di Riccardo Meozzi

1
Prima di quella disperazione non c’è nulla.
Mi aggiro intorno a quel vuoto da tutta la vita. Cerco la memoria di qualcosa che non tornerà, ma in compenso ricordo con certezza l’anno in cui ho costruito la finzione che è andata a riempire quell’oblio: il 2010. Avevo quindici anni e un’identità proteiforme; non poter spiegare con esattezza perché quella deformità mi si contorcesse in gola era più umiliante della cosa in sé. Così a chi chiedeva – con garbo e in punta dei piedi, di modo che potessi trasformarmi nel Sisifo della mia pena – iniziai a rispondere con la mia piccola leggenda privata, che come tutti i miti di fondazione aveva il suo pregio principale nell’inventare un’origine che non esisteva e non sarebbe mai potuta esistere. La storia che raccontavo diceva che da bambino, nei mesi in cui stavo imparando a leggere, mi imbattei nella favola di un porcellino d’India che voleva assolutamente avere la coda. Tutti gli altri animali ne avevano una, perché lui no? La desiderava, non voleva essere diverso. Ma nonostante gli sforzi del roditore – innumerevoli, tutti fallimentari – la favola si concludeva con uno scoiattolo saccente che faceva la morale al porcellino, spiegandogli che alcuni, semplicemente, non sono fatti per avere la coda.
Il problema è che non so se questa favola sia totalmente frutto della mia immaginazione o se l’abbia letta da qualche parte e poi applicata alla mia storia personale; non sono mai andato a cercarla, non mi interessa farlo, e credo che non aggiungerebbe né toglierebbe alcunché all’unico fatto certo, ossia alla gigantesca e immotivata disperazione che mi colse un giorno, quando avevo sei anni.
Andò così: una sera mi misi a piangere. La disperazione che mi indusse le lacrime, gigantesca e inscalfibile, mi esplose in petto all’improvviso e senza una ragione. Piansi di quel pianto inconsolabile che è proprio soltanto dei bambinie che di solito non lascia conseguenze. Mia madre mi strinse, mio padre mi disse che sarebbe passato in fretta. Aveva ragione; ma quando mi fui calmato e presi fiato per spiegare, dalla gola mi uscì soltanto un brulichio sonoro privo di senso – questo è il fatto oggettivo, che percepisco ancora se con la mente torno a quel momento. Non ero diventato afono per il troppo piangere. Non ero afasico. Il mio linguaggio esisteva ancora, non si era dissolto nel nulla come accade nei pazienti reduci da ischemie cerebrali o tumori al cervello; esisteva, voleva uscire, trasformarsi in suono limpido e frase compiuta, ma non ci riusciva. Pensavo le parole, tuttavia queste restavano imbrigliate nel mio corpo, nel mio cervello, ovunque – all’inizio era difficile da localizzare il punto in cui tutto si inceppava: non capivo, non potevo spiegarmi a nessuno, e questo aumentava a dismisura la mia disperazione -, e se le costringevo a manifestarsi queste mutavano in uggiolii o peggio, in rantoli simili a quelli degli animali moribondi. Quel linguaggio informe mi spaventava, mi esasperava, e la cosa peggiore era che proveniva da me. Al contempo però lo sentivo estraneo. Confuso su tutto, ciò che però mi fu immediatamente chiaro era che non avrei potuto sfuggirgli.
Cosa c’è di peggio dell’ineluttabilità per un bambino?
Un ricordo.
Non parlo ormai da una settimana. Sono solo. Prendo in mano un libro di scuola. Lo apro. Guardo le lettere, le sillabe, le parole intere e la punteggiatura, le frasi, il paragrafo. Tutto si costruisce sotto i miei occhi. Mando giù la saliva, passo la lingua fra le labbra. Mi riempio d’aria, apro la bocca ed espiro la prima lettera dell’alfabeto. Esce, sana. La pronuncio a lungo, beandomi di quel suono perfetto. Ma non è sufficiente: devo andare avanti, legare alla vocale la seconda lettera e via dicendo fino alla fine della parola, poi fare una breve pausa e tentare di dire la successiva, poi la terza, la quarta, arrivare in fondo, fare una pausa più lunga, respirare, chiudere la bocca. Ma mentre lo penso qualcosa non va. Si verifica come uno smottamento, una caduta che mi impedisce di andare avanti. Nella stanza risuona soltanto la mia “a”, orfana di ogni altra lettera, moncone della parola fantasma.
