di Remi Recchia
Tradotto da Rachele Salvini
[ITA] [ENG]

© Alexander Gonzalez Delgado
Il santuario fu invaso di luce mentre le due fiale, da vuote, si riempirono del crisma e dell’olio per i catecumeni. Le candele sembrarono affievolirsi di fronte all’intensa luce bianca. Gli spettatori fissarono le fiale, increduli, ma il pagano morente aveva occhi solo per Remigio, arcivescovo di Reims. Nelle testimonianze sulla leggenda del Battesimo del Pagano Moribondo, anche nota come la storia di Remigio e della Santa Ampolla, non troviamo una descrizione della luce bianca, della congregazione scioccata, o del pagano ammaliato. In verità, il battesimo seicentesco di un uomo in punto di morte non sarebbe stato un evento di particolare rilevanza, fatta eccezione per quelle fiale battesimali che si erano miracolosamente riempite. Remigio, a neanche venticinque anni, era stato eletto arcivescovo di Reims nel 459. Oggi è noto soprattutto per aver fatto convertire al cristianesimo Clodoveo, re dei Franchi, nel 496, insieme a tremila dei suoi sudditi. I teologi attribuiscono al riverito arcivescovo anche il miracolo del Battesimo del Pagano Moribondo, confermato quando, durante il regno di Carlo il Calvo, la sua tomba fu riaperta e furono trovate le stesse fiale che emettevano un effluvio “etereo”.
Ho un profondo legame con la Francia. Mia madre, professoressa di Francese e studiosa del Medioevo, nel 2000 si prese un anno sabbatico per fare ricerca su San Marziale, trascinando mio padre, mia sorella gemella e me fino in Bretagna. La Bretagna è una provincia piovosa nel nord della Francia, sostanzialmente un’area rurale dedita alla produzione di latticini, e incassa la maggior parte delle sue rendite dalle fattorie locali. Né io né mia sorella parlavamo francese, ma imparammo velocemente. Alla fine dei nostri quattordici mesi in Francia — quando avevamo otto anni — parlavamo un ottimo francese.

© Alexander Gonzalez Delgado
Dopo aver passato il nostro settimo compleanno a Parigi, arrivammo in Bretagna per il secondo anno di elementari. I miei genitori avevano affittato quello che un tempo era stato un vecchio castello chiamato Tréhorenteuc, o Tregarantec, e che poi era diventato una fattoria, ma non abitavamo esattamente nel castello — vivevamo in una zona della proprietà appena fuori da quella casa enorme. Anni dopo, quando la chiamo al telefono, mia madre descrive il sontuoso castello come un enorme semicerchio, o come un edificio a forma di U. La nostra parte della proprietà si trovava in fondo a una delle estremità del semicerchio. Il nostro paradiso francese.
Tregaratec si trovava nel piccolo villaggio di Mellionec. Il paesaggio di Mellionec è simile a quello dell’Ohio o del Michigan rurali, con la pioggerellina, le mucche, i pozzi abbandonati e i trattori. Tregarantec era un castello settecentesco; mia madre mi racconta che, secondo la leggenda, sarebbe stato un regalo per una delle amanti di Luigi XIV. Stavamo su due piani, con la cucina al primo e una o due camere da letto al secondo. Nella camera dei miei si apriva uno stendibiancheria per via della pioggia così frequente. La cucina era una claustrofobia di muri e armadietti.
Io e mia sorella frequentavamo L’École Notre Dame, una scuola cattolica nella vicina città di Rostrenen. Anche se cattolica nel nome, secondo mia madre era una scuola abbastanza laica, e costava appena dieci euro al mese — undici dollari americani. Ogni giorno, nostro padre ci accompagnava in macchina da Tregarantec per la lunga strada sterrata. Dovevamo cronometrare il nostro arrivo e la nostra partenza alla perfezione, per non rimanere intrappolati dietro le mucche che si dirigevano verso la sala di mungitura a intervalli regolari per tutta la giornata. A volte, se eravamo in ritardo, dovevamo passare sotto il recinto elettrico per entrare in macchina. Era il mio gioco preferito.
