di Gabriele Esposito

© Francesco Sammarco
IL LIQUORE CERTOSINO DEI MONACI DEL JARDIN DU LUXEMBOURG
o
Sul particolare destino di Philibert Aspairt, portiere dell’ospedale Val-de-Grâce
di Gabriele Esposito
Quando mi fecero capire che il treno non sarebbe passato – e che non sarebbe passato proprio più – decisi di rimanere a dormire in quella stazione sotterranea e, come me, lo decisero in molti. Avevamo perso quel treno per sempre, non c’era nient’altro da fare nella vita: solo il rannicchiarsi, il poggiare la testa sul muro e dormire il più possibile. Dormire evitando danni alle vertebre cervicali.
Ché poi, questi danni una se li porta dietro a lungo, e qui di ortopedici e fisioterapisti in giro non ne vedo.
Anzi, quando la gestione iniziò a far passare di notte, a ripetizione, il primo volume che raccoglie i preludi di Debussy interpretati da Arturo Benedetti Michelangeli – non ce ne voglia Arturo – qui sono andati tutti via. Se un ortopedico ci fosse stato, adesso di sicuro non c’è. Scopo della gestione quasi raggiunto: rimango solo io.
Io da sola, qui, giorno e notte, in mezzo a tracce di banchetti, rifiuti, al liquame di chi come me aveva perso quel treno e aveva scelto di non fare più nulla. Distinguo la notte dal giorno solo perché di notte mettono su Debussy, e poi perché di notte qualche ratto passa sul binario morto, si arrampica sulla banchina, viene ad aiutarmi a tenere il luogo pulito. Di giorno non lo fanno: niente Debussy, niente ratti. È così che sono stata l’unica capace di resistere: di giorno dormo, di giorno c’è silenzio. La notte veglio che i ratti non vengano a cercare di pulire anche il mio corpo.
Oggi, invece, mi sono svegliata nelle ore diurne (o almeno credo), quando sono cominciati i rumori. Roba meccanica. Una ventola, dei motori, qualcosa fatto dall’uomo. Non è Debussy, no. È forse più fastidioso ancora. La colata arriva poco dopo il rumore, è cemento, è roba che sigilla le uscite, le entrate, che isola questa stazione dal resto del mondo per l’eternità. Una dichiarazione solenne di abbandono da parte di tutti gli altri, la conferma, se mai ne avessi avuto bisogno, di aver perso quel treno. Sono in trappola. Dai lontani altoparlanti non si sente più nemmeno Debussy. La stazione è abbandonata.
E ora è davvero notte.
I distributori automatici di cibo e bevande sono rimasti provvisti solo di orsetti gommosi e lattine di roba gassata. Ne faccio sbuffare una e mi accingo a berla per cercare di sopravvivere almeno una giornata ancora.
È in quel momento che una voce lontana mi chiede se io non voglia invece condividere un goccetto di liquore Certosino.
Poggio la lattina per terra, mi guardo a destra e sinistra: le porte sono chiuse, sigillate, non c’è nessuno. La lucina viene dal profondo della galleria, la galleria dove se n’è andato il treno che ho perso. È un uomo, cammina molto lento ma si avvicina sempre di più, inesorabile. Un passo continuo e regolare, come se questo moto costante arrivasse ora a me da secoli addietro, da un’eternità fa. I vestiti di questa persona sembrano confermare la mia ipotesi, è meno alla moda di me. Indossa una cintura di cuoio ormai sbrindellato, vi è appeso un mazzo di enormi chiavi. La barba bianca gli arriva al cavallo dei pantaloni, allacciati con pezzi di corda. Cerca di arrampicarsi sulla banchina ma non ce la fa: le sue braccia, pur se ancora ricoperte di pelle, sembrano essere prive di bicipiti e tricipiti. Lo aiuto abbracciandogli il torso, onde evitargli una lussazione della spalla se lo tirassi per le mani. Viene su, si alza, mi spinge di lato. Corre verso una delle bottiglie che i miei antichi coinquilini hanno lasciato per terra. La raccoglie.
«L’ho trovata» mi dice, «l’ho trovata! Dopo tutti questi anni. Le cantine dei monaci sono enormi e più vuote di quello che pensassi. Una sola bottiglia c’era, dunque: eccola, era qui. È mia!»
Lo guardo mentre porta la canna alla bocca, mentre aspetta di bagnarsi la faccia con quel liquido che però non c’è; liquido che c’era ma che è ora parte del sangue del vagabondo che l’ha bevuto mesi e mesi fa.
Il contenitore cade dalle mani dell’uomo, urta il pavimento della banchina, il vetro si rompe e nessuna bevanda si unisce ai frammenti sparsi per terra. Forse solo le lacrime del mio nuovo interlocutore.
«Niente, nemmeno qui» dice.
La cantina è dunque vuota: non c’è davvero niente in queste gallerie. Dopo più di duecento anni, lo posso finalmente confermare. Quel che c’è stato è solo l’avventura.
Condivido il pianto dell’uomo. Lui ha vagato con brama per duecento anni qui sotto, io invece me ne starò ferma per la stessa quantità di tempo per non averne, e per aver mancato un treno. Il risultato sarà lo stesso per entrambi: il nulla.
Do un calcio al distributore automatico di cibo e bevande, cade un’altra lattina.
Ci sediamo per terra tutti e due, lì: lontano dai ratti. Dopo il cin cin ci abbeveriamo con trentatré centilitri a testa di Pepsi Cola senza caffeina. Poggiamo la testa sui mattoni grezzi del muro e guardiamo insieme il muro dall’altro lato dei binari.
Le origini della storia dell’esplorazione urbana risalgono al 3 novembre 1793, il giorno della sparizione di Philibert Aspairt, portiere dell’ospedale Val-de-Grâce e leggendario esploratore della Catacombe di Parigi. Anche se non ci sono reali prove della suo esistenza, Aspairt – o il cadavere di colui che venne ritrovato undici anni dopo in una galleria nel sottosuolo di Parigi – è sepolto nel Grand Réseau Sud, sotto la rue Henri Barbusse, presso il boulevard Saint-Michel.