Se mi concentro la sento ancora. È rimasta lì.
La diagnosi arrivò presto, circa un mese dopo il pianto inconsolabile. Una diagnosi scontata, fra l’altro: balbuzie, o in gergo disartria funzionale. Fra i due termini preferisco il secondo. C’è qualcosa, nel primo, che più che insultante mi pare inesatto, e penso sia per una questione fonologica. “Balbuzie” è una parola che fila liscia. Non ha inciampi, accidenti. È vero, c’è una “z” che pare voler mettere in difficoltà. Però, quando si prova a pronunciarla, scorre via rapida. “Disartria” ha invece suoni insidiosi e scostanti; è perfetta. Il prefisso “dis–” ribalta il significato originario della parola in senso peggiorativo, indica che qualcosa non funziona come dovrebbe. Eppure non è tanto il senso della parola a interessarmi, quanto il suono. Se si articola risulta più complesso del primo: si devono tirare indietro i muscoli del collo, lasciare uno spazio sottile fra le arcate dentali, emettere l’aria e schiacciare la lingua contro il palato duro per formulare la “s”; infine, per pronunciare “–artria”, la lingua deve rilassarsi sulla prima vocale, battere poi sul palato e vibrare, protendersi di nuovo in avanti, scontrarsi con i denti sulla “i” e ancora una volta sospendersi nel vuoto per la “a” finale. La preferenza che ho per questa seconda parola è netta: anche se per me sono entrambe impronunciabili, quest’ultima contiene nella forma tutto ciò che, nei fatti, fa sì che mi resti intrappolata in gola. E poi è un termine medico, quindi privo dell’emotività che ho imparato essere mia nemica – per anni, dopo l’inizio della malattia, ho pensato di studiare medicina: sognavo di possedere un linguaggio scevro di empatia, specialistico, in grado di descrivere fenomeni complessi e dolorosi senza mai fare cenno ai sentimenti nascosti dietro quelle manifestazioni patologiche; scegliendo quella vita niente avrebbe potuto turbare il mio linguaggio.
Dopo la diagnosi, decretata con malcelato divertimento dal medico di base, venni preso in cura da una psicologa infantile e poi da una logopedista. Gli studi di entrambe si trovavano in un vecchio edificio industriale convertito in centro polifunzionale. Li frequentai per tutto un inverno – sento ancora l’odore di marcio e degli scarichi delle auto mescolarsi all’umido nell’aria –, e ricordo che l’ingresso della struttura era stato posto sul retro e dava su un parcheggio privo di illuminazione. Per raggiungere la porta dovevo quindi attraversare il buio. Tremando, protendevo la mano verso mia madre. Lei l’afferrava e mi guidava nell’oscurità come se fossi cieco. Anche se avevo paura, non mi sono mai rifiutato di partecipare a una di quelle sedute: ero un bambino incredibilmente docile e accondiscendente. Era un tratto del mio carattere che piaceva a tutti gli adulti e che però, dopo la manifestazione del problema – questo il nome circostanziale che genitori e maestre gli avevano assegnato –, si era accentuato a dismisura. Credevo che la remissione mi avrebbe salvato, che chinando il capo e subendo qualsiasi trattamento sarei guarito in poco tempo.
Quelle sarebbero state le mie ultime fantasie infantili.
La psicologa era alta e si vestiva con noncuranza. Mi accoglieva in una stanza addobbata come l’aula dei giochi dell’asilo e mi faceva sedere su una seggiola di plastica arancione. Per tutta la prima seduta non riuscii a parlare; se ci provavo, gli occhi mi si riempivano le lacrime. La psicologa lo comprese e di fronte a quei tartagliamenti mi chiese di rispondere con dei cenni del capo. Andammo avanti così per almeno tre incontri; al quarto, capendo che non mi avrebbe giudicato, riuscii a gettare fuori qualche parola. Lei non si mostrò compiaciuta né diede segni di sollievo. Impassibile, sorrideva soltanto quando doveva farlo, altrimenti parlava senza particolari intonazioni e senza distogliere lo sguardo da me. Ho compreso negli anni successivi che anche lei stava cercando la causa scatenante, eppure se dovessi dire il modo in cui procedette non saprei dire nulla se non che, per quanto possibile, cercò di farmi parlare a ruota libera di qualunque argomento le venisse in mente. Si aspettava che prima o poi avrei ceduto, che la parte di me che nel profondo proteggeva qualcosa si sarebbe schiusa rivelando un orrore, un’immagine vista attraverso lo spiraglio di una porta, un dolore che si era incastrato nel mio cervello alterandone gli equilibri. Se ci fosse stato qualcosa sarei capitolato: il desiderio che avevo di lasciarmi andare e di guarire era tale che, se la psicologa avesse anche solo sfiorato ciò che presumeva avessi rimosso, avrebbe liberato una pressione immane.
Durante una delle ultime sedute mi disse che avrei dovuto disegnare due alberi. Mi porse due fogli, il barattolo coi pennarelli e le matite. Prima che mi mettessi a disegnare mi fermò e mi fece alzare la testa verso di lei. Negli occhi, a sorpresa, aveva una luce dura e compressa. Tenendo lo sguardo fisso su di me specificò che un albero sarebbe dovuto essere “bello”, mentre l’altro “brutto”. Mi chiese poi di disegnare i miei amici sotto l’albero che ritenevo più opportuno. A quel punto si lasciò andare all’indietro sulla sedia, si mise a fissare il soffitto e incrociò le braccia. Io non riuscii più a guardarla, e mi chinai sul foglio cercando di fare il più in fretta possibile e tenendo bene a mente quanto mi aveva chiesto. Dieci minuti prima della fine le consegnai i disegni. Lei li osservò con attenzione, poi li dispose sul tavolo e mi chiese di descriverli. L’albero riprodotto su entrambi i fogli era il vecchio ciliegio che avevo in giardino: nel primo aveva i fiori rosa e le foglie, come in primavera; nel secondo era spoglio e, alla base, avevo disegnato un cumulo di foglie arancioni e marce. Sotto il ciliegio in fiore, poi, avevo raffigurato alcuni miei amici. Erano mascherati. La psicologa mi chiese di dirle i nomi, e io fui così zelante da darle anche una breve descrizione caratteriale di ognuno, per quanto mi fu possibile.
Quando ebbi finito di parlare mi congedò. Mi ringraziò per tutto quello che le avevo raccontato. Disse che era stata molto bene in mia compagnia, che ero intelligente. Mi fece uscire e chiamò nello studio mia madre. Forse le raccontò com’erano andati gli incontri, ma sono convinto che, alla fine, le abbia confidato che dentro di me non c’era nulla che non andasse. La disperazione che mi aveva spezzato le parole non aveva un’origine né trovava una giustificazione. Semplicemente, qualcosa in me si era frantumato. Il tempo, forse, l’avrebbe guarito, proprio come se si trattasse di un lutto.
La logopedista invece si vestiva con cura e portava i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle. La trovavo bella e non riuscivo a fare a meno di guardarla e sorriderle. Quando la prima volta entrai nel suo studio e la trovai di ottimo umore mi sorpresi: temevo di essere un fastidio, che la mia lingua storpia fosse per tutti una noia. Lei si presentò e poi, come se non avesse ancora letto la documentazione fornita dalla psicologa, mi chiese di presentarmi a mia volta. Dalla gola mi uscirono le solite frattaglie sonore, le dilatazioni vocaliche che mentre si espandevano nell’aria mi fecero contorcere sulla sedia. Mi venne da piangere, ma lei mi fermò subito e mi assicurò che non c’erano problemi, che eravamo lì per questo. Mi avrebbe insegnato a controllare la cosa che avevo dentro – non disse mai che sarei guarito, che avrei ripreso a parlare come tutti gli altri, e io non colsi subito la differenza fra la frase che aveva detto e il senso che le avevo dato; mi ci vollero molte sedute per capire che, in un modo o nell’altro, avrei potuto fare soltanto qualche progresso.
