di Livia Del Gaudio

© Nicolò De Finis
Per accompagnare lo spiraglio Riempire un piccolo spazio di Barbara Bernardini abbiamo pensato a un ipertesto che procedesse per assonanza. Proponiamo una riflessione sulla scrittura di sé a partire dal paesaggio attraverso un’analisi de Le pianure di Federico Falco.
Il tempo della ripetizione. Raccontarsi attraverso il paesaggio ne Le pianure di Federico Falco
di Livia Del Gaudio
Fu come se
[...]
il paesaggio avesse una sintassi
simile a quella della nostra lingua
e mentre avanzavo
venisse pronunciata una lunga frase
sulla destra e un’altra sulla sinistra
e pensai
Forse anche il paesaggio
riesce a capire quello che dico.
Ron Padgett
Rimanendo fedele all’esergo, ne Le pianure1, Federico Falco costruisce una narrazione a partire da un paesaggio; il paesaggio che per primo ha definito il suo sguardo, quello dell’infanzia, la sterminata pianura argentina conosciuta come pampa. Il risultato è una scrittura di (non) altezze, che si modula nell’assenza di curve di livello: un’orizzontalità imperturbabile che se, da una parte, richiama l’immagine di un profondo spaesamento esistenziale, dall’altra invita alla calma, al riordino, all’atarassia.
Le pianure racconta il tempo del lutto; la stagione di dolore che l’autore attraversa dopo la separazione dal proprio compagno. Un lutto percepito da Falco come minore, e forse per questo osservato, fissato nel suo dipanarsi senza che la parola ceda al registro della disperazione:
La pianura, la pampa, è anche assenza di altezze. Nessun punto da cui guardare in alto. Nessun punto da cui guardare dall’alto.
La vita sul piano, senza possibilità di uscirne, senza altezze su cui salire per trovare il sacro. […] L’orizzontalità. La pampa come il luogo dove siamo perduti.
Il libro si apre sulla campagna, contrapposta alla città. L’ingresso è segnato dai suoni e da qualcosa di più sottile, il rifugio, il bisogno di difendersi. Una lotta che si concretizza nell’immagine degli insetti (La lotta contro gli insetti, contro tutto ciò che è selvatico, contro tutto ciò che viene da fuori: cose che di solito in città non succedono).
I capitoli seguono lo scandire dei mesi, e ci ricordano che ci troviamo nell’emisfero australe, dove febbraio è la stagione del caldo e agosto quella delle gelate. Il tempo, che a noi, lettori boreali, appare sgranato al contrario, è il tempo della ripetizione in cui si radica la coscienza del narratore; un ripetersi di azioni legate alla cura dell’orto compiute nel qui e nell’ora, senza prospettiva, nella fiducia che si accorda alla terra quando immaginare il futuro è impossibile (Non posso piantare peschi né buganvillee, nessun arbusto perenne, ma posso tentare con le piante annuali, piante da seme, di quelle che durano una sola stagione: questa, la stagione in cui vivo). Nella fede accordata a ciò che cresce nonostante, il dolore si affaccia sotto forma di paesaggio (Qui il paesaggio predomina su tutto, contamina tutto, invade tutto, tutto è paesaggio. […] Qui non c’è dove posare gli occhi. Ogni eucalipto, ogni palo della luce è un sollievo perché aiuta a fermare lo sguardo): è la sofferenza per ciò che è andato perduto, che si sa non potrà tornare eppure si invoca. Dentro questo panorama, nel tempo attutito e frustrato dalla consapevolezza che il destino di ogni dolore è quello di passare, si affaccia il tema del controllo che, mutando dalla riflessione sull’orto a quella sulla scrittura, segna una cesura importante anche della struttura complessiva del testo:
Un orto non lo si può controllare e questo a volte mi esaspera. L’orto non cresce dal mio desiderio, ma dalla sua stessa potenza, la potenza del seme, e viene fuori in mezzo a incidenti di ogni tipo.
Con la scrittura è più o meno lo stesso: a volte, scrivendo, mi illudevo di avere il controllo sul testo, mentre in realtà tutto accadeva quasi escludendomi: veniva fuori quello che poteva in mezzo ai miei guai personali, la mia nevrosi, la mia stanchezza, la mia pigrizia, il mio timore di quello che avrebbero detto gli altri.
Giunti a questo punto la narrazione si frammenta, si fa a tratti oracolare; il tempo ricucito con tanta precisione nella prima parte del libro sembra perduto:
Legarsi a qualcosa.
A un orto, a un bosco, a una pianta, a una parola.
Legarsi a qualcosa che abbia radici, legarsi per non perdersi nel vento che soffia sulla pampa e chiama.
Più che il racconto di una rinascita, Le pianure è un libro che parla di cicli, e lo fa attraverso una scrittura specchio, che trasforma in immagine i moti dell’animo, tanto che si ha spesso l’impressione di trovarsi davanti a timelapse in cui ogni fase di crescita del germoglio è allo stesso tempo accelerata e isolata in sequenza. Per rompere la gabbia tecnica che rischierebbe di relegare il testo a un semplice esercizio di stile, Falco compie un salto di coraggio: ci ricorda che stiamo assistendo a una magnifica illusione, a quel trucco di prestigiatore che è la scrittura anche e soprattutto nel momento in cui afferma di essere vera:
[…] sulla pagina scritta un paesaggio non è paesaggio, è il tessuto delle parole con cui lo si nomina, l’universo che quelle parole creano.
- Federico Falco, Le pianure, Sur edizioni, Roma, 2022 ↩︎