cut up dagli dagli Spiragli di: Clelia Attanasio, Francesco Spiedo, Antonio Esposito, Deborah D’Addetta, Maria Teresa Rovitto
a cura di Fabiana Castellino

© Marcello Chieffi
In allarmata radura è uno spazio vuoto, ma vigile. Accoglie elementi diversi fra loro, affinché il nuovo si generi.
Attraverso la sottrazione delle parti più significative e profonde di alcuni testi già pubblicati, è stato fatto un collage, cambiando l’ordine delle parti, inserendo frasi che facessero da ponte, creando così dal vecchio un nuovo testo. Un mosaico che ha reso irriconoscibili i testi originali, ma dal quale si è generato qualcos’altro. Perché la letteratura non deve fare del vecchio una prigione. La letteratura deve essere un incontro gioioso e vorace del vecchio, una festa essenziale e necessaria in cui il nuovo ride.
Dalla lettura di questo testo prenderà il via la nostra serata napoletana: un’occasione per celebrare l’ingresso nel nostro terzo anno di vita, e per parlare insieme ad alcuni dei nostri autori – Maria Teresa Rovitto, Deborah D’Addetta, Antonio Esposito e Francesco Spiedo – dei germogli che crescono nel fitto del bosco.
Saluto la tua anima consacrata, o amato: a me più che a tutti gli altri si addice chiamarti così. Mi accingo qui a scriverti queste parole, a confessarmi finalmente impostore e ladro del tuo nome. Sì, ho rubato il tuo nome, mi sono preso di te la parte più sacra e sono divenuto un altro. Ogni nascita è un’estirpazione, e io mi sono sottratto da ciò che ero.
Il nome è un prolasso della propria identità nel tempo, un collassare infinito che ingabbia, un’uscita dal canale dell’indefinito, del possibile, per sbarcare nel recinto del linguaggio. Chi sono gli altri? Tutti gli altri sono in attesa.
Li vedo nel tempo che hanno trascinato il peso della carne. Hanno visto con i loro occhi altri corpi ardere e boschi interi accartocciarsi. Hanno provato a non respirare. Ce l’hanno messa tutta. Hanno avuto tanti nemici. In alcuni momenti della vita era sembrato loro di esplodere, di finire così. Invece sono finiti disciolti. Non si racconterà alcuna deflagrazione sul loro conto, solo un lento sciogliersi, un ripiegarsi su sé stessi, senza spostamenti, senza la conquista di altri spazi: occupare solo un punto, e restare lì, nessuno schizzo glorioso di sangue, né segmenti di ossa, ma solo colate di carne come scivoli di lava, di sangue appiccicoso come gelatina. Inglorioso. Morire in un punto. Questo sono gli altri, mio amato: luoghi in cui morire, nomi che si esauriscono.
Da lontano la morte appare come una massa nera indistinta. Da vicino assomiglia a chi la guarda. Su un vecchio manuale di medicina alternativa ho scoperto che al mattino ogni persona è alta circa un centimetro in più che alla sera. Il fenomeno impercettibile sarebbe dovuto al processo di reidratazione dei dischi della colonna vertebrale che avviene durante la notte. Così ogni giorno e ogni sera noi nasciamo e moriamo, i nostri nomi si svuotano, diveniamo altri a noi stessi. Così io, mio amato, ho rubato il tuo nome, per me imperituro, perché almeno una parte di me non muoia mai.
Mio amato, sto scrivendo queste righe su un computer, le trasmetterò via mail, perché tu le legga e capisca che cosa mi è accaduto; voglio ripeterlo perché la potenza del messaggio ti pervada come ha fatto con me.
Quanto ho desiderato la distruzione del tempo e dello spazio, solo tramite le mie parole: un Dio delle piccole cose, tanto mi sentivo. Come se finora avessi fatto solo cose vane. Restare così, in questo tempo e in questo spazio, non mi basta più. Desidero un Nonluogo, uno spazio che non si compie mai totalmente e perciò, smettendo di perseguire lo scopo per cui è stato creato, si lascia invadere dal regno delle ombre in attesa di una nuova identità. Un Nonluogo di mistero e segretezza che sembrano ormai chimere in un mondo, il nostro, dove tutto è svelato, immediato, dove spesso si sente una nostalgia taciuta per ciò che era bello. Un Nonluogo in cui i nomi nostri e di Dio si trovano e si perdono.
