La strada non presa

di Veronica Galletta

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla @unite_azioneletteraria #unite #rompiamoilsilenzio

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro

Da qualche tempo studio la figura di Rachel Carson. Ascolto la sua vita, leggo il carteggio con Dorothy Freeman, mi commuovo per la donna e l’intellettuale, i suoi disegni di animali da bambina, il racconto pubblicato a soli dieci anni, A battle in the clouds. E poi ancora l’amore per la letteratura, la biologia, le difficoltà economiche, i lavori pay the bill. Le prime opere dedicate al mare, fino alla lettera che Olga Owens Huckins, ornitologa e giornalista, inviò al Boston Herald e in copia a lei, nel gennaio del 1958, in cui denunciava la morte degli uccelli nella sua zona, dopo che l’area era stata spruzzata con il DDT. Da questa lettera nasce Silent spring, Primavera silenziosa, un lavoro illuminante fin dal titolo, che comincia con There was once a time in the heart of America, con “C’era una volta”, come le favole. Rachel Carson era una scienziata, e non si era mai sposata. Per questo, dopo la pubblicazione di Silent Spring diventa una “zitella troppo interessata alla genetica”, una delle emotional women in garden club, anche se prosegue a lavorare, va in televisione, scrive, mantiene la famiglia. Adotta il nipote quando la sorella muore. E ancora, comunista, appartenente al KGB, sentimentale. “Perché una zitella senza figli si interessa tanto di genetica?” scriveva il ministro dell’agricoltura al presidente Eisenhower, ma Rachel Carson pensa, scrive, parla, esercita il suo occhio sul mondo fino alla morte. In televisione appare con lo sguardo limpido, immutato, lo stesso che ha nella foto della scuola. Non c’è trucco, non c’è accondiscendenza. Solo, sono scomparse le trecce, e i lineamenti si sono fatti adulti. Fin qui in fondo cos’altro, se non la storia di una scienziata eccezionale, a cui guardare con ammirazione. Ma io studio la vita di Rachel Carson, leggo lettere, annotazioni, ascolto podcast. Le informazioni si mescolano, così ci metto un po’ a risalire alla fonte. Si parla della malattia, il tumore per cui verrà operata ma senza fortuna. Morirà nell’aprile del 1964, per complicazioni dovute alle metastasi. Ed ecco l’informazione che cercavo. Quando la malattia le fu diagnosticata, non le venne comunicata la reale gravità, perché il protocollo prevedeva che fosse comunicato al marito e lei un marito non lo aveva. Il tuo corpo non ti appartiene, e in mancanza del suo proprietario, dell’amministratore di condominio, del legale rappresentante, non rimane che affidarsi all’esecutore testamentario. Del resto siamo pieni di esecutori testamentari, anche senza rendercene conto, e veneriamo figure, sante, che come Rachel Carson, hanno avuto un corpo che non le apparteneva. 

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro

La prima è la “mia” Santa. Nonostante la formazione agnostica, sono molto legata alle tradizioni della città da cui provengo. Nessuno si scandalizza, la Sicilia è una terra violenta, che mescola vita e morte senza soluzione di continuità. Nonostante questo, non riesco a guardare gli occhi nel piattino, nella rappresentazione iconografica più diffusa di Santa Lucia, patrona di Siracusa, senza sentire un moto di fastidio, e lo stesso dicasi per le minne sul piattino di Sant’Agata, patrona di Catania, la città dove ho studiato. Mi chiedo, guardando le due immagini, se ci sia un’iconografia analoga che riguardi i santi maschi, e scusandomi in anticipo per la mia blasfemia, vorrei saperne di più. Vorrei capire, insomma, se ci sia un qualche santo con gli occhi sul piattino, o magari il naso. Basterebbe anche un orecchio, senza voler arrivare, per semplice corrispettivo, a chiedere l’esposizione dei testicoli, o del pene. Penso a San Sebastiano, legato a un palo ma fieramente in piedi, nonostante le frecce che gli trafiggono il costato. Poi abbiamo San Giorgio in equilibrio sul suo cavallo, San Paolo che domina i serpenti. Nessuno di loro ha in mano parti del corpo, nessuno offre le sue mutilazioni come segno di santità. C’è San Giovanni Battista, patrono di Ragusa, mi fa notare una mia amica, a cui fu tagliata la testa. Ne cerco la rappresentazione. Nel santino la testa è bene attaccata al collo; altrove, è una donna che la mostra sul piatto, e la funzione è comunque preservata, la rappresentazione pietosa, il martirio non evidente, e non esiste alcun dolce che faccia il giro, da sacro a profano. Così accade per Sant’Agata, ed ecco la cassatina, una semisfera ricoperta di pasta di zucchero bianca e setosa come le mammelle delle vergini. Le uniche che desideriamo mordere, spezzare, portare alla bocca con la forchettina e poi masticare con gusto, spostando la ciliegia candita come il capezzolo, o ingurgitandola subito, per non perdere tempo. Dipende dai gusti.