La logopedista non era interessata al contenuto delle mie parole: voleva farmi parlare perché dovevo parlare, e soltanto se avessi articolato dei suoni poteva aiutarmi. Capì subito che la mia difficoltà principale risiedeva nell’articolazione della sillaba di attacco: tutte le consonanti labiali, velari, dentali, quando si legavano a una vocale diventavano per me impronunciabili. Le ripetevo fra le dieci e le diciassette volte prima di riuscire ad andare avanti, ma poteva capitare che mi impuntassi anche nelle successive, dilatando così la velocità di enunciazione. Per dire una frase di dodici parole potevo impiegarci anche quaranta secondi, e se il momento era piuttosto nefasto lo sforzo era tale che mi veniva il fiatone e terminavo la frase boccheggiando – due gore di sudore mi si allargavano sotto le ascelle, mentre la gola mi bruciava per averla costretta a fare qualcosa contro la sua volontà.
La cosa più importante che mi insegnò fu a dominare l’emotività. Cercò di farmi ragionare sul modo in cui usavo le parole. Mi spiegò che esse dipendono strettamente dall’emozione che stiamo provando in quell’istante, e che proprio per questo possono essere alterate dal colore dei nostri pensieri – disse proprio “colore”, lo ricordo bene, e mi mostrò una tabella dove, accanto a una scala cromatica ridotta, aveva segnato i nomi di varie emozioni –; se per esempio ero arrabbiato o nervoso le frasi che avrei usato ne avrebbero risentito in negativo, allo stesso modo che se fossi stato entusiasta o eccitato. Non dovevo permettere che le parole dipendessero dalle emozioni. Dovevo sganciarle, renderle indipendenti; non avrebbero mai dovuto seguire il mio stato d’animo, né anticiparlo. Sarebbero dovute stare al di sopra, sospese, o sotto, ma mai in mezzo al flusso dei miei pensieri. Il compito richiedeva un livello di astrazione che non possedevo e, per aiutarmi, mi disse di visualizzare le parole nella mia testa. Mi chiese di considerarle soltanto nella loro forma. «Come se tu stessi scrivendo», disse. In pratica dovevo computarle, visualizzarle, e infine pronunciarle come se stessi recitando. Ansioso com’ero di guarire, mi ci applicai subito. All’inizio sembravo un pessimo commediante: la mia voce saliva e scendeva senza alcun senso e la velocità di eloquio rallentava ancora di più, ma la frequenza con cui mi impuntavo diminuì drasticamente. Quando me ne accorsi saltai in piedi. Entusiasta, volli comunicare la mia felicità; ma, trascinato dall’eccitazione, la frase successiva mi si accartocciò in bocca. C’era ancora molto da fare, ma quella tecnica funzionava. Se visualizzavo le parole e le mettevo in fila, la gola si rilassava e le parole, seppur lente, uscivano dalla mia bocca senza impedimenti. Era quasi come se la disperazione non fosse mai esistita e il mio linguaggio non si fosse sfigurato; tutto in me, dalla postura all’espressione del viso, tornava dritto e rilassato come qualche mese prima. Mi convinsi che quella tecnica mi avrebbe salvato. Però non mi accorsi che, quanto più la utilizzavo, tanto più mi allontanavo dalle parole degli altri.
