di Lidia Noviello

© Stefano Sgambati
1.
Non ho mai aspirato a una vita perfetta. Non disdegno chi lo fa, ne sono affascinata. Vengo attratta da queste vite, dagli sforzi profusi per arginare il decadimento, rallentare la discesa. Le osservo, cerco il nervo che potrebbe scoprirle, che colpito potrebbe farle cadere. Immagino l’impatto di dettagli in apparenza fortuiti su una vita del genere, conchiusa come una sfera, di un vetro pulitissimo, che rifrange un giorno il bagliore, l’immagine di una profezia.
Ho fantasticato la perfezione su me stessa, ho provato a indossarla. Una scommessa personale, una specie di esperimento. Essere dentro questo mondo, davvero, soddisfarne le aspettative; conquistare una perfezione immobile, esauribile, sterile e immutabile. La perfezione suonava più o meno così: ho più di trent’anni, ho appena messo a posto i pezzi di un’infanzia frantumata, da poco mi sembra di camminare sulle mie gambe. Ho un lavoro che non mi piace; sto iniziando a farmelo piacere, mi ripeto che a nessuno piace lavorare. Mi sono ritrovata a desiderare cose semplici, cose comuni, le cose a cui si aggrappa la gente: comincio ad avvertire l’avanzare dell’età; la mattina incontro nello specchio freddo una riga nuova sul viso, la schiena a volte mi fa male e comincio a guardare con sospetto la mia casa al quarto piano in un palazzo senza ascensore. Decido di sposarmi. Non è neanche più una questione di innamoramento, è una questione di sicurezza, è una questione di paura. Ho bisogno di canali per convogliare le energie. Ho bisogno di ripetizione, ho bisogno del ritorno ciclico dei giorni a dei punti fermi, precisi. Organizzo con cura ogni dettaglio. È l’immagine di cui mi innamoro, è ciò a cui sacrifico la mia vita, il mio ardore, ciò a cui comincio a credere. Finché arriva lui, e la sfera, l’assenza di spigoli, il mio vuoto ammobiliato, riluce un’immagine che mi rapisce.
È un giorno in cui mi sento felice. Non ricordo bene, devo aver portato a termine qualcosa di importante. Una promozione. Un riconoscimento. La morsa dell’esterno per un momento si rilassa e mi lascia, serena, nel presente. Sono a bere con amici, i bicchieri posati sul tavolo, le mani fanno avanti e indietro dal posacenere. Siamo fuori, il cielo è limpido, comincia a calare il sole. La mia vita sembra perfetta. Un uomo attira la mia attenzione sulla soglia del locale, è vestito bene e ha un’aria trasandata, come se fosse uscito sere fa e non fosse mai tornato a casa. La camicia stropicciata, i pantaloni macchiati. Coglie il mio sguardo e si avvicina, ridendo e biascicando, con una mano regge una pinta, con l’altra dà una pacca sulla spalla a un mio amico seduto al tavolo mentre dà inizio alla conversazione. Io non sento nulla, lo guardo. Barcolla, riempie i momenti di silenzio con gesti ampi, sbatte freneticamente le palpebre; parole che sgorgano da lui a fiumi. Colgo qualche nome, cita molta letteratura, arte, filosofia. Gratta la gola a frequenza regolare, un rantolo che ogni volta fa calare un silenzio preoccupato. Poi si riprende e riattacca a parlare, parlare, parlare. Mi distraggo e i miei occhi vagano, poi incrociano i suoi di ritorno, mentre mi indica e dice: Lei. Lei non ha occhi. Lei non ha amato, lei non sa amare. I suoi occhi conoscono solo la gelosia, guarda di sbieco, guarda come le donne di Modigliani, ti uccide con lo sguardo. Ama solo chi non la ama, lei non vede niente.

© Stefano Sgambati
2.