Rachel Carson è morta a più di cinquant’anni, possiamo ipotizzare che i suoi seni non fossero più sodi e setosi, e nulla sappiamo sulla sua condizione di vergine. Sul piattino dell’offerta rimane solo la violenza medica, e nessun dolce evocativo e zuccherino. Ma a ognuna il suo piattino dell’offerta, mi dico. Sul mio, per esempio, c’è la mia bocca, e una melanzana.

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro

Io non mangio le melanzane. Adesso ci starebbe proprio bene questa frase: Non ho mai mangiato le melanzane. Provo a scriverla: Non ho mai mangiato le melanzane, ma la frase sarebbe falsa. So solo che non le mangio da tanti anni, e non so neanche perché. I perché nella nostra storia personale variano nel tempo, si sovrappongono, si contraddicono, si dimenticano. Se stiamo sull’oggi, posso dire che non me ne piace la consistenza spugnosa, in grado di assorbire l’olio in frittura. 

(attenzione, qui è seminato un alert: se questo fosse un racconto, ecco la prima pietruzza da raccogliere)

Non mi piace il colore della polpa, un grigio freddo e bucherellato. Non mi piace che a volte siano amare altre no, questo loro essere inaffidabili e traditrici. Non tollero come viene raccontata. Tutto nella melanzana si presta alla retorica. Dalla buccia lucida, la forma tonda, la polpa soda, ed eccoci dentro al romanzo culinario familiare, con donne forti che impastano su tavoli di marmo e intanto tengono in piedi la casa e la famiglia. Non mi piace che ti definiscano: Sei siciliana, come fai a non mangiare le melanzane?, in un rapporto con il cibo su base topografica che rifiuto, ancora di più quando mi si presentano davanti nel loro utilizzo più iconico: la parmigiana, di cui detesto tutto, a partire dall’estetica traballante, la forma incerta, il sapore eccessivo, l’acidità del pomodoro, i troppi sapori insieme. L’impossibilità di mangiarla senza che coli.

(se questo fosse un racconto, ecco la seconda pietruzza: la ripetizione di un particolare che smette di essere casuale)

Non mi piacciono le melanzane e sono solidale con i macrobiotici, che le ritengono, come tutte le solanacee, dannose all’organismo. Velenose. Per questo le ho raccontate in un mio romanzo, ripetendole, fritte, fritte, e fritte ancora, perché al lettore arrivasse il mio stesso disgusto. Lo stomaco che si rivolta, il rifiuto della pietanza. Ma non sono stata brava. Le melanzane hanno avuto la meglio, e diversi lettori, dopo aver letto Le isole di Norman, mi hanno mandato foto di parmigiane appena sfornate. A furia di leggerne, gli era venuta voglia, e io sono rimasta schiacciata dentro la Sicilia di cibo che nutre, gli arancini o le arancine, le mangiate di pesce in riva al mare. E le melanzane. Ma io non cedo, anche se questa bocca non mi appartiene. 

(se questo fosse un racconto, ecco il terzo clic: siamo alla soglia, adesso tutto si mette in ordine)

Potrei rimettere in ordine la memoria, distorcerla e piegarla al mio racconto. A noi che scriviamo ci piace che tutto torni. Vi racconterei di quella sera in cui ho mangiato una parmigiana di melanzane che non avevo ordinato, e l’ho fatto per paura. Se vogliamo essere meno drastici, diciamo per prudenza. Mi vedevo come dall’alto, nel punto esatto in cui ero, in una situazione non semplice da sbrogliare, e ho preferito stare zitta. Ho avvicinato il piatto e ho mangiato. Che fosse una parmigiana di melanzane, con l’olio di frittura che si allargava aranciato e lento su tutto il piatto, è il perno che mi permette di ricordare. Quella è stata l’unica volta in cui una persona ha ordinato al posto mio, senza chiedermi prima cosa io desiderassi. «È molto bello se mangiamo la stessa cosa», ha detto, e ha scelto due porzioni di parmigiana di melanzane. Il cameriere non ha mostrato segni di sorpresa. Ha portato quanto richiesto ed è sparito. 

Eravamo entrati dal retro, in una stanza con un solo tavolo, nascosta al resto del ristorante da un séparé. Adesso, se questo fosse un racconto, dovrei dirvi che a ordinare la parmigiana fu un uomo molto più anziano di me, che di anni non ne avevo ancora diciotto. I suoi anni posso supporli a grandi linee: direi più di sessanta, perché aveva un nipote della mia età. Mi aveva invitata a cena per parlarmi di una cosa, così mi aveva detto al telefono. Voleva organizzare un torneo di tennis in memoria di quel nipote di cui sopra, morto da poco.

Se questo fosse un romanzo, questa parte dovrei toglierla. I manuali di narratologia sono inflessibili: non importa se quello che racconti è vero, importa solo se è verosimile, e che il nonno di un tuo amico morto da poco in circostanze tragiche e violente ti inviti fuori a cena dicendoti che ti deve parlare di un torneo di tennis in sua memoria, per portarti poi in un ristorante mai visto, su una statale di grande passaggio. Un caseggiato quadrato dall’intonaco al grezzo, sporco di inquinamento e cattiva manutenzione.

(adesso è il mio occhio allenato dall’ingegneria che parla, osserva il ricordo e lo sistematizza)

Immaginate di entrare dalla porta sul retro, dopo aver parcheggiato dietro una siepe, per sedervi a un tavolo in finta arte povera, serviti da un cameriere abituato a non farsi domande, in una terra, la Sicilia degli anni Ottanta, in cui uscire con uno sconosciuto, per quanto nonno, senza sapere dove si va, non è una buona idea. Con quelle due sante, di Siracusa e Catania, morte mutilate, non è una buona idea. Anche se per dovere di cronaca dobbiamo osservare che Santa Rosalia, patrona di Palermo, ebbe la sorte di morire nel suo letto. 

«Lo hai detto a qualcuno che esci con me?» mi chiese appena salita in macchina. Ma io non capivo e ho risposto di sì. 

(sono sempre stata molto lenta nel capire, questo dicono gli anni di terapia, e basta prendersela con chi ci ha educato, con quello che ci è accaduto; si nasce con un nucleo originale, ardente e contaminato: a volte si nasce tonti, e questo è quanto)

© Vite imperfette, Barbara Cannizzaro

Il resto non è materiale per un buon romanzo, e possiamo soprassedere, anche se ci tengo a rassicurare il lettore. Come Santa Rosalia, anche io tornai incolume a casa e al mio letto, non so se per merito mio o intuito dell’altro su quale fosse il limite da non oltrepassare, in un viaggio in cui con le spalle alla portiera e la mano sulla sicura rimasi in ascolto, pronta ad aprire la portiera e buttarmi in strada, se necessario. Solo qualche metafora di cattivo gusto, inutilizzabili se non in certi fogliettoni che mi pregio di non scrivere. Metafore sulla sua auto molto potente, di molti cavalli e altrettanta velocità massima, che necessitava quindi di molto carburante, come lui. O racconti di una piscina, nella quale era necessario buttarsi insieme, perché in tante volevano buttarsi con lui, ma lui desiderava fare il bagno con me. Scene inutilizzabili, converrete, buone forse per un plot grottesco. Ma io il grottesco non lo so maneggiare, e così di quella esperienza non mi rimane nulla. Per farne un racconto ci vuole un incidente scatenante, un innesco narrativo; invece io dopo alcune telefonate piene di promesse di abiti da vera donna, raccomandazioni per università prestigiose e preziose statuette di avorio in dono, smisi di rispondere. Nulla di rilevante, se non un particolare. La finezza di quest’uomo nello scegliere, fra le compagne del nipote, quella meno bella e meno adatta, piena di ideali e dal carattere poco accomodante. Forse fu un peccato di hybris, più probabilmente la mossa di un buon giocatore. Il potere sa sempre dove colpire. Nessuno avrebbe creduto alla molestia sulla brutta. Nessuno, in ogni caso, avrebbe potuto evitare di citare le attenuanti. Il dolore della perdita, lo stordimento del lutto, la ricerca della giovinezza per interposta persona. In ogni caso a me non è rimasto nulla. Scordai il mio amico morto, e con lui questa storia inutile, noiosa da raccontare, con nessun materiale da deformare. Solo l’immagine dell’olio della parmigiana che cola sul mento di un uomo anziano, di un vecchio, che intanto sorride e pontifica, senza sentire il bisogno di prendere un tovagliolo e pulirsi. Solo un piatto cucinato male e troppo unto, ordinato senza il mio consenso, a cui provare a far risalire la mia avversione per le melanzane. Davvero troppo poco per costruire una storia. Solo la strada non presa, per parafrasare Robert Frost, tanto caro a Rachel Carson. E nulla di più.

Editing di Fabiana Castellino

Veronica Galletta è nata a Siracusa e vive a Livorno. Con Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Con Nina sull’argine (minimum fax 2021) è stata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Letteratura d’Impresa. Il romanzo Pelleossa, già finalista al Premio Neri Pozza per opere inedite, è uscito per minimum fax nel 2023.

Vite Imperfette di Barbara Cannizzaro.

Questo progetto nasce dal mio desiderio di raccontare la vita che non si vede, che non si conosce di ragazze e donne normali, “modelle” che rappresentano la bellezza fuori da schemi e stereotipi sociali, con difficoltà più o meno visibili e che hanno trovato il coraggio di mostrarsi. Da diversi mesi viaggio per l’Italia per incontrarle nelle loro città, nelle loro case, nei loro luoghi del cuore, parlo con loro, ascolto le loro storie. Storie di donne che hanno deciso di raccontare attraverso le mie immagini, le loro difficoltà, i loro sogni, le paure e le speranze, le loro vite insomma, che raramente, a volte mai, hanno mostrato. Vite uniche ma che somigliano a tante vite, donne uguali a noi ma diverse. Imperfette e vere…come sono, come siamo. Unite dalla convinzione che essere se stesse e raccontarlo è la via migliore per aiutarsi ed aiutare.

Il progetto, nato in collaborazione con l’agenzia di moda inclusiva Imperfetta project è aperto a chiunque senta la necessità di raccontare la sua storia imperfetta. Sono profondamente convinta che la condivisione sia un potente mezzo di autocura e cura; normalizzare la diversità, raccontare difficoltà invisibili ma invalidanti, mostrare le paure inflitte da una società che ci vuole sempre più performanti e competitivi è quello che faccio come fotografa specializzata in fotografia sociale e terapeutica per dare il mio contributo a chi soffre e lotta perché non riesce a vivere incastrato nelle maglie di una società limitante e claustrofobica.

Barbara Cannizzaro (1973) nasce e vive a Roma. Ha studiato c/o O.fotografiche di Roma e il Centro di Fotografia Sperimentale Adams di Roma. È fotografa, educatrice e assistente sociale. In fotografia utilizza spesso l’autoritratto non come gesto egocentrico, come descrizione e raffigurazione sterile di se stessa ma come veicolo di espressione e liberazione di stati d’animo e dei pensieri. Ama, inoltre, fotografare le donne nella loro semplicità e unicità, il ritratto “sbagliato”, fuori dagli schemi e dai canoni classici. Studia ed elaboro progetti che abbiano come protagoniste donne normali(ma cos’è poi la normalità?) senza dar peso alla perfezione del corpo, all’ omologazione che ci rende tutti vuoti e infelici. Sceglie temi sociali e di valenza emotiva e psicologica per rendere la sua fotografia di concreto aiuto e possibile sostegno a chi ne fruisce. Ha ideato e realizzato diversi progetti sui disturbi alimentari (uno in collaborazione con l’agenzia di moda inclusiva Imperfetta Project), body shaming e body positive, rielaborazione del sé dopo gravi malattie. Ha iniziato da qualche mese Vite Imperfette, un progetto a lunga scadenza che mi vedrà in giro per l’Italia per raccontare il quotidiano delle modelle e dei modelli non conformi. Ha vinto diversi premi nazionali ed esposto in gallerie nazionali ed internazionali (Paratissima Torino, T.A.G. Roma, Camera Torino, Praga photo, circuito off di Paris photo, Kromart Gallery Roma, premio nazionale IgersItalia), ha partecipato al Ricarica foto festival di Sustinente nel 2022, fa parte dell’organizzazione della seconda ed. 2024 del Ricarica foto Festival. Si occupa di documentazione fotografica in ambito scolastico. I suoi studi di base come assistente sociale e la sua naturale predisposizione verso gli altri e verso l’animo umano l’ha fatta avvicinare al mondo della fotografia terapeutica. Nel giugno 2022 ha conseguito un master in fotografia terapeutica presso l’ associazione NetFo di A.Turchetti.

4 Comments

  1. Davvero bello il post, interessante il progetto. Amo le forma d’arte che unendosi, creano. In qualche modo surreale, il racconto deii faticosi passi fatti dalle donne per appropriarsi della loro vita e dignità, tra pezzi smembrati e melanzane, stereotipi duri a morire e ruoli da scardinare. 🌙

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