I baci non dati: la rappresentazione del desiderio come vuoto da Canova a Lynch

di Livia Del Gaudio e Aurora Dell’Oro

© Alessio Urso

Come una dolce mela diventa rossa su un alto ramo,

alta sul ramo più alto e i raccoglitori di mele se ne dimenticarono –

be’, no, non si dimenticarono – non furono in grado di raggiungerla.

SAFFO

Durante i primi giorni dell’anno 1787 – le fonti non riportano la data – viene recapitata una lettera presso lo studio romano di Antonio Canova. È di John Campbell, quinto Duca di Argyll: un ufficiale scozzese da poco promosso generale. Oltre alle credenziali di pagamento e a un primo acconto per l’acquisto del marmo, contiene precise indicazioni. Il gruppo scultoreo da lui commissionato dovrà rappresentare «Amore e Psiche che si abbracciano: momento di azione cavato dalla favola dell’Asino d’oro di Apuleio.»

Il pomeriggio del 30 maggio dello stesso anno, Canova inizia a lavorare sul “modello grande”, il prototipo in creta dal quale i suoi aiutanti ricaveranno poi il calco in gesso da riprodurre in marmo.

Nonostante l’entusiasmo iniziale, il gruppo di Amore e Psiche viene ultimato solo nel 1793 e venduto nel 1800, non a Campbell, che nel frattempo ha dilapidato il patrimonio e non è in grado di sostenere le spese di trasporto, ma a un altro generale, questa volta di Napoleone, un certo Gioacchino Murat che lo acquista per l’incredibile somma di duemila zecchini.

L’attesa di un compratore ha giovato all’opera.

È sola nelle stanze private del maestro, ed è diventata oggetto di contesa: nata per incarnare il desiderio, si è trasformata nell’opera più ambita dalla nuova aristocrazia europea.

Chi l’ha vista parla di un bacio.

Di braccia che sfumano l’una nell’altra e di un incarnato color cipria che emerge dalla pietra. Si dice che Canova sia riuscito a dare forma all’idea di amore semplicemente mettendo accanto due corpi.

È ironico che quello che è destinato a diventare il bacio più famoso della storia dell’arte, in realtà non sia un bacio.

© Alessio Urso

In un testo nato come tesi di dottorato, e tradotto in italiano con il titolo Eros il dolceamaro1 Anne Carson parla del desiderio come di una tensione mai soddisfatta. «Ciò che è conosciuto, raggiunto, posseduto,» scrive «non può essere oggetto di desiderio»2; e ancora: «[l’attività di conoscere e desiderare] hanno al loro centro la stessa delizia, quella di protendersi, e comportano la stessa sofferenza, quella di non essere all’altezza o di essere manchevoli.»3

Eros il dolceamaro è un libro misterioso: appartiene al genere saggistico senza averne davvero le caratteristiche. Carson, che è una poetessa, parla di Eros senza sostenere alcuna tesi. Tra le sue pagine il discorso si apre a molteplici divagazioni – dalla linguistica alla filosofia; dai lirici greci alla pittura di Velázquez – a scapito della coesione testuale. Un bosco fatto di allusioni, metafore, frammenti poetici che ha un unico scopo: invitare il lettore a ricomporre un’immagine. Un’immagine che ha molto in comune con quella messa a punto da Canova in Amore e Psiche.

Già la scelta iconografica suggerisce che il gruppo scultoreo è un’eccezione nella produzione dell’artista. Contrariamente ai dettami neoclassici, che prediligono l’atarassia al pathos, il momento congelato è quello della disperazione. L’abbraccio tra i due amanti non è un abbraccio qualunque: si colloca sul finale della favola narrata da Apuleio, nell’istante in cui Psiche giace morta tra le braccia di Amore e ancora non è certo che un suo bacio potrà salvarla.

Per comprendere lo schema compositivo bisogna osservare l’opera frontalmente, in prospettiva centrale. Alla base del gruppo scultoreo c’è una X che si concretizza nelle ali del dio e nella gamba destra di entrambi i soggetti, quella di amore tesa di lato, quella di Psiche abbandonata distesa. Dove queste linee di forza si incrociano, ovvero tra i volti dei due amanti, si trova il punto focale dell’opera.

Un punto che in realtà non esiste, dal momento che tra le labbra di Amore e Psiche non c’è contatto.

Per Canova, come per Carson, il desiderio rifugge il controllo, la quiete del punto: la sua natura lo spinge alla fuga. La tensione del desiderante va nella direzione dell’appagamento, a cui tuttavia non si può giungere senza lasciare andare il desiderio stesso; da qui il bisogno di procrastinare all’infinito; di visualizzare il desiderio come un vuoto. Per Carson un vuoto di senso; per Canova un vuoto compositivo, quello contenuto nella distanza tra le labbra di Amore e Psiche.

Se l’opera di Canova arriva fin qui, nella perfezione di un’attesa congelata nel marmo, il testo di Carson si spinge oltre. Una volta visualizzato il desiderio come mancanza, la poetessa porta il paradosso al suo limite estremo: «[…] Eros ha qualcosa di paradossale al centro del suo potere, nel punto esatto dove l’amaro intercetta il dolce. […] Qualcosa di paradossale blocca l’amante. L’intercettazione avviene in un punto di discontinuità tra il reale e il possibile, un punto cieco in cui la realtà di ciò che siamo scompare dentro la possibilità di ciò che potremmo essere, se fossimo diversi da ciò che siamo. Ma non lo siamo.»4 L’Altro, il desiderato, riflette il nostro io potenziale; la vista dell’Altro è insieme gioia e nostalgia.

© Alessio Urso

Per capire il paradosso di cui parla Carson, ci viene in soccorso il cinema.

Strade perdute è uno dei film più conosciuti di David Lynch. Uscito nel 1997, racconta la storia di un sassofonista, Fred Madison, arrestato per l’omicidio della moglie Renèe che all’improvviso si risveglia nei panni di un uomo, Pete, un giovane meccanico al soldo della malavita che intrattiene una relazione clandestina con la compagna del boss, Alice, straordinariamente simile alla moglie di Fred. A prescindere dalle numerose interpretazioni che sono state date alla storia, quello che qui ci interessa è come il regista ne ha concepito la struttura. A rivelarlo è lo stesso Lynch, grazie a un espediente. In una delle scene finali, proprio all’apice dell’incontro sessuale con Pete, mentre lui la desidera con una forza mai provata prima, fa dire a Alice: «Tu non mi avrai mai.»

La dichiarazione va presa alla lettera.

Non è una metafora o una coloritura caratteriale del personaggio, ma il rivelarsi dello schema che soggiace alla trama del film: quella che abbiamo davanti non è una pellicola di 135 minuti, ma una struttura geometrica non euclidea nota come nastro di Möbius, per sua natura infinita. Due entità che percorrono il nastro di Möbius partendo da due punti differenti non si possono incontrare, è geometricamente impossibile. Dunque Alice non sta dichiarando altro che la verità dell’universo in cui è rinchiusa: tra lei e Pete, come tra Renèe e Fred, non esiste possibilità di contatto.

Come per Carson e Canova, anche per Lynch il desiderio può continuare a esistere solo dentro un anello dove è impossibile incontrarsi. 

In psicologia, questo effetto (o almeno un effetto che potremmo paragonare a questo) è noto come effetto Zeigarnik. Scoperto dalla psicologa lituana Bluma Zeigarnik, è in grado di spiegare come alcune cose, o persone, si fissano in maniera ripetitiva dentro di noi: quando un compito non viene portato a termine, si crea uno stato mentale di tensione che impedisce alla mente di iniziarne un altro da zero. E così il non compiuto spinge a un eterno ritorno: gli stessi schemi si ripresentano più e più volte, e ci illudono di essere nuovi cicli grazie a minime variazioni che spesso appaiono, per errore, sostanziali. L’eterno ritorno del medesimo desiderio: l’eros dai mille volti.

© Alessio Urso

Ed è qui che il nostro discorso torna a Canova.