Mi sono detto che quell’occasione non andava sprecata, mi sarebbe tornata utile nei giorni in cui mi sentivo morto, una mattina o una sera qualunque.
Mio amato, devo confessarmi ancora. Spesso ho provato paura nell’abbandono. Probabilmente ho timore di ritrovarmi nell’ombra improvvisa. Di sparire, di non rinascere più.
Il vecchio va buttato, il vuoto riempito, il buio sconfitto, le nostre case sono l’emblema della non-accettazione, del rifiuto di ciò che non è perfettamente lindo, candido, riconoscibile. Ma io dico che è doveroso sottolineare che la sporcizia non è il lerciume, ma piuttosto una sorta di strato tangibile che gli oggetti, le persone e i loro nomi, acquisiscono dopo lunghi anni di manipolazione, di uso, e dunque, di vita vissuta.
Ho riletto i libri che abbiamo più amato. Penso a te e al nome che ti ho sottratto. La lettura si consuma con voce e lingua a riposo, così che la comprensione, la divisione, le pause e persino le respirazioni del testo avvengono solo nella mia testa. In qualche modo, infine, è alle pagine che viene affidata la gestione del momento di sospensione: un momento in cui posso rintanarmi nel Nonluogo, nell’oscurità, nei nostri nomi e restituirmi poi al mondo esterno. Fuori da ogni funzione esplicativa.
Viviamo in un mondo che considera l’errore un peccato mortale, ma non è così. L’errore dovrebbe essere considerato non come un difetto, ma come parte di un ragionamento.
L’errore non è soltanto l’incongruenza, ma anche il non vedere le potenzialità stesse della propria creazione. Sbagliare è il primo passo per costruire un mondo nuovo.
Mio amato, ho dovuto eliminare frasi troppo esplicative, non voglio turbarti più del dovuto. E si tratta di gelosia, oltre che di un pizzico di fanatismo. La ricerca dell’errore e delle potenzialità inespresse vanno di pari passo. Nella scrittura, mentre ti scrivo, è più o meno la stessa cosa, l’importante è ricordarsi di cancellare. Così, mio amato, prendi queste parole come meglio credi, pensa pure che sia tutto un errore. Oppure, credi a quanto ti scrivo, a come il nostro nome evolve, allarga i suoi confini; questa lettera è come il mondo dei sogni che a furia di dormici sopra straborda.
Il doppio ha radici profonde: apre alla riflessione sulla bipolarità, gli opposti, le nature contrastanti: la scissione viene utilizzata come motivo d’indagine filosofica e così viene trattata fino alla risoluzione. E alla fine: punto. Il nome è un punto fra me e te. Se però il punto si pone tra i due soggetti, la transizione è fluida, c’è un interscambio, un passaggio: assistiamo a una pausa e le pause sono sospensioni in cui inserire ulteriori riflessioni – concrete o sublimate – così che l’indagine in una storia di doppi non proceda più per opposizioni, ma segua nuove connessioni. E così io divengo te. Ti immagino, mio amato, mentre leggi le mie righe, lo schermo ti illumina i lineamenti bianchi, hai domande a cui io non posso rispondere. Tutto ti sembrerà contorto, inutilmente complicato, ma non è così. Devi solo sforzati, ti prego, di cogliere il peso delle mie parole.
Prendiamo la differenza tra complesso e complicato. Non sono sinonimi: complicato è un problema di cui sono certo esista una soluzione. Ma non so come arrivarci. La complicazione sta nel trovare il procedimento per raggiungere quella soluzione. Complesso è invece un problema di cui non sono certo esista una soluzione.
So che aver rubato il tuo nome ha decretato la fine di una parte di te, al prezzo della mia rinascita. Non rimpiangere i tempi in cui eravamo solo legati da amore. La bellezza del passato, di ciò che è stato, si lega alla fumosità del tempo, all’offuscamento della memoria che dona ricordi e ne nasconde altri.
Ti saluto, mio amato. Ho scritto fin troppo, altro non so dire.
Una prece per te,
XXX
Qui di seguito il link agli Spiragli originali: