l’onirico tornano le opere classiche – Il funerale a Ornans di Gustave Coubert, Colazione sull’erba di Édouard Manet –: sono quelli che lui chiama «quadri belli ridisegnati male». Le parole, sempre in stretto legame con il disegno, sono infatti il modo che ha trovato per accedere all’ironia; un’ironia che gli consente di relativizzare ogni cosa – anche l’amore, tema che si ripete nelle sue opere.



Le incisioni a punta secca su plexiglass con un cui Francesco Levi realizza le sue stampe artigianali esemplificano l’essenza del suo lavoro: destinate a svanire velocemente, anticipano la direzione che potranno prendere le sue opere. Sono il modo che ha trovato per non permettere alla vita di lasciare traccia.