di Francesco Spiedo

Se l’esperienza del fare matematica è spesso rappresentata dall’oscillazione tra l’ispirazione mistica dell’eureka e la freddezza del calcolo del computer, per me rappresenta, invece, la possibilità di restare innamorato.
EDWARD FRENKEL
Leggendo la biografia di Evariste Galois è possibile riscontrare gli elementi di una vera e propria narrazione: genialità, sfortuna, scontro sociale, romanticismo, morte precoce. Poco più che adolescente Evariste risolse un problema matematico vecchio di quasi 400 anni e lo fece per ben due volte e per ben due volte gli appunti inviati a grandi matematici, Cauchy prima e Fourier poi, andarono persi. Ma il giovane Evariste non si diede per vinto e, dopo essersi fatto arrestare per un piccolo problema legale – siamo nella Francia rivoluzionaria – spedì per la terza volta i suoi appunti a un altro genio dell’epoca: Poisson. Peccato che secondo Poisson l’esposizione del giovane fosse poco chiara e i suoi risultati di difficile comprensione. La notte prima di morire, Evariste riscrisse buona parte delle sue dimostrazioni, lasciandone molte in sospeso e aggiungendo più volte la dicitura non ho tempo. Era certo di morire? Fortunatamente quasi vent’anni dopo quella notte, Liouville posò gli occhi su quei fogli, ne colse il valore matematico, ci passò un bel po’ di tempo sopra e poi li pubblicò consacrando il genio di Galois – capace di risolvere ancora prima di Abel il problema delle condizioni necessarie e sufficienti per le soluzioni di un’equazione, che oggi sappiamo essere una, nessuna o infinite.
La storia sarebbe sufficientemente narrativa senza dover aggiungere che la sua infanzia fu sconvolta dalla morte prematura del padre, dalle difficoltà economiche e da numerose bocciature scolastiche. Sufficientemente narrativa senza dover aggiungere che la morte a soli 20 anni non fu un incidente, né una conseguenza del suo spirito rivoluzionario, quanto frutto di un duello perso per amore. Un duello che potrebbe essere uscito dalla penna di Conrad, invece accadde sul serio all’alba del 30 maggio 1832, quando un proiettile bucò l’addome di Evariste. Morto per amore di Stéphanie, confidò al fratello di aver bisogno di tutto il suo coraggio per morire a vent’anni. Questa è una storia come Dio comanda.
La carica narrativa della matematica, e dei matematici, non esclude la capacità narrativa della matematica. Contare e scrivere, due mondi che apparentemente non hanno niente in comune; invece vorrei provare a sottolineare quanto siano simili. Il nostro mondo si regge sulla comunicazione matematica. Siamo circondati da numeri e con i numeri abbiamo spiegato, compreso e interpretato il mondo. Sto scrivendo queste righe su un computer, le trasmetterò via mail e verranno lette su un sito web. La programmazione di un software si basa su linguaggi matematici. Senza matematica niente Youtube, TikTok, Fortnite e Fifa 2021, niente Facebook, niente piattaforma Rosseau e niente Tinder. Ma procediamo con calma e affrontiamo un argomento essenziale che lega matematica e narrazione. L’errore.