Di occhi, di sguardi, di visioni è fatta l’opera di Marguerite Duras. Lo scopro solo più tardi, a un seminario, per qualche motivo non l’avevo mai sentita nominare. Non so nemmeno come si pronuncia il cognome che questa donna ha scelto per sé – il nome del padre abbandonato in favore del nome della contea dove, sempre il padre, possedeva una casa – e per mesi continuo a sbagliare. Durà. Duras. La relatrice – una psicanalista, Cristiana Fanelli – sembra come trascinata dal suo discorso, dal ripercorrere le tappe di quella vita, una vita che ha dello straordinario e le cui vicende bastano a motivare il fascino che la sua figura suscita: la lunghissima infanzia «a piedi scalzi» nell’Indocina francese, il folle desiderio della madre di arginare il Pacifico con una diga, la morte precoce del padre, l’amore proibito con l’amante cinese dalla «pelle della pioggia», il ritorno in Francia, la vita affettiva fuori dagli schemi che le causa l’inimicizia del partito comunista a cui pure rimane legata per anni. Sono elementi che chiunque parli di Duras non può non nominare, e diventano per me come una litania, un ritornello che non perde mai forza. Ascolterò varie persone, spesso donne, parlare di lei; leggerò dei libri su di lei, cercherò interpretazioni dei suoi testi, cavillerò sui suoi testi, ma nulla supererà quel primo incontro a cui continuerò a tornare, quella prima agnizione che mi incanta, che rapisce la mia attenzione, che mi lavora dentro fino a produrre realtà.
L’incontro, all’interno di un ciclo su Lacan lettore della soggettività occidentale, è (prevedibilmente) dedicato a una lettura in senso psicoanalitico della scrittura di Duras, e quale miglior punto di partenza di un romanzo che addirittura Lacan ha omaggiato? Solo più tardi apprendo – Rosella Postorino, su un altro palco, sorride mentre lo ricorda in un inciso – che Marguerite rise di questo omaggio; rise beffarda di questo medico psicoanalista che voleva spiegarle quello che aveva scritto, seppure a mani alzate, omaggiandola appunto, con l’idea che «[lei] dimostra di sapere senza di me ciò che io insegno1». Quella risata beffarda mi accompagna mentre scrivo di lei, segnala un nodo che sfugge per sempre all’interpretazione, suscita in me un senso di libertà e di trasgressione che non smetto più di avvertire in tutto il suo stile, in tutte le sue storie.
La trama del libro, Il rapimento di Lol V. Stein, è per certi versi estremamente semplice, eppure qualcosa mi folgora. L’intreccio potrebbe essere riassunto così: è la storia di una donna, Lol, che sul finire dell’estate va a un ballo col suo fidanzato, Micheal Richardson, che, rapito dalla bellezza di un’altra donna, balla con lei tutta la notte davanti agli occhi irretiti di Lol, fino a lasciarla. Si potrebbe dire che è la storia di come questa immagine originaria abbia dato adito alla vita successiva di Lol, e di come le azioni successive di Lol abbiano lavorato, silenziosamente, per portarla a riprodurre quella scena, a sistemare qualcosa che in quella scena era andato storto. Ma una descrizione del genere non sarebbe accurata; molte frasi dovrebbero essere aggiunte, molte parole spese per parlare di che cos’è il rapimento di Lol, del perché non può smettere di guardare, anche quando è sola, a anni di distanza, quella stessa «scena primaria», continuando a immaginarla e immaginarla per tentare di portarla, con uno sforzo incredibile, ogni volta a un esito diverso: i due non escono dalla sala da ballo, ma rimangono lì, insieme a lei; lei vede lui spogliarla, pezzo dopo pezzo, lei vede il corpo nudo di lei, la veste nera che cade. Dopo una prima crisi, seguita a breve distanza da un matrimonio in apparenza del tutto normale, dopo anni Lol tornerà a vivere nella città natale, S. Talha, la città del ballo in cui i suoi occhi sono stati rapiti – qui «inventa passeggiate», passeggiate ignare che la portano, come una biglia su un piano inclinato, a essere di nuovo tre, a essere di nuovo terza in una svestizione, sdraiata nel campo di segale attiguo all’hotel a ore degli incontri adulteri fra l’amica d’infanzia, Tatiana Karl, e il suo amante, Jacques Holt.
Non sarebbe una ricostruzione fedele, dicevo – o, quantomeno, sarebbe fedele quanto può esserlo una sinossi – perché un resoconto del genere non tiene conto del modo specifico in cui la storia è raccontata, dell’intelaiatura di specchi e di sguardi che Duras costruisce e attraverso cui entriamo nella narrazione, una costruzione che ci fa sentire per tutto il tempo come se guardassimo dallo spioncino, o come se fossimo anche noi – stesi sul nostro letto, seduti su una panchina nel parco, non importa – sdraiati in quel campo di segale, colti da uno sguardo più ampio di noi a guardare, ad assistere, a essere insieme a qualcosa che non ci riguarda.

© Stefano Sgambati
3.
Nessuno mi aveva mai parlato delle profondità di una relazione duratura, delle sue segrete, degli scompartimenti umidi dove ci si rintana. I pensieri inconfessabili, i momenti di odio puro. La natura mutevole di quella relazione in cui si è, come un aggettivo che accompagni qualsiasi pensiero. La qualità a volte calma, serena, distesa: prendo per mano quell’aggettivo mentre cammino, sono meno sola anche nel buio; le sue fattezze altre volte ossessive, maniacali, l’aggettivo mi perseguita anche mentre dormo, accusa ogni fuga, ogni desiderio di spazio, diventa un’ombra da cui nascondersi, una casa infestata da abbandonare, da buttarsi dal balcone, da urlare, per respirare ancora. Alcuni pensieri indicibili a volte vengono detti, e il momento, i momenti che seguono sono di una dolcezza dolorosissima.
Eravamo il tipo di coppia da gravitarsi sempre attorno. Un flusso di parole e carezze ininterrotto anche mentre ci vestivamo, anche mentre mi lavavo i denti ricevevo un assalto di baci sulla guancia e sul collo che mi faceva ridere e sporcare tutto. Ci cucinavamo a vicenda, ci viziavamo a vicenda sorprendendoci varie volte al giorno con piccoli gesti di cura, ci sostenevamo a vicenda e compenetravamo in maniera naturale l’uno la vita dell’altra. Eravamo felici. Ogni giorno c’era una cosa nuova da provare insieme, una nuova attività, un nuovo cibo. Era tutto perfetto. Sposarsi, quella stabilità imposta alla spontaneità dello stare insieme, cambiò le cose. Non improvvisamente; giorno dopo giorno, come un veleno o un bagliore che cresce piano col mutare della luce.
Il desiderio, che nei primi tempi della nostra relazione era stato al suo culmine, si era col tempo appiattito, e infine assestato su una piacevole routine che non dava fastidio a nessuno, presi com’eravamo dalla condivisione, dalle cose da dirci e da fare insieme. Ebbe il colpo di grazia con i preparativi per il matrimonio. Dopo il sesso, ci guardavamo con la coda dell’occhio, incapaci di parlare.
«Ti è piaciuto?»
«Sì.»
E tutto tornava a scorrere.
Era andata bene così per un certo periodo: i fiori, i preparativi, gli amici da contattare ci tenevano occupati. Non capivo come la cosa ci si fosse ingigantita tra le mani: gli inviti disegnati, gli invitati, gli amici del liceo e i parenti lontani. Non me ne capacitavo, e delegavo a lui i preparativi. Ero in una casa perfetta, in una relazione perfetta, mostravo a mia madre le stanze, le finestre grandi e luminose; qualcosa nella luce si incrinava, un urlo impaurito e la scena crollava, la casa si rompeva, cadeva a pezzi, non si vedeva più nulla. Così mi svegliavo.
Pensieri prima silenziosi, poi striscianti, poi impossibili da ignorare. Siamo in un bar con amici, c’è molto rumore. Scoppi di risate e un vociare continuo sulla musica in sottofondo. Lei passa, non la conosco, ti vede, il suo volto si illumina, esplode in un gesto di saluto a braccia aperte, di due che non si incontrano da tempo. Anche tu ti illumini, sorpreso, ridi e la guardi. Ti alzi, vi abbracciate. Le tue mani sulle sue spalle nude, la maglia morbida scollata. La guardi a lungo mentre vi scambiate convenevoli. Non mi menzioni, non mi presenti. È un lungo intervallo vuoto in cui non penso niente, vi guardo e basta. Non so quanto dura, pochi secondi o cinque minuti. Sono attirata dalla forma dei tuoi occhi, da quella dei suoi, dal filo che li unisce mentre vi fissate e vi soppesate. Chi è questa persona che guarda, che mi era così familiare fino a poco fa, così prevedibile? Cos’è questo sguardo che ora ha negli occhi, che non riesco a intercettare e definire? Cosa vi dite attorno e dietro alle parole?
Dopo, non dico niente. Quando torni al tavolo – sembra passato un tempo infinito – hai negli occhi uno sguardo di scuse, un mezzo sorriso. «Un’amica di tanto tempo fa». Sorrido. Mi fido, mi dico. Non chiedo, rimango sola nella zona d’ombra che si allarga tra noi, immagino il vostro rapporto passato. Nei giorni successivi ripenso spesso a lei, ai suoi capelli lunghi, lisci, folti, i suoi occhi scuri mentre ti guardava, lei che non mi ha degnato neanche di uno sguardo. Ripenso ai tuoi occhi, a come l’hai guardata, all’attrazione fra voi. Non passa molto prima che questo pensiero si trasformi nel mio desiderio: quando mi guardi, quando mi vuoi, i tuoi occhi si staccano da me e trovano lei. Penso di essere lei, fingo di essere lei. La prendi attraverso me, e così mi libero, mi abbandono. Ti chiedo di dirlo, ti chiedo di pensare a lei, ti chiedo di attraversarmi, guardare da un’altra parte attraverso di me, e tu lo fai, docile, semplice.
Mi sento spossessata, mi sento cadere. Non so cosa c’è dall’altra parte, non so come si possa tenere insieme con la nostra vita da svegli. Una vita notturna di desideri dolorosi e soffocanti ci avvolge, ci tiene per la gola e ci fa agire l’un l’altra in un modo nuovo, spaventoso. Come se fossimo fatti di carne, come due estranei. Ripenso alle parole di un ubriaco incontrato per caso, la lettura di un’autrice assume spessore. Una profezia che cerca a tentoni, a piccoli passi i pensieri per avverarsi, le scene a cui attaccarsi. Tu non hai occhi, tu guardi solo obliquamente, di sbieco, ami chi non ti ama. Sei gelosa.

© Stefano Sgambati
4.
