Mostrarsi al crepuscolo. Un viaggio nei luoghi dell’urbex

di Deborah D’Addetta

© Francesco Sammarco

Ho provato un timore reverenziale, quando, in una delle mie esplorazioni fotografiche, sono entrata in un hotel abbandonato: spazi un tempo vissuti, calpestati da altre suole, consumati nel vecchio splendore erano ora in rovina, in uno stato di decadenza tanto bello da essere doloroso. La fascinazione di un posto così sta nel riverbero di ciò che era e non è più, nelle vite che l’hanno attraversato e che, forse, sono state dimenticate, nella riconquista quasi ancestrale del regno dell’ombra che brilla di «luce nera e oscurità»1. Alcuni potrebbero sostenere «che se la bellezza deve nascondere i suoi punti deboli nell’ombra, non è affatto bellezza»2, ma in realtà quella dei luoghi dell’urbex è un altro tipo di bellezza: è un fascino nuovo, ridefinito dalle circostanze, da ogni nuovo visitatore curioso.

Catturarli attraverso la fotografia mi permette di ricordare che sono stata in quei luoghi, che essi esistono ancora e che la testimonianza tangibile di uno scatto restituisce dignità all’abbandono, alla bellezza dell’ombra.

Si potrebbe certamente credere che sia migliore (a livello fotografico ad alto impatto) il taglio chirurgico di luci e ombre nette che si origina quando il sole è allo zenit, soprattutto in edifici abbandonati in cui c’è ampio spazio di manovra, ma chi li frequenta sa bene che si mostrano davvero al crepuscolo, una condizione specifica di illuminazione naturale che favorisce la meditazione, l’autoanalisi, la ricerca di sé. E difatti, almeno nel mio caso, i luoghi dell’urbex mi permettono di spegnere la coscienza, di accendere quegli angoli nascosti che, presa da impellenze pratiche, sono in ombra, a favore della scoperta ingenua, infantile, che si concentra semplicemente sul mettere un passo avanti all’altro, stando attenta a non finire in un buco nel pavimento o su un gradino pericolante. 

La bellezza del passato, di ciò che è stato, si lega alla fumosità del tempo, all’offuscamento della memoria che dona ricordi e ne nasconde altri. Inevitabilmente, questa condizione di precarietà si lega a un’estetica dell’ombra che ci mostra quanto un oggetto o un luogo possano essere attraenti se poco esposti alla luce del sole, quanto un ricordo possa essere pregno di bellezza se tenuto con sé invece di essere esposto. Un’estetica che non provoca paura o sospetto, ma riflessione e raccoglimento, e che alcuni autori giapponesi hanno provato a definire.

1 Jun’ichirō Tanizaki, Libro d’ombra, a cura di Luisa Bienati, Marsilio, 2022, p.61
2  Ivi. p.65.

© Francesco Sammarco

«Questo è il nostro modo di pensare: noi troviamo la bellezza non nella cosa in sé, ma nei chiaroscuri, e nei disegni delle ombre che si creano per le sfumature tra un oggetto e l’altro. Così come una gemma fosforescente irradia luminosità quando è collocata al buio, ma perde il suo fascino quando è esposta alla luce del giorno, così la bellezza si perde senza gli effetti d’ombra»3.

Con il suo saggio Libro d’ombra, pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1933, Jun’ichirō Tanizaki ci insegna ad amare la bellezza onirica e spettrale della penombra, l’opalescenza che soppianta il candore artificiale.

Nel mondo contemporaneo, dove quasi ogni luogo sembra subire la violenza della luce a tutti i costi, l’oscurità e i suoi strati cinerei perdono terreno. Eppure Tanizaki afferma che sono i «gradi d’opacità dell’ombra»4 che ci permettono di apprezzare l’eleganza e la sensualità di un oggetto, di una casa, di una donna. 

Forse il “rifiuto occidentale” per il buio deriva da costrutti religiosi, superstizioni persino, e laddove la luce fornisce protezione divina e sicurezza di essere nel giusto, il buio viene dipinto come nicchia in cui si annida il male.