Non penso di poter aggiungere niente di nuovo allo stereotipo su quanto possano essere inquietanti le suore nelle scuole cattoliche, ma voglio provarci. Mi ricordo che le suore non insegnavano tutte le materie, ma quando lo facevano, pretendevano il silenzio. C’erano altri insegnanti di diverse discipline e la nostra preferita era Madame Brigitte, ma le suore conducevano il corso d’arte. Una suora in particolare ci spaventava più di tutte: Suor Marie. Un giorno, le suore ci dissero di fare sculture di topini di argilla. L’argilla era di un colore rosso-marroncino, come il terreno dell’Oklahoma, lo stato dove vivo adesso, ma era liscia e profumava di borotalco. A ogni banco sedevano due studenti e le suore ci dissero di modellare i nostri topini d’argilla in silenzio. Un topino per studente. Non dovevamo parlare. E neanche i topini dovevano parlare.
Io e mia sorella eravamo a conoscenza di questa regola, ma decidemmo che non valeva la pena seguirla, o forse non riuscimmo a trattenerci. Mi ricordo di aver pensato che c’era qualcosa di molto divertente (forse il silenzio stesso?) e di aver riso. Cominciammo un valzer sussurrato tra i topini, mentre facevamo rotolare l’argilla sul tavolo. Il rosso-marroncino lasciò un segno sulla superficie. Il mio topino, probabilmente, aggredì il topino di mia sorella. O forse i topini diventarono migliori amici. Forse il mio topino si sentiva solo. Sono sicuro che le suore ci punirono in modo cattolico — severo, e grondante di sensi di colpa.

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Dopo San Remigio di Reims, la Francia è rimasta un paese largamente cristiano (e, più tardi, cattolico). Io non sono cattolico, ma mi chiamo come San Remigio — o, per usare le parole di mia madre, così sono stato «chiamato retroattivamente».
Dissi ai miei genitori che ero trans usando un soprannome che avevo già scelto: Remi. “Remi” era un nomignolo affettuoso che mi aveva affibbiato la mia migliore amica; era una combinazione di “Remus” — il mio personaggio preferito di Harry Potter, da cui ero ossessionato — e il mio dead name. Originariamente, ero stato chiamato come mia nonna materna.
Il fatto che il lignaggio familiare sia così importante per mia madre è sorprendente. I miei genitori non hanno cresciuto me e mia sorella vicino ai nostri nonni, a una zia affascinante, o a uno zio strambo. Mia madre è cresciuta nel nord della California, in un paesaggio simile a quello della Bretagna: rurale e con molte mucche, anche se più caldo e assolato. Mio padre è di Williamsburg, Virginia. Si sono conosciuti in California, molto tempo dopo l’anno in cui mio padre fu congedato onorevolmente dall’aeronautica militare. Da ciò che so, fu una storia d’amore impetuosa: mio padre era un cuoco in un localaccio unto e stava per licenziarsi, ma oggi sostiene che l’istinto gli avesse suggerito di trattenersi un po’ più a lungo. Tre giorni dopo, mia madre, una californiana bionda e sottile con incredibili occhi azzurri, era stata assunta come cuoca. Dopo più di trent’anni di matrimonio, mia madre dice: «Un giorno stavamo lavorando e una decappottabile rossa passa fuori dalla finestra. I nostri occhi si incontrarono e il resto è storia». Risparmiarono per circa sei mesi e andarono a fare un giro dell’Europa in bicicletta. Dopo molti anni, nel 1993, dopo il dottorato, e dopo aver vissuto in diverse parti degli Stati Uniti, mia madre trovò lavoro presso l’università del Michigan. Così partirono, avventurandosi coraggiosamente nella terra del gelo e dell’hockey su ghiaccio.
Al contrario dei miei genitori, mi sono sempre definito un americano del Midwest. Venire dal Michigan significa molto più che provenire da una certa regione — per me è un’eredità fatta di richiami di strolaga, del ricordo di come tracannavo l’acqua di lago della Penisola Superiore e sbagliavo a scrivere il nome della mia città anche da adulto, perché aveva troppe vocali. Da bambino andavo in campeggio e a fare canottaggio, mi mettevo il pigiama alla rovescia nei giorni di neve, e conservavo le lucciole in barattoli di vetro come piccole ballerine con le antenne. Oggi, anche io e mia moglie pianifichiamo di tornare in Michigan, dopo aver terminato i nostri dottorati.

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Ma adesso so (e penso che lo sapessi anche allora) che non ero un normale ragazzino del Midwest. Non avrei capito tutto fino a molto dopo, ma il mio corpo, con il seno e le mestruazioni, mi stava lentamente uccidendo.