La cosa fondamentale in quel primo testo di Duras che ho letto – sento che potrei dirlo molte volte, insistendo su aspetti diversi – è il modo in cui Lol rimane attratta da quella scena, appunto, rapita. Non può smettere di guardare, letteralmente. Anche quando non guarda fisicamente; perché, come scrive Lacan, «lei non vede niente, lei non ha occhi». È un altro modo per significare la sua carenza di soggettività, il suo essere completamente sottratta a se stessa e irretita nella trama del desiderio che la attraversa. Lacan scrive nel suo omaggio a Duras che Lol – questo personaggio nel cui nome sembra essere inscritta l’assenza, la mancanza che la contraddistingue – non vede, non è padrona dello sguardo, ma fa sorgere l’oggetto-sguardo, lo fa sorgere come pulsione, come movimento erotico che sorregge il testo. Lo fa sorgere in Jacques Holt, l’amante di Tatiana: è lui che vede, che vede Lol, che cerca gli indizi del suo passato nei racconti degli altri e che a sua volta ce la narra, è lui il narratore di questa storia, che ci porta progressivamente al momento della sua comparsa, abbastanza avanti nel testo, dopo che già ci eravamo chiesti più volte – chi è questo io che parla, che attende nel raccontare, nel ricostruire la vicenda di Lol, attende nel suo incedere per moti nascosti e difficilmente spiegabili il suo arrivo di fronte a lui, fino a quando gli viene svelato il segreto che lei ha visto, inquadrati dalla cornice della finestra dell’hotel a ore, in disparte nel campo di segale, quel corpo nudo, nudo sotto i capelli neri? Holt rimane rapito – si dice terrorizzato – da questa immagine espropriata, dal vedersi scoperto dall’esterno. Lui, il proprietario dello sguardo, colto e incorniciato dall’inquadratura della finestra; raccontare di Lol, amarla, possederla, diventa il fine attraverso cui riappropriarsi di se stesso. Non può farlo: quando i due fanno un tentativo di uscire dal triangolo del desiderio, Lol delira. Cosa succede se uno schema di funzionamento, se un nodo, un incatenamento di situazioni e persone si interrompe bruscamente? Cosa succede se la ripetizione fallisce e ci si abbandona alla perdita? Forse lo sguardo diventa fisso e non si attende più nulla.
Marguerite, l’autrice, è la prima – con noi – a venire rapita da questa immagine, a non smettere di guardare. In Yann Andrea Steiner definisce gli anni del ciclo di Lol – una serie di testi in cui in maniera più o meno scoperta ritornano personaggi e vicende connessi alla storia originaria della perdita di Lol, fra cui Il viceconsole e L’amore – come «i più solitari della sua vita». E ancora parlando di quella solitudine, scrive: «Era la più profonda della mia vita ma anche la più serena. Non la sentivo come una solitudine ma come l’occasione di una libertà decisiva fino a quel momento ignorata2». L’amore è ambientato in una città di mare, lo scenario principale è la spiaggia. C’è una donna che guarda, guarda il mare. Il mare, le sue colorazioni, l’aspetto del cielo col mutare del tempo, sono una presenza ossessiva nel testo. La città: S. Thala. Una lettera cambia di posto, a indicare thalassa, il mare, ancora. Al confronto, la città che su quella spiaggia affaccia è definita come «spessore del rodimento», «materia nera», «lo spessore inafferrabile», «lo spessore innumerevole», «incatenamento continuo dello spazio3». Quello della spiaggia è al contrario un paesaggio deserto, appiattito al punto che il mutare della luce, il verso dei gabbiani che si nutrono di un cane morto che la risacca porta a riva, un grido solitario che squarcia l’aria, diventano presenze fondamentali che scandiscono il tempo. Lei guarda, guarda, sembra non fare altro. Un triangolo – di nuovo – si forma attorno a lei: c’è un uomo che arriva da un’altra città, un uomo che ritorna e la vede. Un altro uomo che cammina a passo inquietantemente regolare, avanti e indietro sulla spiaggia, ricorda un prigioniero, o un carceriere. Chi è? Le chiede l’uomo che torna. «Ci sorveglia» risponde lei, «ci sorveglia, ci riconduce4».
Un testo spiazzante in cui il linguaggio è ridotto all’osso, le ripetizioni sono frequenti e le pause lunghissime. Alcuni elementi, nonostante la destituzione della trama, sono chiari: abbiamo a che fare certamente con Lol; l’uomo che ritorna a S. Thala – un ritorno impossibile, in una città che ha cambiato nome, e in cui tutto sembra mutato – è Micheal Richardson. Un testo che sembra ricalcare da vicino, come scrive Angelo Morino nella postfazione, la devastazione di una mente abbandonatasi alla follia – o al godimento, alla jouissance, a un desiderio della perdita, un abbandono di sé in favore delle cose, della loro presenza assoluta. Lei guarda. E sembra in qualche modo assolvere un desiderio di Marguerite stessa, quando parlando del Camion, il film di sua sceneggiatura da lei interpretato, in cui una donna passa il tempo a salire sui camion e parlare con gli autisti del nulla, di qualsiasi cosa le capiti di pensare, quando parlando di quella donna Marguerite dice: «Io so di amarla. Sono rivolta verso di lei. Ma lei no, è rivolta verso l’esterno. Lei non sa che io l’amo, non sa di essere amata, è ignara dell’amore che può ispirare. Lei, rivolta verso il fuori: Guarda. Io, rivolta verso di lei. Guardandola5». Quella donna, quella proiezione di completo abbandono dei vincoli sociali, è libera.
La libertà sembra tanto più un tema evidente, in L’amore, quanto più è scoperto nel testo l’elemento carcerario. Questa nuova Lol, questa donna che guarda incessantemente, si riposa, dorme a occhi aperti in un isolotto vicino alla diga, dove si trova quello che viene descritto come una specie di carcere. I due uomini le fanno compagnia, a distanza, guardano il fiume, l’acqua che si alza, paventano lo sfondamento degli argini. Ma cosa ha a che fare tutto questo con l’amore, il titolo del testo? Moltissimo, e in maniera dichiarata se, di ritorno a Yann Andrea Steiner, leggiamo che «è qui infatti», a S. Thala, «che si trova la città di ogni amore6».
Il nodo stretto fra isola, libertà e costrizione mi assilla mentre andiamo avanti con le nostre giornate. Lo fa anche nei sogni: a volte, l’isola ha la qualità e il fascino di una terra inesplorata, in cui perdersi, da scoprire. In questi casi c’è sempre una visuale d’angolo: bisogna svoltare, andare ogni volta dall’altra parte. Altre volte, l’isola è simile a quell’isolotto-prigione in mezzo al fiume, di fronte a una diga che lo tiene separato dall’acqua del mare, dove Lol dorme a occhi aperti. In uno di questi sogni, corriamo in giro chiedendo indicazioni, cerco di scappare. Ci ritroviamo nell’acqua, acqua blu, al buio. Ho paura di stare con le gambe e il corpo così immersi nell’acqua dove non riesco a vedere nulla, cerco qualcosa a cui appoggiarmi, e di arrivare dove sembra esserci della terra. «Vorrei solo mettere i piedi per terra», dico. Arrivo, il terreno è sdrucciolevole, uno strato troppo sottile sulla superficie dell’acqua, sul punto di disfarsi. Mi giro e vedo: quattro altissime mura più un alto soffitto ci rinchiudono. Il mare, l’oceano ondeggia diviso in una porzione, in una gabbia. Non so cosa c’è dall’altra parte.

© Stefano Sgambati
5.
La cosa spiazzante, la cosa a cui non ti abitui mai, è che la profezia non si avvera. Non c’è modo di avverarla, la distruzione non avviene mai per intero. La persona più normale del mondo cammina su un ponte con la sua vita perfetta, guarda giù, guarda le macchine sfrecciare, immagina con gioia e terrore di lanciarsi, passa avanti. Nella mia mente, nel mio corpo, una fantasia, un istinto sopravvive: domanda realizzazione, distruzione, fine. Cosa accadrebbe se fossimo tre? Quella immagine mi abita, mi spezza, mi ossessiona. Diventa una presenza costante, è una volontà di cancellarmi che parla quando dico: chiamami col suo nome. Prima di dirlo, il mondo sembra crollare. Sono di fronte a un precipizio, ci salto dentro. Tu lo farai, lo farai per me? Immagino che sia terribile essere invitati a cancellare la persona che si ama. Ogni volta reiteriamo la mia scomparsa, la mia disapparizione. Questo corpo non è il mio corpo. Sono lei che tu vuoi. Solo così resisto, in una fantasia, in una profezia che non si avvera.
Incontro Duras solo più tardi. Mi folgora. Mi scopre: ecco come ci si sente di fronte a Il rapimento di Lol V. Stein. Guardàti: noi che non volevamo essere visti, che pensavamo di essere al sicuro, che ci sentivamo, forse, al riparo. Siamo visti guardarla, Lol; Lol stesa sul campo di segale, affondata nella sua fantasia come in un buco senza pensieri. Fruscia la segale sotto le sue reni. Giovane segale di prima estate. Con gli occhi fissi alla finestra illuminata, una donna sente il vuoto – nutrirsi, divorare quello spettacolo inesistente, invisibile, la luce di una camera dove sono altri7. Serve coraggio per distruggere e io non ce l’ho: mi piace pensare che tu sia il mio rifugio, il mio riparo. Che nessun altro mi veda quando sono con te. Come succede che la mia più grande paura diventi il mio istinto più violento, il desiderio che mi divora?
I piatti si accumulano nel lavello. Siamo sempre impegnati, e quando ci incontriamo alla fine di giorni esausti varchiamo insieme la soglia della paura, mano per mano. Tutto il resto sembra di troppo: i fiori, le foto, gli amici, la scena. La realtà appare scadente, una foto sbiadita e lontana del buio in cui ci addentriamo ogni notte. Fuori, in mezzo agli altri, facciamo fatica a guardarci.
Nel suo suggestivo testo, Il cinese e Marguerite, Angelo Morino tematizza il delicato rapporto tra la vita e l’opera di Duras, la riscrittura costante della vita che nell’opera è compiuta, in maniera sempre più scoperta e manifesta a partire da L’amante, il libro che la rende famosa. Morino legge in filigrana, con grande perizia, gli eventi fondamentali della vita di Duras – quella infanzia interminabile a cui sempre si rifarà – nei personaggi delle sue prime opere, come nascosti in esse e contraffatti, rintracciando una tendenza contraria all’autenticità che si fa strada negli anni, scoprendo sempre più i motivi fondanti, gli episodi reali dietro le rielaborazioni immaginarie. A partire da L’amante, e in alcune conversazioni precedenti, dice, viene in luce che il tale personaggio di Una diga contro il Pacifico, un bianco, mascherava in realtà l’amore antico di Marguerite, il cinese che conosce a quattordici anni o poco meno, a cui Morino intitola il suo testo. E così via, cercando l’autentico oltre le contraffazioni, leggendo in tal senso anche il passaggio di Marguerite al cinema, a cui dedicherà dieci anni della sua produzione. Tralasciando il tema della contraffazione e dell’autenticità, al quale non credo molto, c’è un punto che mi sembra più interessante e che Morino sottolinea nel suo saggio: L’amante, il testo autobiografico di Marguerite Duras in cui per la prima volta compare l’uomo cinese della sua infanzia, può nascere grazie all’assenza di una fotografia, all’assenza di un elemento di realtà. Nasce in qualche modo come appendice di un libro di fotografie, Les lieux de Marguerite Duras, che attraverso fotografie e didascalie doveva raccontare la vita dell’autrice. Le didascalie si allungano, una foto manca – la foto dell’incontro, sul traghetto che attraversa il Mekong, del suo primo amante – e la parola comincia a proliferare per riempire l’assenza, per ricoprirla ed evocarla. Non c’è fotografia, non c’è circoscrizione possibile per l’evento, che esonda dai bordi e riappare travestito in mille forme nei suoi personaggi e nei suoi testi. L’immagine, il cinema diventa allora il tentativo «di sottrarsi all’infinitudine della parola per trovare scampo nella finitudine dell’immagine8». Il tentativo di risolvere la proliferazione inarrestabile della parola, di rappresentare in maniera definitiva. Anche di Lol Marguerite tenta una sceneggiatura, poi persa:
La ripetizione del ballo di S. Thala, ma a livello teatrale. Lì, non si progredisce nella conoscenza di Lol V. Stein, quella storia è finita. Lì lei morirà. Ha finito di ossessionarmi, mi lascia in pace, io la uccido, la uccido perché cessi di mettersi sulla mia strada, sdraiata davanti alle mie case, ai miei libri, addormentata sulle spiagge con qualsiasi tempo, col vento, col freddo, ad aspettare, aspettare questo: che io la guardi ancora un’ultima volta9.