3 Ibid.
4 Ivi, p.52.

© Francesco Sammarco

D’istinto ricerchiamo quegli ambienti, quei luoghi, che appaiono inondati di luce: case ben esposte, spiagge assolate, montagne dalla neve candida; allo stesso modo, cerchiamo sempre di eliminare ogni macchia, ogni traccia di opacità sospetta dai nostri oggetti e indumenti. In senso del tutto opposto, i giapponesi (o almeno, i giapponesi del periodo Meiji a cui si riferisce Tanizaki) sublimavano suppellettili e utensili proprio perché trattenevano sulle superfici tracce di “sporcizia”, di fuliggine e persino delle intemperie. Doveroso è però sottolineare che la sporcizia apprezzata dall’autore non è il lerciume, ma piuttosto una sorta di strato tangibile che gli oggetti acquisiscono dopo lunghi anni di manipolazione, di uso, e dunque, di vita vissuta. La ricerca occidentale del candore pare contrapporsi fortemente a questa sensibilità estetica e a essa si aggiunge anche l’ossessione per ciò che è nuovo, pulito, immacolato, tanto nei riguardi degli oggetti di uso comune, tanto nei luoghi. 

Il vecchio va buttato, il vuoto riempito, il buio sconfitto, e le nostre case sono l’emblema della non-accettazione, del rifiuto di ciò che non è perfettamente lindo, candido, riconoscibile. 

Se per Tanizaki l’oscurità è un vero e proprio principio estetico capace di riassumere l’attitudine del popolo giapponese a adeguarsi alla natura e alle sue ombre, per noi occidentali la vera bellezza pare essere una parete bianca, una superficie splendente, un oggetto perfettamente lucidato e per questo più apprezzabile, una stanza piena di luce brillante.

© Francesco Sammarco

Esistono però “luoghi altri” che non si inseriscono in alcuna classificazione e in cui sembra che i tentacoli fumosi della penombra abbiano riconquistato una sorta di regno, «in cui i riflessi sommessi e profondi ricordano la patina del tempo»5: sono i luoghi dell’urbex, dell’abbandono, del disfacimento architettonico e urbano.

I “luoghi dell’urbex” sono edifici un tempo operativi – ospedali, hotel, centri commerciali, scuole, manicomi, stazioni ferroviarie – che, abbandonati per le ragioni più disparate, diventano isole senza nome, senza tempo e senza luce, dall’attrattiva irresistibile per alcune persone che si dedicano alla loro esplorazione. 

Probabilmente non è semplice trovare della bellezza in qualcosa di rotto e spettrale, ma l’uomo d’oggi può aver bisogno di isolarsi in spazi che esistono a prescindere dalla sua presenza e che, al contrario, sopravvivono proprio grazie alla sua assenza.

La luce artificiale invece non si quieta mai, brucia gli occhi e ronza persino di notte, eppure sembra quasi impossibile spegnerla. Probabilmente abbiamo timore di ritrovarci nell’ombra improvvisa. 

L’isolamento allora, a volte, pare essere un antidoto e i luoghi dell’urbex ci danno l’opportunità di rifuggire dalla frenesia accecante del mondo contemporaneo per ritornare alle origini, a quei tempi in cui la «lucentezza fumosa e l’oscurità diffusa»6 rendevano tutto più bello, proprio perché le cose e i luoghi acquisivano mistero e segretezza.

Mistero e segretezza che sembrano ormai chimere in un mondo, il nostro, dove tutto è svelato, immediato, dove spesso si sente una nostalgia taciuta per ciò che era bello senza essere mostrato o scoperto poco alla volta. Lo stesso tipo di rammarico viene usato da Tanizaki per contrapporre il gusto estetico giapponese, dedito all’esaltazione della natura e ai suoi chiaroscuri, a quello occidentale, che persegue una lotta folle contro ogni penombra, contro ogni minimo accenno di spettralità. L’autore giapponese non parla dell’oscurità vera e propria, ma di un necessario ritorno all’ospitale calore della luce crepuscolare.

5 Ivi, p.45.
6 Ivi, p.47.

© Francesco Sammarco

Anche un hotel abbandonato, una chiesa sconsacrata, un ospedale ormai in rovina non sono più, per forza di cose, illuminati artificialmente, e dunque fanno affidamento sulla luce naturale, ma ancora di più sul suo patto con l’ombra, per esprimere la loro nuova natura: diventano «nonluoghi»7 ai quali ogni ospite dà la definizione che ritiene opportuna, «un mondo promesso all’individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero che propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile8

“Nonluogo” come uno spazio che non si compie mai totalmente e perciò, smettendo di perseguire lo scopo per cui è stato creato, si lascia invadere dal regno delle ombre in attesa di una nuova identità.

