di Giulia Sara Miori

© Enri, Lulù Withheld
Lo dico subito: la scrittura per me è un ripiego. Scrivo malvolentieri, e solo perché non mi costa nessuna fatica. Se mi piaccia o no, non saprei dirlo e tutto sommato ha poca importanza. Nella vita, avrei voluto fare tutt’altro, e per la precisione, la cantante lirica. Non è andata come avrei voluto, questo è ovvio, altrimenti ora sarei in giro per il mondo a cantare nei più grandi teatri. O anche nei teatri di provincia, per carità. Mi sarei accontentata. Purtroppo, nessuno mi ha mai detto: «Che bella voce, dovresti fare la cantante». Mi dicevano: «Come scrivi bene». Ma come ho già detto, a me di saper scrivere non importava un bel niente. Io volevo cantare.
A cinque anni, giocavo alla Tosca coi foulard di mia madre. Prendevo il mazzo di mestoli in cucina e li deponevo sulla mensola in corridoio. I mestoli erano le rose per la Vergine. La mensola era l’altare. Poi, è stato il turno della Traviata. Non capivo in che cosa consistesse esattamente il lavoro di Violetta, ma mi rendevo conto che non andasse affatto bene. Del resto, non bisogna capire tutto. I nonni, divertiti dalla mia passione per l’opera, mi avevano comprato una serie di audiocassette che mettevo nel registratore in salotto. Seduta su una sedia scomodissima, me ne stavo lì per tutto il pomeriggio: ascoltavo, leggevo il libretto, ricominciavo da capo finché non avevo imparato tutto a memoria, musica e parole. A nove anni ho insistito così tanto che mia madre mi ha portata all’Arena di Verona. C’erano Domingo e Caballé, due cantanti divenuti leggende. Mia madre, che di canto non capiva granché, elogiava le capacità atletiche di Cecilia Gasdia, meteora dal dubbio talento. Io preferivo Caballé, grassa e sgraziata, e poi la storia mi ha dato ragione. A un certo punto, sempre alle elementari, mia madre mi ha iscritto a pianoforte. Alle medie, poi, ho proseguito col conservatorio, sempre nella classe di pianoforte. Per il canto era troppo presto: si inizia a quattordici anni come minimo; prima, si rischiano danni permanenti alle corde vocali in via di sviluppo. Il coro per voci bianche, quello andava bene. Ho provato, ma mi annoiavo. Volevo primeggiare, essere la più brava. Col tempo, ho cominciato a odiare anche il pianoforte: non avevo la pazienza per studiare, per provare e riprovare tutti i passaggi tecnicamente complicati. Se avessi potuto cantare, allora sì. Sarei diventata la nuova Callas, ne ero sicura. Collezionavo cassette e cd: non solo Callas, ma anche Del Monaco, Corelli, Domingo, Sutherland, Olivero, Di Stefano, Kabaivanska. Tutti i più grandi, insomma. Quando mia madre mi asciugava i capelli, cantavo intere romanze coperta dal rumore dell’asciugacapelli. Mi sembrava che la mia voce le urtasse i nervi, e comunque non aveva mai assecondato la mia fissazione per il canto.
Più tardi, quando mi sono iscritta al liceo, le cassette delle opere sono state sepolte dalle versioni di greco e di latino. Avevo altro a cui pensare. I ragazzi non mi consideravano neanche. Le mie amiche avevano già le mestruazioni da un bel po’. Parlavano dei loro appuntamenti, dei baci che avevano dato sotto i portici, di come aggirare i divieti dei genitori. Ascoltavamo i Radiohead, compravamo pacchetti di Marlboro light da dieci, li nascondevamo nei cassetti, sotto pile di libri e quaderni. Quando i ragazzi hanno cominciato a interessarsi a me, l’opera non l’ascoltavo più da un pezzo. L’avevo derubricata a passioncella infantile, una passioncella per sfigati. Avevo mollato il pianoforte, il conservatorio, tutto.