San Remigio, uno dei molti santi patroni della Francia, è anche patrono dei serpenti e dell’indifferenza religiosa. Per quanto non sia convinto che i serpenti abbiano bisogno di patroni — mi viene da pensare al mio topino d’argilla, simbolo delle prede di ogni dove — l’indifferenza alla religione è largamente diffusa in Francia e il paese sta diventando sempre più secolare. Se fino al 2015 il 64.5% della popolazione francese si dichiarava affiliato alla chiesa cattolica, solo una minoranza partecipava regolarmente alle cerimonie religiose. E nella mia esperienza, da bambino non cattolico che frequentava una scuola religiosa, le suore che presidiavano la nostra classe erano semplicemente insegnanti con rughe d’espressione particolarmente dure.
Si dice che nel 496, al battesimo di Re Clodoveo, «una colomba bianca come la neve… fu vista scendere dal paradiso, portando nel becco l’Ampolla, il recipiente che conteneva il sacro olio per l’unzione battesimale». Questo tipo di magia — riempire il vuoto con il divino e riscrivere gli eventi mondani attraverso il sacro — mi ricorda l’incontro tra i miei genitori nel nord della California, come se fossero predestinati. Quando si sono conosciuti, è scattato qualcosa. Qualcosa nel mondo è diventato almeno un pochino migliore.
Nel 2016, quando finalmente dissi che volevo cominciare la transizione, i miei genitori non furono d’accordo. Avevo ventidue anni. Io, mia madre e mio padre eravamo seduti in salotto. Mi stavo torcendo le mani in grembo, guardando le mie nocche brillare di un bianco spettrale. Spiegai il processo della terapia ormonale sostitutiva (TOS), l’idea della mastectomia bilaterale. Tutto ciò che riguardava il mio genere e che avevo represso fin dalla pubertà era allo scoperto. I miei genitori non capirono. Non subito.
«Penso che sia un errore», disse mio padre, seduto su una poltrona che somigliava a quella in cui si sedeva quando ero un neonato e lui mi stringeva al petto. Quando avevo un anno, mio padre stava leggendo Guerra e Pace e il ricordo del libro mi sfiorò la mente, piano, solo per un momento. Ci piace dire che è per questo che sono uno scrittore. «E Dio?» Nell’aria la sua voce tremò d’incertezza per un attimo, probabilmente perplesso, e neanche sicuro di essere completamente d’accordo con la teologia che stava suggerendo. «Dio ti ha reso una ragazza».
Non penso che alla nostra conversazione sia seguito un litigio. Non ci furono porte sbattute, silenzi passivo-aggressivi. Ma qualcosa cambiò, e per un po’ una certa distanza fece eco tra noi. Per quanto i miei genitori disapprovassero — o, più precisamente, fossero confusi, perché di solito non giudicano nessuno — mi rimasero accanto e, soprattutto, fecero domande. Ne ero sicuro? Quali erano i rischi? Sarebbe stato pericoloso?
Non avevo tutte le risposte. Sapevo solo che avevo bisogno di una trasformazione per sopravvivere. Avevo bisogno di un miracolo della medicina.

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San Remigio è noto per fare miracoli, ma è soprattutto la sua giovane età al tempo della consacrazione a renderlo speciale. Quando fu dichiarato arcivescovo aveva ventidue anni, la stessa età che avevo io quando feci coming out con i miei genitori. Secondo il Reverendo Alban Butler, nel libro Vite dei Padri, Martiri e degli Altri Santi, «La sua stessa nascita fu spettacolare, e la sua vita fu quasi un continuo miracolo di grazia divina… i suoi pii genitori ebbero una cura speciale per la sua istruzione, lo sorvegliarono come un bambino benedetto dal paradiso e furono attenti a metterlo nelle mani migliori». E, quando cominciò la sua istruzione, San Remigio rivelò «un intelletto eccellente» e era «la persona più eloquente a quell’età». La sua intelligenza, insieme alla sua pietà, fu ciò che lo rese un candidato perfetto per il lavoro clericale. E è per questo che i suoi simboli sono una colomba, un libro e una lampada.