Spesso la matematica appare come qualcosa di statico, certo, infallibile. Si trovano nei libri i teoremi, le formule, e non ci sono tracce dei tentativi falliti che hanno portato a quelle leggi. Si crede che la matematica sia eterna, ma in realtà è vera fino a prova contraria, anzi lo scopo di molti matematici che fanno ricerca è proprio trovare questi errori e spingerci verso una matematica sempre più precisa. Perché la matematica non nasce come imposizione divina, non esiste a priori, deve essere creata,e non per miracolo, ma per tentativo. Eppure sbagliare in matematica è un pensiero che affligge molti e che poi ci spinge a definirci incapaci, non portati per la matematica. Leonardo da Vinci non sapeva svolgere le frazioni. Le frazioni, esatto, e ci sono le prove. Questo significa che fosse stupido? No. Significa che non fosse un genio? No. Non cambia nulla della nostra idea di Da Vinci. Com’è che si dice? Sbagliando si impara. L’errore dovrebbe essere considerato non come un difetto, ma come parte di un ragionamento. Così quando si scrive e si lavora a un libro spesso si crede che il romanzo finito sia perfetto – almeno nella forma, senza errori. O almeno questo è quello che crede un lettore che si ritrova a leggere l’ultima versione, vista e rivista da almeno tre o quattro persone, sulla quale si è lavorato per migliaia di ore. Dovreste dare uno sguardo alle bozze, alle fasi intermedie che portano al libro così come lo trovate in libreria. Sbagliare, fa parte del percorso. In matematica e nella scrittura. Viviamo in un mondo che considera l’errore un peccato mortale, ma non è così. Sbagliare è il primo passo per costruire un mondo nuovo, con la matematica, con le parole. Quando si prova a risolvere un problema matematico non esiste quasi mai un solo procedimento, un solo approccio, è possibile giungere allo stesso risultato attraversando strade diverse: così quando si scrive non esiste un solo modo di raccontare una storia.

L’editing, benedetto editing, se non è propriamente parte del processo creativo è comunque un elemento del processo quanto mai necessario. L’editing, da non confondere con la semplice correzione di bozze, è simmetrico alla revisione che i matematici impongono alle speculazioni dei colleghi. Bisogna controllare che tutto sia al suo posto. Così come nelle teorie nulla deve essere lasciato al caso, così come nei teoremi non vi devono essere contraddizioni e nulla deve essere fraintendibile, lo stesso quando si scrive una storia. L’editing mette in discussione, evidenzia possibili errori, controsensi e dimenticanze, per consegnare il testo finale nella sua forma più conclusa e coerente possibile, al netto delle conoscenze scientifiche del momento – capita che le storie vengano superate, così come superate diventano le teorie. Passo per un momento a raccontare una storia in prima persona, non per manie di protagonismo, ma perché nel processo di editing che ho affrontato con il romanzo (Stiamo abbastanza bene, Fandango, 2020) ci sono state delle incongruenze di tipo numerico: conti che non tornavano, cifre che disturbavano l’attendibilità della storia. Il lettore deve credere e per farlo, non deve vedere crepe: tutto deve tornare, e l’editing è essenziale. Lo è perché non soltanto ti fa rimediare all’errore, ma ti lancia spesso delle sfide: i numeri, una volta corretti, mi hanno permesso di aggiungere altro sotto testo alla storia, creare altre coincidenze. Oppure mi è stato fatto notare che la madre del protagonista veniva nominata solo una volta, ma non dal protagonista: questa evidenza mi ha fatto comprendere che volevo raccontare anche un’altra cosa, rendere quella figura quanto più universale possibile. Madre e basta. Oppure, in alcuni racconti apparsi su rivista, è stato interessante accorgermi che nelle storie cercavo finali inequivocabili, – morte, principalmente – ma attraverso storie inattendibili: ho dovuto eliminare frasi troppo esplicative, elementi che potevano portare il lettore da un’altra parte. Allontanarli dal senso – e dal sentimento – che stavo elaborando e costruendo. L’errore non è soltanto l’incongruenza, ma anche il non vedere le potenzialità stesse della propria creazione. Chi utilizzava le microonde dei radar non aveva idea che sarebbe stato possibile utilizzarle per cucinare, finché Spencer nel 1944 non si accorse che la barretta di cioccolato nella sua tasca si era sciolta. Lo stesso Einstein, quando scrisse E=mc² nell’ambito della sua ricerca sulla relatività, non sapeva che avrebbe portato alla bomba atomica. La ricerca dell’errore e delle potenzialità inespresse vanno di pari passo. Nella scrittura è più o meno la stessa cosa, l’importante è ricordarsi di cancellare.