Di Amore e Psiche esistono due copie realizzate in successione; la seconda, che oggi si trova all’Ermitage di San Pietroburgo, iniziata quando la prima era ancora da ultimare. Non si tratta di due versioni differenti dello stesso soggetto, ma di due calchi perfetti. Dietro la scelta c’è una motivazione di tipo economico – la bottega di Campo Marzio è stata la prima a intuire che l’arte stava diventando un prodotto di consumo di tipo borghese, il cui valore aumenta con la sua riproducibilità – ma non solo. Canova, più di ogni altro neoclassico, è colui che fa della copia un sistema estetico coerente e riconoscibile; un sistema in cui la copia diventa un mezzo di propagazione, ma anche l’espediente per un gioco di specchi in cui l’originale occupa un centro elusivo: quello, appunto, del desiderio intatto.

Copia e nastro di Möbius hanno molto in comune. Nessuno dei due è un uroboro, una ruota dell’eterno ritorno. Il nastro, come la copia, si piega, e nel suo piegarsi mostra qualcosa del reale che la geometria euclidea non può mostrare: l’inevitabile differenza che impedisce l’identità perfetta tra copia e originale. È dentro questo spazio che si ha il superamento del desiderio; ovvero, il suo – momentaneo – appagamento. Così, l’analogia tra l’idea e la sua incarnazione – «le persone che noi amiamo non sono mai esattamente come le desideriamo. […] Eros risiede nel mezzo.»5 – è sufficiente per tenerci vivi. 

Nastro e copia hanno ancora qualcosa da insegnarci. Rappresentano una frattura del reale: all’interno di questa frattura una cosa è se stessa e anche il suo contrario. Così i malati di desiderio aspirano al contatto, eppure lo rifuggono, o lo rifiutano, accettando solo ciò che mai avrebbero desiderato. Temono, e a ragione, che una loro vittoria – raggiungere il desiderato – equivarrebbe a una piccola morte, per la quale occorre forse molta disciplina, o molta avventatezza. Rimangono nel vuoto dell’attesa che si autoalimenta, perché qui il tempo non scorre. Immobile, lo sguardo che veglia rinvia il momento dell’azione. Rifiutano di perdere la vista che li fa, dolcemente, soffrire. Come se, solo nella sospensione, potessero dirsi veramente presenti a sé stessi.

Al contrario, gli amanti sono come cercatori d’oro: raccolgono, per custodirli, frammenti dell’Amato, dell’originale, accettando il fatto che solo alla copia è dato avvicinarsi. In questo piccolo tradimento si conferma l’unica possibilità di essere del desiderio; nel consapevole smarrirsi dello sguardo si scopre che solo così si riesce a stare in un tempo che scorre, ma che in realtà è sempre stato.

Eros è un’esperienza composta, sia γλυκύ che πικρον:

Saffo apre con una dolce mela

e finisce con una fame infinita6.

1 Anne Carson, Eros il dolceamaro, Utopia Editore, Milano, 2021
2 Ivi, p. 84
3 Ivi, p. 90
4 Ivi, p. 94
5 Ivi, p. 131
6 Ivi, p. 45

«Potrei tornare domani alla stessa ora se lo scirocco continuasse a soffiare. Di certo qualcuno si rotolerebbe ancora in queste onde, l’intensità luminosa sarebbe la stessa, ma so bene che il quadro è perso, e che non potrò più ritrovare la stessa emozione. Anche se non dispero che i quattro ragazzi possano ripresentarsi domani esattamente simili per prestare le loro figure al mio desiderio di catturarli (ma certo ne dubito), posso immaginare che questa visione ricomposta non si risveglierà più in me nella stessa maniera, né con altrettanta forza, perché avrà avuto il tempo di fare il suo cammino nella mia testa, di cristallizzarvisi in un’immagine perfetta. L’astrazione fotografica si sarà allora già realizzata da sola, sulla lastra sensibile della memoria, poi sviluppata e rivelata dalla scrittura, che del resto non ho cominciato che per disfarmi del mio rimorso fotografico […] Ma l’atto fotografico avrebbe così annullato ogni ricordo dell’emozione, perché la fotografia è una pratica inglobante e smemorata, mentre la scrittura, che essa non può che bloccare, è una pratica malinconica.»1

Questo testo, parte della raccolta L’immagine fantasma di Hervé Guibert, è il frutto di un regret photographique, dunque, nella versione in lingua francese2, più un rimpianto che un rimorso, in verità, più un dispiacere, un tormento per un’occasione persa che per un errore commesso, un comportamento messo in atto; in questo caso il dispiacere di non aver portato con sé la macchina fotografica. 

