

Jean-Marc Reiser
Scorretto e irrimediabilmente underground, Jean-Marc Reiser nasce a Réhon il 13 aprile 1941. Dopo un apprendistato che svolge giovanissimo su riviste minori come Blagues e La Gazette de Nectar approda, a partire dagli anni Sessanta, alla sua casa di elezione: Hara-Kiri poi divenuta Charlie Hebdo.
I suoi fumetti travalicano i generi, infischiandosene del buon gusto. Al centro della sua ricerca c’è l’uomo medio – un incel ante litteram – ma non per questo sono risparmiati bambini, animali e ogni sorta di minoranza. La parità, per Reiser, sta nel diritto a essere “bastardi”; nelle sue tavole le donne sono meschine quanto gli uomini: tradiscono, sono ferocemente dirette e per questo, senza ombra di dubbio, libere. Se la politica non è mai nominata, è chiaro il pensiero ecologista che anima l’artista: con il suo stile cruento è uno dei primi a mostrare al grande pubblico gli effetti dell’inquinamento e degli allevamenti intensivi, il tutto raccontato con un tratto essenziale e inconfondibile.
Il 3 novembre del 1983, a soli 42 anni, Reiser muore di cancro ma non si risparmia la battuta finale: la vignetta, pubblicata pochi giorni prima di andarsene, ritrae un gruppo di vecchi: brutti e malati eppure vivi. Che ci vuoi fare?, sembra dire con ultima crudele ironia, c’est la vie.
Mad magazine
Fondata nel 1952 da Harvey Kurtzman e William Gaines, MAD Magazine ha interrotto la tiratura inedita con il numero di agosto 2019, dopo 67 anni di pubblicazioni. Elemento distintivo (ed esplosivo) nel panorama editoriale statunitense è stata la sua capacità di fare satira su ogni aspetto della vita pubblica del Paese, senza risparmiarsi conseguenze legali, alcune di celeberrima fama (famosa la querela intentata alla rivista da Irving Berlin, Cole Porter e Richard Dodgers).
Ciò nonostante, apparire sulla copertina della rivista in compagnia della lentigginosa mascotte Alfred E. Neuman è sempre stato un privilegio per pochi – Barack Obama e Richard Nixon, Mark Zuckerberg e non ultimo Donald Trump.
Con picchi di due milioni di copie vendute negli anni Settanta, il magazine è stato un punto di riferimento per il panorama culturale del secondo Novecento e ha visto avvicendarsi nelle sue pagine fumettisti come Robert Crumb, Gilbert Shelton e Art Spiegelman; l’estetica cinematografica di Terry Gilliam e la comicità demenziale di John Belushi.
Da Hara-Kiri a Charlie Hebdo
In bianco e nero, mensile, per metà scritto dal suo caporedattore – François Cavanna – sotto vari pseudonimi. “Non siamo di nessuno e nessuno ci possiede”, il messaggio esplicito sul numero uno, settembre 1960: nasce in Francia Hara Kiri.
Oltre a Cavanna, in squadra ci sono Georges Bernier (il professor Choron) come direttore responsabile e il disegnatore Fred come consigliere artistico. Tra i vignettisti, un acerbo Reiser (ancora impiegato nel commercio di vino) con il nome d’arte Giem, poi Pelotsch, Lob e dai numeri seguenti Cabu, Gébé, Wolinski, Willem.
In meno di un anno arriva la censura: interdizione di fare pubblicità, niente vendita ai minori, e di conseguenza grossi problemi di distribuzione. Stessa cosa cinque anni più tardi, con sei mesi di interruzione della pubblicazione. Nel 1969 le casse del giornale sono vuote.
Invece di arrendersi, Choron e Cavanna rilanciano e fondano Hara Kiri Hebdo (poi L’Hebdo Hara-Kiri), settimanale pensato per seguire da vicino l’attualità, e Charlie, mensile di fumetti ispirato nel nome e nei contenuti al Linus italiano.
Dura poco: il 9 novembre 1970 muore De Gaulle; in riferimento a un tragico incidente in una discoteca di qualche giorno prima dove perirono 146 persone e alla residenza del Generale nella cittadina di Colombey-les-Deux-Églises, L’Hebdo Hara Kiri titola: “Bal tragique à Colombey – 1 mort”. È il putiferio e, nuovamente, la censura. Questa volta la squadra di Cavanna non ci sta e già dalla settimana successiva aggira il provvedimento del governo riproponendo il settimanale con una nuova veste grafica e titolo: Charlie Hebdo. Con questo titolo, a parte per una lunga pausa tra il 1981 e il 1992, arriva fino ai giorni nostri. Ovviamente, non ci arriva immune.
Se fino ai primi anni 2000 la lotta e la satira è quasi sempre politica – con 19 processi nei primi 5 anni dalla riapertura delle pubblicazioni per querele varie di figure come l’Associazione di supporto all’Esercito francese, associazioni di campi per vacanze, Marie Le Pen, alcuni sindaci, Caroline di Monaco, un critico musicale, il Ministero della Difesa e molti altri – negli ultimi anni i problemi del settimanale, triste premio per la strenua difesa della libertà di stampa come principio fondamentale della democrazia, arrivano dall’integralismo religioso.
La satira sull’islamismo procura l’incendio dei locali del settimanale nel novembre 2011 e il tragico attentato del gennaio 2015 dove morirono dodici persone.
Non basterà a piegare la redazione.
Giocattolosa
La cornice narrativa del saggio di Gabriele Esposito fa riferimento al suo romanzo “Giocattolosa”, pubblicato a puntate sulla rivista Malgrado le mosche. Giocattolosa costruisce su due nuclei tematici, quello del malessere contemporaneo e della sua conseguente ricerca d’evasione, una sperimentazione dalla struttura intrigante, in cui s’intersecano più livelli narrativi.
L’autore, che dietro le quinte garantisce l’unitarietà del romanzo, è mosso dall’intento di descrivere i nuovi paesaggi della sofferenza umana e gli strumenti, poco o per nulla efficaci, a cui il soggetto moderno ricorre per nascondere e, il più delle volte, ignorare il dolore.
L’io narrante Proci, che è invece complice del deserto morale in cui vive, aderisce alle regole del gioco e si presta a inventarne di nuove, perché è annoiato, così annoiato da impazzirne. La liberazione dalla gabbia del politicamente corretto avviene per mezzo dell’uso spregiudicato del corpo e attraverso l’irriverenza del linguaggio interiore, che reagisce al mondo lavorativo in cui il professore è inserito. L’abiezione morale del protagonista è senza giudizio e senza condanna: i fondamenti dell’etica sono saltati, insieme ai confini tra realtà e finzione. In tal senso, il leitmotiv operistico innesta un corto circuito tra l’ambito culturale d’appartenenza, alto, e l’uso che ne fa Proci.
Il protagonista che gioca non cerca più la condivisione e l’interazione col mondo; il rapporto con l’altro si traduce nella possibilità, da parte del più potente, del più ricco e, perché no, anche del più istruito, di trastullarsi con le vite degli altri.
In ogni caso, persino l’invenzione sfrenata del professore deve obbedire a delle condizioni; in un mondo fatto di cose, tutte ugualmente acquistabili e riproducibili, anche l’invenzione ha un prezzo da pagare. Proci deve perciò rinunciare all’ipotesi di una trama differente, impostata sull’autenticità di un sentimento più sano, l’amore, per quanto nel lettore permanga il dubbio che esso fosse comunque destinato a non sopravvivere, nella tossicità di un ambiente fondato sull’infingimento.Qui si può scaricare l’intero romanzo: Giocattolosa – pdf
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