Finché, dopo il liceo, non mi sono trasferita a Milano con la mia famiglia. In casa giravano un po’ di soldi in più, ho iniziato a frequentare il Loggione della Scala. Non dovevo più dimostrare di essere uguale agli altri, di ascoltare la stessa musica, di essere cool. Non è passato molto tempo prima che l’opera mi risucchiasse di nuovo nel suo vortice distruttivo.

© Carlos, Lulù Withheld
Il Teatro alla Scala ha un’acustica pessima. Si sa che è così, lo sanno tutti – tutti i cantanti, s’intende. Però c’è un’area del palcoscenico dove la voce risuona alla perfezione. È il famoso “punto Callas”: un punto da cui la voce della Divina era in grado di raggiungere ogni angolo del teatro. Si dice che il suo fantasma lo infesti ancora. Si dicono tante cose, non tutte vere. Negli anni in cui ho vissuto a Milano, di cantanti ne ho ascoltati parecchi: alcuni sono diventati famosi; altri sono spariti; altri ancora, a forza di accettare ruoli non idonei, si sono sfasciati la voce. Poi ci sono quelli che hanno rinunciato perché non riuscivano a reggere lo stress della performance, il giudizio dei loggionisti. Il teatro è un ambiente di lavoro tossico, la Scala è il desiderio proibito di tutti, ma può diventare un incubo se non si ha la personalità adatta. Ci sono star della lirica che hanno smesso di esibirsi alla Scala per via del comportamento ostile dei melomani, che poi altro non sono che cantanti falliti. Non tutti, certo, ma quasi. Anch’io faccio parte dei cantanti falliti che andavano a teatro a fischiare quelli che ce l’avevano fatta. Anch’io mi sedevo lì, e come un cecchino prendevo bene la mira. Volevo che crepassero tutti, che durante l’opera si aprisse una voragine sotto i piedi dei cantanti. Forse non me ne rendevo neanche conto. A nessuno piace ammettere di aver fallito, e io non faccio eccezione. Ero invidiosa e frustrata. Cattiva. Li odiavo tutti, pensavo di avere il diritto di massacrarli. Mi dicevo: in fondo ho pagato il biglietto, mi aspetto una recita perfetta, una performance di alto livello. Quando venivo a sapere che l’opera era stata cancellata per via di un’indisposizione del soprano, pensavo subito male: quella lì è senza voce, è finita, ha i noduli alle corde vocali, è meglio che si ritiri. Dentro di me, ero contenta. I tedeschi hanno un nome per questo: Schadenfreude, godere per le disgrazie altrui. Non avevo mai cantato un’opera dall’inizio alla fine, non mi ero mai ritrovata da sola su un palcoscenico importante, non conoscevo l’esaltazione degli applausi né l’umiliazione dei fischi. Mi limitavo a sedermi sulla mia poltroncina rossa di velluto nell’attesa dell’errore fatale, della stecca, dell’acuto spezzato.
Nessuno frequenta il Loggione sperando che la serata si concluda in un successo. Quelli che hanno voglia di rilassarsi, frequentano i palchetti o la platea. Il Loggione è per quelli che non sono mai riusciti a cantare. È un luogo violento, dove si sfogano istinti bestiali. È fisicamente stancante. Bisogna stare in piedi per ore, allungare il collo per riuscire a vedere qualcosa. Un biglietto costa quindici euro, ma bisogna fare quattro o cinque ore di coda al freddo per riuscire a ottenerlo. Cinque ore di coda non le fai, se sei sano di mente. Comunque, non vedere bene non è un problema: l’importante è sentire, e se un cantante ha una buona tecnica, la sua voce dovrebbe raggiungere tranquillamente il Loggione. Se ha una cattiva tecnica, si sente poco o nulla. Non esistono i microfoni, a teatro. Non è possibile bluffare. O si canta come si deve, o si viene contestati. E se si canta male, il silenzio dei melomani diventa un’onda sotterranea di aggressività. Quando una recita sta andando male, in loggione tira un’aria di sfida. Nel pubblico serpeggia l’insoddisfazione, qualcuno sbuffa, qualcun altro bisbiglia. Si aspetta l’aria decisiva, quella dove il cantante è pronto a darsi in pasto completamente. Si aspetta che sia da solo per attaccarlo. Si ascolta la romanza in silenzio assoluto, a caccia della più piccola imperfezione. Si spera la catastrofe o nel miracolo. Alla fine, il cantante è esausto, ha la fronte imperlata di sudore. Rimane immobile, in attesa del giudizio. Confida nell’applauso, nella richiesta del bis.