La matematica, più di altre scienze, si basa fortemente sull’astrazione: infatti se è vero che le prime operazioni possono essere replicate nel mondo degli oggetti, appena spostiamo il confine più avanti ci ritroviamo a parlare di cose di cui non possiamo avere esperienza se non nella nostra mente. E scrivere una storia cos’è se non lavorare di astrazione con personaggi, eventi, luoghi che non esistono se non nella mente dello scrittore e poi, solo successivamente, sulla pagina? Astrarre è il primo passaggio per qualsiasi creazione e in matematica, a meno di formule, figure e segni tutto resta astratto: si crea un mondo, con leggi proprie, che non si può toccare con mano. Un romanzo ragiona alla stessa maniera. Persino storie che ripercorrono fatti realmente accaduti richiedono da parte del lettore uno sforzo di astrazione: determinati luoghi potresti non conoscerli, determinate abitudini potresti non condividerle, di certi odori, suoni, volti, mai averne fatta esperienza. Anche quando leggi una storia stai immaginando un mondo e per farlo tu e lo scrittore state condividendo un linguaggio; con la matematica è la stessa cosa. Per capirsi è importante condividere la stessa lingua, che è fatta di teoremi, leggi, assiomi. Il matematichese è universale. “La casa è bianca” si traduce la maison est blanche, oppure the house is white, mentre 1+1=2 resta 1+1=2 in ogni lingua, per un italiano, un francese o un inglese. Ma cosa si fa quando si seguono delle regole? Le premesse, gli assiomi, sono leggi originarie grazie alle quali puoi giungere ovunque, anche a idee folli e assurde (Terra piatta, vi dice qualcosa?). Immaginare, come ha fatto Euclide con la geometria, gli elementi di un mondo e dedurlo.
Ogni scrittore può raccontare storie diverse partendo dalla stessa vicenda, ogni matematico può risolvere un problema in modo diverso partendo dalle stesse ipotesi. Si tende a pensare a passaggi obbligati, quando in realtà è creatività. Non si fa altro che superare i propri limiti, si cerca il controllo, la capacità di influenzare e plasmare la realtà. Il più delle volte è un modo di interpretare ciò che c’è fuori, ma spesso diventa un’alternativa a ciò che abbiamo dentro: il matematico cerca se stesso in un’infinità di segni, simboli e convenzioni. È un paradosso, andare fuori per guardarsi dentro, che è ben rappresentato dalla teoria della relatività di Albert Einstein. Ha dimostrato che non esiste un corpo di riferimento assoluto e fisso rispetto al resto dello spazio, ma che tutti, dalla loro prospettiva,possono guardare alle cose senza errore: in altri termini, Einstein ha messo l’io al centro del processo matematico scientifico, nobilitando e riabilitando l’osservazione soggettiva e chiamandola relativa. Lo scrittoreprova a mettere ordine a un mondo che ha in testa e cerca di consegnarlo al lettore. Si mette al centro di una storia, poi si sposta e lascia posto a chi legge. Forse un caso, ma spesso se un libro non riesce a coinvolgerci diciamo che non ci è piaciuto, o meglio che non l’abbiamo capito, proprio come succede con la matematica. Non ci piace, anzi non la capiamo. Questo perché non condividiamo le regole del linguaggio: lo scrittore può non essere stato abbastanza chiaro, può non averci dato sufficienti elementi per leggere tra le righe, mentre la matematica a volte ci sfugge perché ci viene insegnata male. Ma non male da un insegnante, è l’impostazione didattica che spesso esclude e fa sentire stupido chi non è un genio. In realtà tutti possono aprire la porta della matematica.