Provo a scrivere una sceneggiatura a partire da una foto che manca. Provo a scrivere un racconto sulla realtà che non si avvera. Provo a circoscrivere, a distruggere, a realizzare la potenza dei miei desideri, in un’immagine ultima di tradimento, di casa che collassa su se stessa, di fiducia una volta e per tutte smarrita. Sono ancora su quel precipizio, sul cavalcavia da cui guardo in basso le macchine sfrecciare, il balcone del mio amore da cui mi voglio gettare, il traghetto sul Mekong di cui non c’è attestazione fisica, materiale, definitiva. Non so cosa c’è dopo: la parola non mi permette di scoprirlo, non mi dona la certezza dell’evento. In quest’assenza, in questo vuoto, in questa impossibilità della rappresentazione, ai bordi di ogni fotografia, sento che c’è spazio per respirare.
Editing di Livia Del Gaudio
Lidia Noviello è laureata in filosofia. Vive a Roma. Suoi testi sono apparsi su Lay0ut Magazine, Grado Zero e Spaghetti Writers.





Abbiamo ancora un conto in sospeso con la nudità? Grazie alla possibilità di una diffusione sempre più vasta, tecnologica ed economica, sin dagli albori la fotografia cerca di regolarlo. Stefano Sgambati sa che attraverso il suo (apparente) realismo questo mezzo/linguaggio espressivo può riguardare più direttamente il (nostro) corpo, al quale consacra lo sguardo della macchina. Superato il decoro dell’iconografia accademica, in alcuni lavori la nudità conserva una certa compostezza, funzionale al compiacimento per i risvolti erotici del corpo. La rottura degli schemi artistici non è completa, assoluta, come nell’immagine pornografica che con la sua promessa di visibilità totale aspira a un maggiore effetto di realtà, ma gioca sulla soglia tra sublime e infimo, amore e sessualità creando uno stato di ambiguità, spesso necessario per toccare il punto dove questi si mescolano. Suscitare il desiderio? Mostrare il piacere? Esibire il proprio desiderio mascherato dal corpo altrui? A volte valorizzando tutti gli elementi che occupano lo spazio, altre volte stringendo sul corpo con un approccio più ingordo verso questi soggetti mai disincarnati.
Maria Teresa Rovitto
Stefano Sgambati. Nato nel 1984. Sceneggiatore e regista dal 2000. Fotografo dal 2007. Ritrattista dal 2009. Drammaturgo e regista teatrale dal 2010. Fotografo di nudo dal 2013. Sognatore da sempre.
- J. Lacan, Omaggio reso a Marguerite Duras, del rapimento di Lol V. Stein, in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, pp. 191-197. ↩︎
- M. Duras, Yann Andréa Steiner, Feltrinelli, Milano 1993, p. 13. ↩︎
- M. Duras, L’amore, Oscar Mondadori, Milano 1991, pp. 17-29. ↩︎
- Ivi, p. 18. ↩︎
- A. Morino, Il cinese e Marguerite, Sellerio, Palermo 1997, p. 35. ↩︎
- Yann Andréa Steiner, op. cit., p. 58. ↩︎
- M. Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, Feltrinelli, Milano 2022, p. 52. ↩︎
- Il cinese e Marguerite, op. cit., p. 74. ↩︎
- M. Duras, La vita materiale, Feltrinelli, Milano 1989, p. 36. ↩︎