A una giovane Renata Scotto gridarono «teiera» per via degli acuti sgraziati. Ma lei era brava e rigorosa: tacque e incassò. Nel 2006 Roberto Alagna, fuoriclasse assoluto, ebbe la malaugurata idea di presentarsi nei panni Radamès, un peccato di hybris che il Loggione non gli ha perdonato. Piovvero fischi, lui si offese a morte e se ne andò. Non è mai più tornato. La salute mentale prima di tutto. Ma se ci tieni alla salute mentale non fai il cantante solista. I cantanti non sono umani, non possono esserlo. Sono divinità, e come tali si pretende che si comportino. Non possono avere paura del pubblico, stare male fisicamente o psicologicamente, dimostrarsi fragili, insicuri. Questo non è ammesso. Chi non ce la fa, si accontenta della carriera da corista, ma quelli davvero bravi tentano la carriera solista. Quasi mai va bene. Si entra in un meccanismo perverso da cui è difficile uscire. Un bel giorno ci si rende conto che ormai si è troppo vecchi per fare carriera, o che semplicemente non si ha abbastanza talento. È successo anche a me.
Intorno ai venticinque anni mi è tornata l’ossessione della lirica. A forza di frequentare il Loggione, mi sono detta: in fondo non ho mai provato a cantare per davvero. Se mi fossi chiesta perché non avessi mai provato, avrei trovato facilmente la risposta: non avevo la voce, ovvero la materia prima. Ero intonata, avevo un’ottima musicalità. Ma la voce non era adatta. Per cantare, non è fondamentale avere una bella voce. Così mi hanno detto i primi maestri privati, che ovviamente avevano tutto l’interesse a lucrare sulla mia fissazione. Callas aveva una voce strana, a tratti sgradevole. La chiamavano The big vociaccia, la grande vociaccia. Aveva un timbro sporco, disomogeneo, a tratti aspro. L’importante è studiare, essere determinati, avere pazienza. Si può compensare con la volontà, laddove altri molto più dotati falliscono per mancanza di determinazione. «Se vuoi, puoi» mi hanno detto. E io volevo.
Prima di tutto, mi mancava la naturalezza del gesto, la spontaneità. Cantare mi costava un’immensa fatica, la voce non sgorgava con semplicità, “non girava”, come si dice in gergo. Mi impegnavo tantissimo, forse più degli altri. Restavo a lezione fino a tardi. Ascoltavo tutti gli altri allievi: soprani, mezzosoprani, tenori, baritoni, bassi. Cercavo di capire quello che facevano. Ma non bastava.
Che cosa vuol dire avere talento? Innanzitutto, apprendere velocemente. E così: vocalizzi, scale, arpeggi, trilli, cadenze, studio del passaggio, fiato, posizione delle vocali. Tutto questo, e cioè la tecnica, s’impara per imitazione. L’organo vocale, che è un vero e proprio strumento, non si vede, perché sta dentro al corpo. Quindi bisogna che l’allievo segua l’esempio dell’insegnante e che lo imiti. Le prime romanze arrivano dopo molto tempo in cui ci si esercita solo coi vocalizzi e con le arie antiche, a volte anche più di un anno. È normale che non riesca ancora a cantare le romanze, mi dicevo dopo più di due anni. È ancora presto. Peccato che altri allievi riuscissero a cantarle senza aver mai preso lezioni. Alla buona, certo; senza tecnica, ma con facilità. Io, invece, facevo fatica a respirare come si deve, a far girare i suoni, a sistemare il passaggio. La mia emissione era faticosa, a volte stimbrata. I suoni non erano rotondi, ma stridenti e diseguali. «Pensa gli acuti in basso» mi dicevano, «e i gravi in alto». Ma per me era come se parlassero un’altra lingua.