Negli ultimi decenni si è accentuata la tendenza ad annullare la distanza tra scienze dure e scienze morbide. Si è cercato un linguaggio comune. Prendiamo la storia dell’enigma di Fermat, datato 1637 e risolto soltanto nel 1994 dal professor Andrew Wiles. Fermat andò all’altro mondo lasciando moltissimi appunti e teoremi, uno di questi era privo di dimostrazione e prese quindi il nome di enigma: mentre il quadrato di un numero intero può essere scomposto nella somma dei quadrati di altri due numeri, vedi il teorema di Pitagora, ciò non è possibile per il cubo e per tutte le potenze superiori a due. E quindi? Per chi non è pratico di matematica, niente, non è certo la soluzione del teorema a essere narrativamente interessante. Quel burlone di Fermat lasciò una piccola nota riguardante il suo teorema, ovvero che possedeva una dimostrazione brillante ma che questa non poteva rientrare nel margine della pagina e che quindi non l’avrebbe riportata. Pare il gioco di un giallista. Nei secoli qualcuno provò a risolvere il mistero: Eulero dimostrò il teorema per n=3, Legendre per n= 5 e Sophie Germain, tentando di risolverlo, inventò dei nuovi numeri chiamati numeri primi di Sophie Germain. Arriviamo poi al 1993 e a Wiles che lavorò per sette anni alla soluzione e scrisse ben duecento pagine di dimostrazione. Duecento pagine che sollevarono un polverone incredibile: commenti indignati, gogna mediatica, sfilza di correzioni e la messa in evidenza di un passaggio che proprio non poteva tornare. Wiles si trovava a un passo dalla soluzione, ma non ottenne il supporto del mondo matematico: i matematici non sono tutta ragione, qualche volta il sentimento prevale. E in quel caso si trattava di gelosia, oltre un pizzico di fanatismo. Wiles infatti non aveva inviato la sua soluzione alle riviste specializzate, ma decise di discuterne in un congresso pubblico in modo che la paternità della scoperta non gli fosse sottratta. Dopo quell’evento si rese conto – anzi, gli fecero notare – che nel suo grande lavoro c’era tutto, tranne un dettaglio fondamentale. Wiles si era sbagliato e dovette impiegare ancora un anno di ricerca, lasciandosi aiutare, per trovare una soluzione che venisse accettata in assenza di prove contrarie. Eppure, a distanza di quattro secoli, non si ha ancora la certezza di quale fosse la dimostrazione brillante di cui parlava Fermat. La soluzione di Wiles, complicata e articolatissima, non preclude l’esistenza di una soluzione più semplice; anzi questo è un principio non scritto della matematica: la soluzione più complicata non è necessariamente migliore né tanto meno l’unica.
Non si può trascurare poi una certa fascinazione per la narrazione matematica, che include anche il campo della statistica, la speculazione fisica e filosofica; basti pensare a romanzi come L’uomo dei dadi, testi come quelli di Rovelli, partite a poker notturne e serie tv come La regina degli scacchi.Il matematico sfida l’infinito dell’universo, e crea. Non soltanto con le cifre, ma anche e soprattutto con le parole. Prendiamo la differenza tra complesso e complicato. Non sono sinonimi: complicato è un problema di cui sono certo esista una soluzione. Ma non so come arrivarci. La complicazione sta nel trovare il procedimento per raggiungere quella soluzione. Complesso è invece un problema di cui non sono certo esista una soluzione. Tutto questo per arrivare a Calvino e Carroll.