In assenza di uno scatto fotografico, Guibert cerca di fissare con la parola l’esperienza primaria vissuta. Sia nella scrittura che nella scrittura di luce, in fondo, c’è una postura, un atteggiamento malinconico che lavora sulla perdita. Fermare attimi fugaci (nella forma di esperienze, visioni, pensieri, associazioni) con l’ambizione (illusione) alla permanenza. La spiaggia dell’Isola d’Elba con i quattro ragazzi, visti dallo scrittore quel giorno, è una sagoma vuota da riempire. 

Qui la cosa che la parola cerca di fissare è una foto mancante, una foto persa, sublimando l’impossibilità di possedere la visione fotografica dell’immagine. Ma l’intero processo è attivato da un’assenza originaria materica, reale, quella della macchina fotografica che Guibert ha dimenticato di portare con sé.  Egli non può mettere a confronto l’immagine interiore di quel momento con l’immagine impressa, questa possibilità è persa per sempre. Si apre un doloroso confronto con l’irreversibilità. 

In uno scatto mancato l’essenza del vuoto si fa più evidente; il vuoto con il suo carattere modellabile, l’assenza che diventa campo attivo, sorgente di nuove forme espressive, movimento che nel componimento è ben in mostra nel rapporto tra parola e immagine. Forse non è un caso che tra tutti i testi lo scrittore decida di intitolare L’immagine perfetta proprio questo.

«L’essenza dell’immagine è di essere tutta esteriore, senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea dell’interiorità; di essere senza significato, pur evocando la profondità di ogni possibile senso; non rivelata e tuttavia manifesta, possedendo quella presenza-assenza che costituisce la seduzione e il fascino delle Sirene»3

Il paesaggio marino, soggetto de L’immagine perfetta, lo stesso che Blanchot richiama nella mitologica creatura acquatica per parlare di presenza-assenza, è anche al centro del lavoro dell’artista Alessio Urso che, agendo su tempi e diaframmi, elementi caratteristici dell’analogico, lavora sullo sfasamento continuo dei piani spaziali e temporali, spesso attraverso la scelta compositiva della sovrapposizione che restituisce vividamente il desiderio di rievocare più momenti possibili persi nel flusso della distanza. In questo gioco si crea uno spazio-tempo alternativo, come esposto a una volontà narrativa di tipo orizzontale che, nelle tonalità opache e nelle sfocature, prolunga la sottile dispersione della realtà.   

Maria Teresa Rovitto

1 Hervé Guibert, L’immagine fantasma, tr. it. di Matteo Martelli, ContrastoBooks Edizioni, collana Lampi, 2021(1981), pp. 30-31 
2 Hervé Guibert, Les Éditions de Minuit, Paris, 1981 
3 Citato da Roland Barthes in La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr, it. di Renzo Guidieri, Einaudi, 2003 (1980)

Alessio Urso, nato a Catania nel 1996, è laureato magistrale in Filosofia della cura presso l’università di Verona.  La sua ricerca si concentra particolarmente su questioni etiche e morali legate alla salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, alla differenza culturale e di genere, esplorando diversi approcci interpretativi. L’interesse per la filosofia è stato preceduto e accompagnato dalla passione per la fotografia analogica. Quello per la pellicola è un amore ben preciso, infatti Alessio ha sempre e solo scattato in analogico, imparando da autodidatta in quel processo senza fine che è l’apprendimento. Sin dai primi rullini, Alessio è stato particolarmente affascinato dalla possibilità di sperimentare, specialmente attraverso l’esposizione multipla, nella quale ha trovato un metodo che permette di  praticare la nozione di performatività mettendo in atto un processo di diffrazione, cioè  la possibilità di riscrivere le storie, comporre qualcosa di inesplorato.

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