Di solito, capire se si ha talento è piuttosto semplice: oltre alla facilità dell’apprendimento, accade che le persone, esperte o no, si complimentino. Questa è una verità difficile da digerire non solo per il cantante, ma in generale per l’artista. Si pensa che il plauso degli altri non conti nulla, che la cosa più importante sia crederci. Non è così. O meglio: ci si può ingannare, si può far finta di accontentarsi, ci si può convincere di essere bravissimi; ma se poi non arrivano i risultati, se poi si viene scartati ai concorsi, se poi nessuno rimane colpito dalla nostra arte, quale che sia, allora perseverare diventa diabolico.

© Ariel, Lulù Withheld
Io non avevo talento, e ho perseverato per molti anni: dieci, per la precisione. Non sono mica l’unica, intendiamoci. Di gente senza talento che vuole cantare (o dipingere, o scrivere, o suonare uno strumento) è pieno il mondo. È sempre stato così, solo che in passato, almeno nell’ambiente del canto professionale, gli insegnanti accettavano soltanto gli allievi naturalmente dotati. Gli altri venivano mandati a casa. La selezione era brutale: tu puoi, tu no. Così si diceva. Chi aveva la stoffa del cantante e non era benestante, quasi sempre veniva seguito gratis dal maestro. Si scommetteva sul talento. Ora che la vecchia scuola di belcanto è morta e sepolta, si bada al portafoglio. Talento o no, si lascia credere che tutti possano imparare a cantare. Se qualcuno mi avesse detto: «Tu non hai una voce da teatro e io non ho tempo da perdere con te», forse avrei pianto, mi sarei sentita umiliata. Ma almeno non avrei perso tempo. Invece, oggi bisogna mostrarsi possibilisti, aperti. Non tagliare le gambe all’aspirante artista. Oggi si dice: quello che fai non va bene per niente, si vede che il tuo vecchio maestro era un cane. Se non sei mai riuscito a cantare, non è colpa tua, ma dell’insegnante. Però io posso sistemarti la voce, e poi, quando sarai a posto, ti manderò a fare audizioni. Intanto, devi pagarmi 50, 100, 200 euro a lezione (a seconda delle possibilità economiche dell’allievo e della fama del maestro). A quel punto, non importa quanti anni di studio si hanno alle spalle: si ricomincia tutto da capo. Dalla respirazione, che è un grande classico (cara mia, non hai proprio la più pallida idea di come usare il diaframma…). E poi di nuovo: scale, arpeggi, vocalizzi, bocca a uovo, sorriso sugli acuti (o bocca in verticale, a seconda della scuola), pugni sullo stomaco per vedere se appoggi e sostieni correttamente, cucchiaio calcato sulla lingua per tenerla in basso affinché la laringe non salga producendo suoni strozzati, proiezione della voce in avanti, lo specchio per vedere se si fanno smorfie. Nel frattempo, si ascolta il maestro o la maestra mentre fa lezione ad altri allievi. Si capisce subito se l’altro ha il talento che a noi manca. Si sorride, ci si complimenta, in silenzio si spera che muoia o che cambi insegnante per non averlo più tra i piedi. La stanza dove si fa lezione è tappezzata di vecchi ritratti di scena dell’insegnante. Quando il maestro o la maestra parlano della propria carriera, bisogna mostrarsi interessati, anche se hanno cantato solo in teatri di provincia. Quando parlano male dei colleghi, bisogna annuire. Gli altri non sanno insegnare, non sanno cantare, fanno vincere i loro stessi allievi ai concorsi. Una volta sì che c’erano i grandi cantanti, adesso fanno tutti schifo, e così via.
Comunque, quando ti accorgi che dopo due anni non riesci a cantare praticamente nulla senza strozzarti sul passaggio di registro, cominci a farti delle domande. Peccato che non siano quasi mai quelle giuste. Invece di chiederti: non sarà che mi manca il talento?, ti domandi: non sarà che questo maestro è un incapace? Eppure, gli elementi per capire ce li avresti davanti agli occhi. Ci sono allieve più giovani di te che cantano senza alcuno sforzo D’amor sull’ali rosee e tu ancora arranchi su Caro mio ben. Quando ti sentono sforzarti così, abbassano lo sguardo. Lo sai che ti compatiscono. Ma tu, sfacciata, chiedi al maestro di farti partecipare a un’audizione. Lui ti guarda, socchiude gli occhi, calcola mentalmente quanti soldi gli hai già dato, si domanda per quanto tempo ancora possa continuare a illuderti prima che tu decida di cambiare insegnante e di ricominciare tutto da capo. Poi scuote la testa, si sforza di sorridere: «È ancora presto», ti dice. «Ci arriveremo.» Non ti dice quando. Rimane sul vago. Non può toglierti la speranza, altrimenti smetteresti di pagarlo, e ha bisogno di te per campare. Gli allievi dotati sono pochi, pochissimi. La maggior parte sono solo mediocri che si illudono, e tu fai parte di questa schiera.
Ma com’è possibile, qualcuno potrebbe chiedersi, che abbia sprecato anni e anni della mia vita a cercare di cantare senza mai riuscirci? Com’è possibile non fare progressi, o farne pochissimi, e ostinarsi a crederci a costo di rovinarsi la vita? Non sarebbe più onesto prendere atto di non essere in grado? Dirsi: ci ho provato, ma non sono abbastanza brava? Gli altri vincono concorsi, ottengono borse di studio per interi ruoli, ricevono complimenti sulle loro doti canore. Che senso ha illudersi in questo modo? L’ho detto all’inizio: è un meccanismo perverso. In realtà, i segnali del disastro sono evidenti fin da subito. Sei mesi è un tempo ragionevole per capire se si hanno le carte per farcela oppure no. Poi magari il cantante non ce la farà comunque perché il talento è condizione necessaria ma non sufficiente: occorrono volontà, determinazione, pazienza, carattere, salute, fortuna, capacità di non scoraggiarsi di fronte agli insuccessi (che possono sempre esserci, beninteso, ma accompagnati da altrettanti successi). Dicevo: magari non ce la farà comunque, ma in potenza avrebbe potuto. A ben vedere, le parole dei maestri, seppure ingannevoli, sono la chiave per capire. Tanto più si presentano come ambigue, tanto più sono insincere. Adesso è presto, non sei ancora pronto, bisogna avere pazienza, sei indietro rispetto agli altri: queste sono parole ambigue, false. La traduzione è: secondo me non hai la stoffa, lascia perdere. Certo, è sempre possibile che un insegnante si sbagli, ma quando discorsi di questo tipo sono stati pronunciati da più di un insegnante, allora bisognerebbe fermarsi e riflettere bene. Al contrario: faremo l’audizione il giorno tal dei tali, ti presento al maestro X, tentiamo il concorso Y sono discorsi concreti, seppure parchi di complimenti (essere parchi di complimenti a volte può essere un bene).
Insomma, io alle parole degli insegnanti non ho dato alcun peso. Fino all’ultimo, mi sono cullata nell’illusione: se vuoi, puoi. Poi ho deciso di tentare un concorso di canto. Da sola, senza l’approvazione di quello che all’epoca era il mio maestro. Lui era contrario: «Non sei pronta, hai bisogno di esercitarti ancora». Ha provato a scoraggiarmi, però ha capito subito che facevo sul serio. «Va bene» ha detto, «prepariamo il concorso.» Le arie erano difficili, impervie, nemmeno adatte alla mia vocalità. Ma bisogna dire che non esisteva una sola romanza che riuscissi a cantare con agio, senza scontrarmi coi miei limiti. Il maestro avrebbe potuto dirmi: «Non andare al concorso, ne usciresti a pezzi». Avrebbe potuto impedirmelo, se avesse voluto. Ma per farlo, avrebbe dovuto ammettere di avermi preso in giro per cinque anni. Così ha taciuto.