7 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009, p.75.
8 Ivi, p.77.

© Francesco Sammarco

I primi passi in questi ambienti possono essere difficili, soprattutto per un motivo tanto semplice quanto fondamentale: non vi è luce. Anche di giorno, in alcuni edifici abbandonati, molto vecchi o peggio conservati, non arriva che un pallore incerto, completamente vinto dalla forza dell’ombra. Ma si tratta solamente di puro istinto di sopravvivenza: una volta fatto lo sforzo iniziale, questi luoghi si aprono mostrandoci che sono in grado di conservare un’estrema bellezza tutta propria, camuffata da sciatteria o da inquietudine.

Ciò che accomuna questi spazi non più abitati dall’uomo è la loro propensione al silenzio e alla definizione di essi ormai appannaggio della natura: proprio come sostiene Tanizaki, non sussiste più la «luce tagliente che arde», non vi è più «l’illuminazione eccessiva» o la «luce invadente» che pialla ogni rotondità e ogni anfratto d’ombra; è la presenza della luce naturale che decide se una stanza è accessibile o meno, sono il crepuscolo e le sue ombre che scelgono di rendere una sala terribile; ma, ancora di più, ed è lì che si trovano la quiete tanto ricercata e la bellezza, è nella connessione pittorica che si crea nelle pieghe della penombra che un oggetto o una stanza rendono al massimo delle proprie potenzialità.

© Francesco Sammarco

Spesso ho provato paura nell’abbandono: lo stesso Tanizaki sostiene che «doveva essere semplice per gli spettri apparire in un buio visibile, dove sempre qualcosa sembrava tremolare e luccicare, un’oscurità che in molti casi destava un terrore più grande del buio esteriore»9.

Eppure, senza l’ombra, il luogo dell’abbandono non avrebbe motivo d’esistere: una vecchia sala da pranzo in cui ormai imperversa la forza della natura, inondata di piante, felci, rami e fiori selvatici, perderebbe completamente di bellezza se posta sotto i riflettori; nella penombra invece, in quella «luminescenza languente»10 tipica del vespro, acquisisce contorni primordiali, antichi. Come avventurarsi giù per una scalinata sbeccata, a cui manca il passamano e ogni logico perno o sostegno architettonico, sembrerebbe totale follia alla luce di mezzogiorno, così nella penombra può ammaliare con la promessa di un’avventura “verniana”.

L’ombra – la paura inconscia che emana e la sua bellezza difficilmente riconosciuta – si riverbera non solo nella sua manifestazione fisica e tangibile, ma nella consapevolezza che questi luoghi sono stati un tempo abitati da altri, da fantasmi ormai del passato, nient’altro che ricordi o bagliori di un tempo dissolto. Inoltrarsi in una camera da letto ormai spoglia, in un bagno con solo una vasca spezzata a metà, riflette su noi stessi il futuro, ciò che potremmo essere, l’immagine di un mondo che, tra dieci, cinquanta, duecento anni, cambierà volto.

Per me, la fascinatio, il potere dell’attrazione dei luoghi dell’urbex sta in questo: le strutture artificiali costruite dall’uomo perdono e lasciano indietro lo scopo per cui sono state create e cedono il passo alla natura, al capriccio della luce e dell’ombra, e con loro anche il costante iper-vagheggiamento quotidiano che si arrabatta tra dubbi, problemi, l’inarrestabile rimescolare della mente. Lì, essa si spegne, si dedica solamente alla scoperta, all’ammirazione dell’ombra e dei segreti ancora nascosti in essa. Si tratta sia di un bisogno estetico, dettato dalla mia particolare predilezione per il bianco e nero, per il mistero e per ciò che richiede un’analisi attenta, sia un bisogno fisiologico di interruzione del pensiero, di un ritrovare nell’ombra qualcosa di familiare e di ancestrale che è andato perso nella morsa del progresso.Nell’equilibrio tra vedere ciò che è presente e immaginare ciò che non lo è, l’uomo contemporaneo può ritrovare uno spazio solo suo, una personalissima cavità in cui decomprimersi dalla velocità, in cui spegnere le luci e farsi ammantare da uno strato d’ombra indispensabile alla sopravvivenza, perché il percorso per comprendere che «il mondo dell’ombra che stiamo dissipando»11 non è altro che una perdita di parte di noi stessi, è tanto fascinoso quanto inevitabile.