Nato e cresciuto in una famiglia di biologi, Calvino si è sempre nutrito di matematica nella stesura dei suoi scritti. Due esempi: “Lezioni americane” e “Le città invisibili”. Nelle “Lezioni”, un volume che racchiude gli interventi che avrebbe dovuto svolgere all’università di Harvard, lo scrittore racconta la sua predilezione per il racconto breve, la sua idea di scrittura come strumento di controllo. E lo fa intitolando i sei interventi a concetti molto vicini alla matematica: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Anche nella raccolta “Le città invisibili” Calvino utilizza una struttura molto articolata, frutto di un lavoro di logica, di gruppi e sottogruppi che si ripetono, con dei richiami interni tipici di una scrittura che oltre a raccontare una storia, organizza una struttura. Lasciamo l’Italia e raggiungiamo Carroll, famosissimo per il suo “Alice nel Paese delle Meraviglie”. L’autore era noto per essere un matematicoe per i giochi di logica che pubblicava su rivista e con i quali intratteneva i suoi ospiti. E infatti il suo capolavoro letterario ne è pieno. “Alice nel Paese delle Meraviglie” è un grande, immenso, indovinello. La corsa della Regina Rossa, il rompicapo della scimmietta, l’uomo del calendario e la rosa da dipingere ne sono un esempio. Anche lo Stregatto è un paradosso fisico, un gatto invisibile. Alice è il mondo dell’immaginazione, ma esistono anche i numeri immaginari. Sono nati con lo scopo di trovare il risultato alla radice quadrata di un numero negativo e sono legati ai numeri complessi -ecco che torna la parola complessità. Numeri immaginari e numeri complessi per dare un risultato a qualcosa che fino ad allora non esisteva perché non era concepito. La realtà, anche quella matematica, va prima di tutto pensata.
La matematica evolve, allarga i suoi confini, è come il mondo dei sogni che a furia di dormici sopra straborda.
Se le persone credono che la matematica non sia semplice, è soltanto perché non si rendono conto di quanto la vita sia complicata.
JOHN VON NEUMANN
Francesco Spiedo (1992) è ingegnere ambientale e promotore culturale. Dopo aver completato gli studi scientifici, ha frequentato un master in scrittura creativa alla Belleville di Milano iniziando a collaborare con una società di ghostwriting. Ha curato una raccolta di racconti, Non ci resta che scrivere (Bottega delle Parole, 2018), e alcuni suoi testi si trovano online (Narrandom, Tuffi, Crapula, Verde, Grado Zero et al.). Stiamo abbastanza bene (Fandango, 2020) è il suo primo romanzo. Collabora con minima&moralia e con Ludicamag, scrivendo di libri e videogames.




Circuito elettrico; piano regolatore; monolite che lievita nel bianco oppure complicato rompicapo. Nelle illustrazioni di Alessandro Luporino l’architettura perde di scala: liberata dal vincolo delle dimensioni, ci consegna solo l’enigma.
Anche quando viene nominata attraverso l’uso del linguaggio specifico, come nel ciclo del “Dizionario illustrato di architettura”, in cui le immagini sono accompagnate da una didascalia (tatami, taruki, tamburo; tabernacolo, sudarium, staffelgiebel…) è la parola a perdere significato per trasformarsi in password. Un codice alfabetico che non rivela nulla se non se stesso, dove le lettere tornano a essere simbolo di diretta derivazione geroglifica.
Il riferimento a M.C. Escher appare, invece, nella costruzione geometrica distorta, pre-brunelleschiana anche quando fa uso corretto della prospettiva, e nella sfida a trovare una soluzione che non c’è. Attraverso un segno grafico di riferimento antico – egiziano o addirittura preistorico – e l’utilizzo del bronzo, del dorato e dell’argento, come in un manoscritto miniato, Luporino mette in scena dei bonsai, minuscoli universi Zen, da contemplare senza fretta, sui quali tornare per il solo gusto di perdercisi dentro.
Alessandro Luporino (1992) ha studiato alla Facoltà di Architettura di Napoli Federico II dove si è laureato nel 2018. Nello stesso anno si è trasferito a Rotterdam, dove attualmente vive e lavora come architetto presso lo studio internazionale Mecanoo Architecten. Dal 2016 porta avanti una ricerca incentrata sul Disegno e l’Architettura, condensata nel progetto Q_set, pubblicato su diverse riviste online di architettura e illustrazione (Archdaily, Divisare, Library Illustration, TheArchiologist, Professione Architetto, Artwort etc…) e sulla propria pagina/blog Instagram.
Articoli correlati:
La possibilità di restare innamorato – la matematica come forma di narrazione. Ipertesto.
2 Comments