Era la fine di novembre. Al mattino, mi sono messa in coda con gli altri candidati, mi hanno chiesto un documento, ho compilato un modulo. La maggior parte dei cantanti erano asiatici. Nell’attesa che cominciassero le audizioni, gli altri provavano le arie col pianista, vocalizzavano nei bagni oppure in sala d’attesa: davanti a tutti, senza problemi, spavaldi, consapevoli delle loro capacità. Io non ho provato nulla. Mi vergognavo. Me ne sarei dovuta andare, ora lo so. Eppure non potevo. Viaggiavo verso la catastrofe senza riuscire a fermarmi. Ascoltavo le altre voci accompagnate dal pianista. Ampie, profonde, leggere, vellutate, penetranti, enormi, appuntite, squillanti. Tutte diverse, tutte accomunate dal talento. Per partecipare al concorso avevo speso 70 euro. Non li avevo, eppure ero riuscita a trovarli. La certezza del fallimento si stava materializzando davanti a me. Ho aspettato per tutto il giorno.

© Jam, Lulù Withheld
Quando è arrivato il mio turno, erano quasi le sei del pomeriggio. Sono entrata, la giuria occupava le prime due file, chiacchierava, rideva. Una signora bionda sgranocchiava una barretta. Un uomo calvo e imponente mi fissava da dietro gli occhiali. «Prego» ha detto, «cosa vuole cantare?» «Caro nome» ho risposto. Una romanza pericolosa, con un mi bemolle non scritto alla fine: eseguirlo non era obbligatorio. Tra le cinque arie che avevo portato, quella era la più difficile. Sbaglierò il mi bemolle, mi sono detta mentre tremavo.
Ho fatto cenno al pianista, ha cominciato a suonare. Sentivo solo il cuore che batteva così forte da bloccarmi il respiro. Ho attaccato la romanza, la voce mi tremava. La sentivo rimbombare nelle orecchie, sbiancata, stridente. Non era la mia vera voce, era la voce di un’altra, di un soprano che cercava di cantare l’aria di Gilda. Una mano l’ho appoggiata sul pianoforte, immaginavo le impronte sul legno nero laccato. L’altra mano era libera, non sapevo cosa farne, mi mancava il controllo sul mio corpo. Alla fine dell’aria, ho azzardato il mi bemolle. Come mi aspettavo, l’ho steccato. Nell’aula, il silenzio era assoluto. Nessuno ha applaudito, l’uomo calvo si è schiarito la gola. Grazie e arrivederci. Sono uscita: fuori c’era un gruppetto di cantanti. Mi avevano sentita. Volevo sprofondare.
Ho preso il cappotto dall’attaccapanni, l’ho indossato, ho avvolto la sciarpa intorno al collo. Mi sono toccata il viso: era bollente. Gli occhi mi bruciavano. La signora bionda in giuria è uscita ed è venuta verso di me. «Venga, le offro un caffè» mi ha detto.
Sulle scale, mi ha preso sotto braccio. Era robusta e faceva fatica a camminare. Fuori era buio. Ho respirato l’aria fredda. Abbiamo attraversato la strada, siamo entrate nel bar di fronte, ci siamo accomodate in un tavolo accanto alla finestra. Abbiamo ordinato due caffè. Per un po’, nessuna delle due ha detto una parola.
Poi lei ha rotto il silenzio. «Mi dispiace» mi ha detto guardandomi negli occhi. «A volte bisogna sbatterci la testa.» Aveva un sorriso materno. «Vada a casa. Mangi qualcosa di buono, parli con un’amica. Questo è un ambiente terribile, non è detto che sia un male.»