Non pretendo di essere neanche lontanamente intelligente quanto San Remigio, ma condivido il suo amore per lo studio. Sono uno scrittore, un lettore. Un inventore. Mentre gli anni passano, discutere della mia identità trans con i miei genitori si fa sempre più naturale. Tutti noi — i miei genitori, la mia gemella e me — stiamo crescendo, imparando e ascoltando. Poco dopo aver fatto coming out, mentre cercavo di costruirmi una nuova strada come uomo, esattamente come Remigio aveva fatto per l’anima religiosa della Francia, mia madre mi fece sedere davanti al suo computer e mi mostrò la pagina del santo su Wikipedia. Sotto di noi, il divano era morbido e confortevole. «È il diritto di ogni madre, dare un nome al figlio», mi disse. Oggi, quando mi saluta al telefono chiamandomi “Remi”, o mi dà un abbraccio ossuto ma caloroso, in realtà mi sta chiamando “Remigius”, un’eredità passata di madre in figlio, per abbinarlo al nome francese che aveva dato a mia sorella alla nascita. Lo studio è il modo in cui mia madre esprime il suo amore; vuole sapere come funzionano le cose per capirle e provare empatia. Lessi l’articolo su Wikipedia con interesse. Mi insegnò a pronunciare il mio nuovo nome in latino, non con la “g” dura: “Re-mi-gius”. E mentre leggeva una bozza di questo pezzo, mia madre mi ha ricordato che «quando un genitore dà il nome al figlio, ammette e riconosce che il figlio è suo. Puoi cambiare quanto vuoi, ma sarai sempre nostro figlio». Le somiglianze che mia madre ha visto tra Remigio e me (inclusa la mia salda morale e il mio senso di responsabilità) sono più lusinghiere di ciò che io avrei visto in me stesso. Ma non è questo il punto, se ogni nome è un dono?
Un giorno, durante il nostro soggiorno in Francia — a Parigi o in Bretagna, non ricordo — visitammo un negozio di giocattoli. Era una stanza enorme, piena di colori: vari oggetti che avevano le ruote, cose che facevano rumore, bambini tutti sporchi e seguiti da genitori esausti. Io e mia sorella ci concentrammo sugli oggetti esposti su uno scaffale che ospitava statuette di vari animali di legno. Piccoli gattini e gufi di colori brillanti si facevano compagnia l’uno di fianco all’altro. A un certo punto io e mia sorella scorgemmo due forme in fondo allo scaffale. Era una coppia di topini di legno; il legno così liscio, modellato in forme eleganti e ovali, con orecchie solide e codine fatte di spago. L’artista aveva dato a ognuno dei topini quattro ruote al posto delle zampe. Gli occhi e i baffi erano dipinti di nero. Io presi quello rosso, facendogli fare su e giù sullo scaffale, guardandolo fisso. Adesso, a ben vedere, quel topino era più o meno della stessa grandezza di quello che avevo modellato con impegno durante la lezione di arte, sotto la supervisione di Suor Marie.
Ho quasi trent’anni, e ho ancora quel topino. La sua tinta rossa non è sbiadita, ma la punta della coda è sfilacciata e i suoi piedini-ruote sono tutti sporchi. È appollaiato in cima alla mia libreria; mi guarda mentre scrivo. Ha gli occhi larghi di paura, o di meraviglia? Sono opachi, impenetrabili. Non riesco a capire cosa stia pensando.
Ma ecco la cosa più importante: non devo provare a leggere la mente di quel topino per sapere che è una reliquia del mio passato. Io e il topino scriviamo insieme, sogniamo insieme, ci ricordiamo il sapore della pioggia francese e delle preghiere cattoliche. Quando lo guardo, riesco quasi a sentire odore d’argilla.
Il tribunale di Bowling Green, in Ohio, potrebbe essere definito maestoso: ha una scalinata di marmo bianco tutto decorato e maniglie d’oro (o forse di un ottone che si finge costoso) montate su porte che sembrano importanti. In Ohio, devi vivere nello Stato per almeno un anno, prima che ti sia permesso cambiare nome legalmente. Poi, se sei trans, devi annunciare la tua decisione alla città intera, mettendo un annuncio sul giornale locale — che devi pagare, ovviamente — per informare i lettori del tuo cambiamento; devi andare a un’udienza pubblica in cui spiegare il tuo caso davanti a un giudice probabilmente conservatore, e pagare quote aggiuntive per notai, spese processuali, e così via. Al tempo ero uno studente universitario squattrinato e cambiare il mio nome mi è costato più di cento dollari; più di tutto, mi è costato la mia privacy e mi ha costretto a fare coming out in una piccola città di conservatori (dove mi ero trasferito per motivi di studio); una città che aveva spesso tollerato crimini d’odio. Al contrario, mia moglie, cis-gender, ha speso solo cinque dollari per cambiare il suo cognome quando ci siamo sposati in Oklahoma, e non ha dovuto difendersi in un’udienza o pubblicare un annuncio che spiattellava la nostra vita privata sul giornale.