9 Jun’ichirō Tanizaki, Libro d’ombra, cit., p.71.
10 Ivi, p.55.
11 Ivi, p.79.

editing di Fabiana Castellino

Deborah D’addetta. Classe 1986, flâneuse, più napoletana che pugliese. Scrive, mangia e scatta ancora a pellicola. Adora i musei, i gatti sfinge e ha un feticcio per gli spaghetti al pomodoro. Fa parte del collettivo di Spaghetti Writers, recensisce libri per Critica Letteraria ed è contributor di Italy Segreta e Munchies. Suoi racconti sono stati pubblicati su Blam, A4, Risme, Bomarscé, Super Tramps Club, Grado Zero, Fantastico!, Crack, Grande Kalma e altri. Vince il premio letterario “L’Avvelenata con Blam” 2021.

I was here, io ero qui, si legge sullo specchio. Le lettere sono tracciate con le dita, la superficie è impolverata, la cornice a testa in giù. Sullo sfondo i calcinacci nascondono il pavimento. 

Marc Augé scrive che il nostro è il tempo delle macerie. L’uomo infesta, impone il suo ordine, abbandona: come un bambino si lascia alle spalle resti di giocattoli rotti. Risucchiato dalla noia che prova, vi trascina dentro anche lo spazio; ma lo spazio scartato, ciò che rimane vuoto, agisce a sua volta come magnete.

La pratica dell’urbex, l’esplorazione urbana, nasce in risposta a questa attrazione. Una volta abbandonato, il luogo si imbeve di nuovo significato, diventa ossessione malinconica, anche se non nell’accezione romantica di custode della memoria. Avventura, curiosità, ignoto; la maceria, più della rovina, è il luogo dell’ombra, la disfatta di uno spazio a cui non si è dato tempo di invecchiare che trova senso nell’accezione momentanea di evento.

Non è un caso che le fotografie di Francesco Sammarco abbiano per soggetto un albergo. Simbolo del transito veloce, dello sguardo distratto del turista, una volta caduto in disuso l’albergo diventa rappresentazione di tutte le vite non vissute, dell’eccesso di occasioni, dell’illusione di libertà di cui si imbeve il mito moderno. Nel succedersi dei numeri delle camere dietro il banco della reception, negli ascensori inagibili, nelle scale spogliate dei rivestimenti si nasconde l’enigma tra azione/non azione, desiderio e atarassia.

Sammarco sintetizza la dialettica nello spazio estetico dell’immagine. Il bianco e nero, la poetica della luce, il contrasto; le inquadrature che, insieme agli interni, coinvolgono l’Altrove del paesaggio: nelle sue foto esiste sempre uno spiraglio nel buio, una porta spalancata sull’esterno, una finestra rotta, una via di uscita.


Come nello specchio da cui siamo partiti, lo sguardo del fotografo risponde al suo stesso sguardo: simile al movimento di voltarsi, riflette il bisogno di mutarsi in presenza, di rompere il vetro: io ero qui, ripete. Io voglio essere stato.

Livia Del Gaudio

Francesco Sammarco. Classe 1988, è architetto pianificatore, urbanista e fotografo con base a Napoli. Dopo la Laurea con lode nel 2016 presso il Dipartimento di Architettura di Napoli, ha partecipato attivamente a differenti ricerche e convenzioni tra cui tra cui il PRIN Re-Cycle Italy (2013-2016), quella finalizzata alla “Implementazione e valorizzazione della connettività urbana del Museo Archeologico Nazionale di Napoli MANN” (2018-2019) e gli studi di supporto alla redazione del nuovo Piano Paesaggistico Regionale PPR della Campania (2020), per le quali è stato anche il curatore del reportage fotografico. Ha prodotto diverse pubblicazioni scientifiche e fotografiche su testi e riviste di settore, come su DROSSCITY: Metabolismo urbano, resilienza e progetto di riciclo dei drosscape (2016) a cura di C. Gasparrini e di A. Terracciano, su THE CITY AND THE SKIN (2020) a cura di M. Milocco Borlini, su URBANSCAPE. Le città si raccontano (2020) a cura di A. Cucchetto e F. Bortolozzo, e su TRAVEL TALES. Storie di viaggi e di viaggiatori (2021) a cura di S. Ottolenghi. Da settembre 2022 è Dottorando in Urbanistica nel 38° Ciclo del DiARC UNINA Federico II.

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