Abbiamo bevuto il caffè, l’ho ringraziata, ha pagato. Poi mi ha salutato ed è rientrata nell’edificio. Sono andata a prendere il tram. Una ragazza alla fermata stava fumando, le ho chiesto una sigaretta. Non fumavo da sei anni: avevo smesso perché faceva male alla voce. Quando sono arrivata a casa, ho messo tutti gli spartiti in uno scatolone. L’ho chiuso con lo scotch, l’ho portato in cantina. Non l’ho mai più riaperto.
Giulia Sara Miori è di Milano ma vive a Utrecht. Nel 2020 è stata finalista al concorso 8×8, si sente la voce, dell’agenzia Oblique. Nel 2021 ha pubblicato la raccolta Neroconfetto (Racconti edizioni). Suoi racconti sono usciti per Minima et Moralia, Nazione Indiana, The Cincinnati review e altre riviste.




[...] Sono salito/ A bordo della nave del Re/ E ora a prua ora a poppa, ora sul ponte,/ In ogni cabina, ho fiammeggiato terrore:/ A volte mi dividevo e bruciavo/ In molti luoghi contemporaneamente – / Sull’albero maestro,/ Sulle antenne e il bompresso,/ Ardevo come fiamme diverse/ E poi mi radunavo e riunivo di nuovo./ I lampi di Giove,/ Messaggeri dei tremendi tuoni,/ Non erano più rapidi di me,/ Né come me veloci più della vista. (W. Shakespeare, La tempesta, Atto I, scena I, versione usata da Giorgio Strehler per il Piccolo di Milano nell’estate del 1978)
Ne La tempesta di Shakespeare Ariel è lo spirito dell’aria. Imprendibile, evanescente come la materia che lo compone, entra in scena raccontando gli esiti della tempesta che Prospero, il suo padrone, gli ha ordinato di scatenare sulla nave del re di Napoli. Così lo conosciamo, e così ci appare per tutta la commedia: scaltro e servile; vendicativo e compassionevole; indomito e morbosamente avvinto alle sue catene.
I ragazzi di Lulù Withheld appartengono alla genia di Ariel: spiriti che abitano le prime ore del giorno o del crepuscolo; creature in bilico tra malinconia e gioia; fanciulli capricciosi ai quali si perdona tutto per il solo privilegio di sfiorarli.
Lo sguardo della fotografa ci porta nello spazio effimero della gioventù sospendendo il giudizio, parlando il linguaggio della superficie e degli specchi, tagliando le immagini secondo la logica del flusso. La fotografia di Withheld è quella del cinema e si compone davanti ai nostri occhi come un racconto. Dietro i nomi dei modelli leggiamo i personaggi di un romanzo; l’immagine non è altro che la punta di un iceberg, la minima percentuale di un enorme rimosso che lega l’estetica della fotografa all’idea di letteratura di Marguerite Duras, dove la scrittura si avvolge su se stessa in un continuo ritorno di temi, ricordi, destini. Una tristezza trattenuta dalla quale, invece che la freddezza del rimpianto, emana il calore degli abbracci che abbiamo avuto il coraggio di dare.
Livia Del Gaudio
Lulù Withheld. Quando ero una ragazzina i miei genitori erano delle persone piuttosto note nella mia città. Così sono cresciuta come “la figlia di”, che per molti – immagino – sia una sorta di privilegio, ma per me non lo era affatto. Quindi il mio nome: Lulu Withheld significa anche questo, ovvero il mio desiderio di essere invisibile. Withheld che era quello che mi appariva sul display del cellulare al posto del numero sconosciuto. Withheld che vuol dire non esposto. Non rivelato. Omesso. Celato. Nascosto. Io. Nessuno. Anzi, solo le foto che faccio. Quelle sì, quelle le voglio mostrare. instagram.com/lulu_withheld
1 Comment