© Alexander Gonzalez Delgado
Il giudice del mio caso era David E. Woessner. Durante la mia udienza fu abbastanza gentile — ricordo che mi sorrise, guardandomi dal suo seggio attraverso gli occhialetti rotondi — ma due anni dopo, quando gli scrissi per chiedergli di rendere privati gli atti dell’udienza, negò la mia richiesta.
Comunque, il 29 settembre 2017, tutto andò per il verso giusto. I miei genitori e la mia futura moglie mi accompagnarono all’udienza. Da vero quacchero, affermai e non giurai che stavo dicendo la verità: non stavo sfuggendo alla legge e le mie intenzioni erano buone. Il giudice mi chiese perché avessi scelto il nome “Remigius”. Io feci una pausa. Non gli dissi della mia amica di scuola, di Harry Potter e neanche di tutte le difficoltà che comportava essere trans. Non gli dissi del fatto che ogni giorno dovevo provare che meritavo di esistere, ma pensai a mia madre. Mia madre aveva lasciato la sua città natale per un’avventura. E poi aveva deciso di vivere in una terra strana e fredda, lontana dai suoi genitori, per trovare un buon lavoro e sostenere una famiglia. La mia famiglia. Pensai a quanto fosse intelligente, al fatto che era una bravissima insegnante. E al fatto che tutto ciò che voleva fare era sostenermi, anche se non sapeva niente di cosa volesse dire essere trans, e pensai al fatto che per lei il modo migliore per esprimere tutto questo amore era stato raccontarmi di un arcivescovo del quinto secolo che era stato tanto amato e istruito dai suoi genitori.
Alzai lo sguardo sul giudice. «È un nome di famiglia», risposi. «Remigius è un nome di famiglia».
Editing di Aurora Dell’Oro
Il testo originale, in lingua inglese si può leggere in «Word Literature Today» con il titolo Namesake a questo link: https://www.worldliteraturetoday.org/2022/september/namesake-remi-recchia
Remi Recchia è un poeta e saggista trans originario di Kalamazoo, Michigan. Sta per conseguire un dottorato in Inglese e Scrittura creativa presso l’Oklahoma State University. Al momento lavora come assistente editoriale per il «Cimarron Review» e come editor per Gasher Press. Nominato cinque volte per il Pushcart Prize, i lavori di Remi sono stati pubblicati da «World Literature Today», «Best New Poets 2021», «Columbia Online Journal», «Harpur Palate» e «Juked», tra gli altri. Ha conseguito un Master in poesia alla Bowling Green State University. Ha scritto Quicksand/Stargazing (Copper Dillon Books, 2021) e Sober (Red Bird Chapbooks, 2022) e ha curato come editor il volume in uscita Transmasculine Poetics: Filling the Gap in Literature & the Silences Around Us (Sundress Publications).
Remi Recchia is a trans poet and essayist from Kalamazoo, Michigan. He is a PhD candidate in English-Creative Writing at Oklahoma State University. He currently serves as an associate editor for the Cimarron Review and Book Editor for Gasher Press. A five-time Pushcart Prize nominee, Remi’s work has appeared in World Literature Today, Best New Poets 2021, Columbia Online Journal, Harpur Palate, and Juked, among others. He holds an MFA in poetry from Bowling Green State University. Remi is the author of Quicksand/Stargazing (Cooper Dillon Books, 2021) and Sober (Red Bird Chapbooks, 2022) and the editor of Transmasculine Poetics: Filling the Gap in Literature & the Silences Around Us (Sundress Publications, forthcoming).








Osservando la fotografia analogica e istantanea di Alexander Gonzalez Delgado si ha la sensazione di avere accesso al momento esatto in cui i corpi vivono l’apice di una tensione emozionale: l’abbandono al disordine erotico, il grido di rabbia che apre uno scavo nella superficie, il tentativo di rendersi invisibile al mondo, la sovrapposizione (il sogno) di un corpo femminile all’umido della natura a cui tornare. La restituzione tattile e sensuale della materia si fa magnetica nel divenire dell’alterazione dei colori, secondo un contrasto più o meno forte, che sembra promettere passaggi ad altri stati esistenziali, assottigliando sempre di più il labile confine tra rappresentazione e astrazione. I soggetti, spesso colti in una immobilità tensiva, sembrano pretendere uno sguardo irriverente da chi osserva per diventare realmente complici nel trapasso, processo di rilocazione nello spazio delle possibilità e delle scoperte; un’esplorazione che non teme di rivolgersi al principio (ἀρχή) e di addentrarsi in atmosfere fiabesche ricreate dalla presenza ricorrente di animali, spazi acquatici, boschi, specchi, doppi, maschere.
«La Polaroid, come ha già fatto la fotografia, vuole accedere allo statuto artistico ed è un suo diritto: si può fare arte con ogni cosa, pezzi di spago, una mano posata su una parete. Ma la bellezza e la forza di questo materiale non risiedono in questo, bensì nel fatto che si tratta di qualcosa che viene subito rigettato, qualcosa di precipitato e fragile nella sua angosciosa corsa all’immediatezza contro il tempo» [Guibert Hervé, L’immagine fantasma, tr. it. di Matteo Martelli, ContrastoBooks Edizioni, collana Lampi, 2021 (1981), p. 128].
In molti scatti di Delgado si riscontra proprio un’aderenza tra lo strumento usato e il contenuto che, sebbene nell’ambito di un’accurata ricerca compositiva, esprime l’urgenza di imporre allo sguardo un corredo di inquietudini, di strapparlo all’ordinario per iniziare a dirsi delle verità oltre ogni cosciente decifrazione.
Maria Teresa Rovitto
Looking at the analogic and instantaneous photography of Alexander Gonzalez Delgado feels like making contact with the exact moment when the bodies reach the emotional acme: the surrender to the erotic chaos, the scream of rage which excavates the surface, the attempt to become invisible to the word, the juxtaposition (the dream) of a feminine body to the moisture of the earth to which come back. The tactile and sensual feeling of the matter is magnetic as colors are changing, conjuring a contrast now more and then less evident, which seems to promise a journey to other states of being. The border between representation and abstraction is increasingly thin. The subjects, often depicted in an intense stillness, seem to claim a sardonic glance from the observers as to become partners in the trespass, in the process of moving to the space of possibilities and discoveries; an exploration which does not fear to go towards the beginning (ἀρχή) and to go into fairy-tales atmospheres made by the presence of animals, watery places, woods, mirrors, doubles, masks.
«Polaroid, like photography before it, wants to achieve the status of art, and is within its rights in doing so: art can be made from almost anything, pieces of strings, a hand resting on top of a wall. But the beauty and force of this material do not reside here, they reside in the fact that it is something that has been disgorged, something hurried and fragile, and in its anguished race for immediacy, its backing away from time» (Guibert Hervé, Ghost image, translated by Robert Bononno, The University of Chicago Press, Chicago, 1996, pp. 109-110).
In many Delgado’s photos there is an adherence between the tool and the object which, even if in the territory of an accurate compositional research, tells the urgence to impose a disquieting feeling to the gaze. The aim is to push it away from the ordinary as to start telling truths beyond every conscious deciphering.
Maria Teresa Rovitto
Translated by Aurora Dell’Oro
Alexander Gonzalez Delgado. Nato all’Avana, Cuba. Laureato presso la Escuela Nacional de Arte con specializzazione in regia teatrale dopo aver concluso prima un biennio presso la facoltà di Lingua e Letteratura Spagnola. Nel 2000 si trasferisce in Italia e dal 2006 inizia ad avvicinarsi alla fotografia in maniera autodidatta realizzando la sua prima mostra personale Cercando te nello spazio Tadini, a Milano nel 2007. Da lì in poi ha continuato a esporre in mostre sia personali che collettive in diverse città d’Italia così come collaborazioni editoriali con diverse testate europee. Attualmente vive e lavora a Milano.
Alexander Gonzalez Delgado was born in Avana, Cuba. He got his degree from Escuela Nacional de Arte, focusing on theater direction, after having attended two years at the Faculty of Spanish Language and Literature. In 2000 he moved to Italy and in 2006 he took up studying photography on his own. This led him to set up his first personal exhibition Cercando te (Looking for you) in Spazio Tadini, in Milan, in 2007. From that moment on, he has been working on exhibitions, both personal and collective, in various Italian cities and he has been collaborating with a number of European reviews. He is currently based in Milan.