Sono fermo sul brano precedente da un’ora abbondante. Mi chiedo se dovrei cancellarlo e riscriverlo attenendomi soltanto ai documenti della logopedista e alle informazioni che ho trovato nei siti specializzati nel trattamento della disartria. Se lo facessi avrei la certezza di stare scrivendo un testo scientificamente accurato e, soprattutto, privo dell’emotività che mi terrorizza e che costantemente respingo mentre scrivo queste pagine. Sono indeciso, ma so anche se mi dovessi affidare a una compilazione di sintomi e terapie senza tentare di ricostruire ciò che mi è successo, questo testo non avrebbe senso. Fra la pura verità fattuale e quella personale, in questo caso, propendo per la seconda. Non è così assurdo, se si considera che ho iniziato a scrivere partendo da un mito di fondazione, cioè da un’invenzione narrativa.
L’aver bandito l’emotività ha fatto sì che io non abbia ancora scritto nulla sulla vergogna. Mi domando se debba farlo o meno: a tratti penso sia necessario, non voglio passare per uno coraggioso; in altri momenti invece credo sia superfluo. Ho provato vergogna, sì. Ne provo ancora – se meno di un tempo non lo so -, ma ho imparato a gestirne le conseguenze: sudo sempre freddo quando qualcosa mi si incastra in gola ma, se una parola non vuole saperne di germogliare, la nausea non mi riempie più lo stomaco e non devo ricacciare indietro il vomito. Ho reso il mio disagio incomunicabile. Tremo soltanto in profondità. Il mio volto non si increspa più e in bocca non sento più alcun sapore acido.

2
Ho applicato la tecnica della logopedista per anni. Ci ho anche aggiunto del mio. Immaginare le parole, vederle, e poi montarle assieme per formare delle frasi che potevo pronunciare senza difficoltà non mi era sufficiente. Mi misi in testa che dovevo possedere la più grande varietà lessicale e sintattica disponibile e non limitarmi a quanto mi veniva insegnato a scuola o alle costruzioni fraseologiche che trovavo nei libri. Nella prima adolescenza, quindi, lessi il dizionario da cima a fondo almeno tre volte. Con una dedizione che non avevo nemmeno per lo studio scolastico, la sera, mi sedevo alla scrivania e, partendo dalla presentazione al tomo che mi avevano regalato per la comunione – lo Zingarelli – mi mettevo a studiare i singoli lemmi. Li pronunciavo sottovoce, li ripetevo allo sfinimento, e infine cercavo di memorizzarne la forma. Andavo a caccia dei più difficili e li cerchiavo con una matita rossa: quelli erano gli impronunciabili, costruzioni morfologiche che mi avrebbero intasato la gola fin dalla prima sillaba. Accanto a essi scrivevo tre o quattro sostituti che avrei potuto utilizzare in caso di necessità; li memorizzavo e più volte, nei giorni successivi, li ripetevo fra me e me assecondando il panico di poterli dimenticare. Facevo preparativi per la catastrofe, per il momento in cui sarei stato costretto a parlare dell’argomento il cui campo semantico prevedeva una di quelle parole. Ero sempre all’allerta. Vivevo nell’attesa delle parole altrui, della frase successiva. Costruivo risposte preconfezionate. Ne avevo una per ogni domanda e accadimento; cercavo informazioni su un determinato argomento e trascorrevo le giornate a pianificare le frasi che avrei potuto pronunciare se qualcuno mi avesse chiesto qualcosa. La mia mente era piena di lemmi, sillabe, morfemi; percepivo la realtà in funzione esclusiva delle parole che la indicavano, e più andavo avanti più questo processo si faceva irreversibile. Le parole, in me, avevano preso il posto delle cose, e la lingua non era più quella parlata, dei viventi, ma soltanto quella scritta, dei libri; era quella la lingua che cercavo di conoscere – che per molti, fin dall’antichità, non è altro che un vuoto simulacro, qualcosa di distante dalla realtà.
Platone, nel Fedro, fa raccontare a Socrate il mito del dio Teuth e del faraone Thamus. Siamo in Egitto, e la divinità porta in dono al sovrano alcune innovazioni: numeri, algebra, geometria, e infine la scrittura. Secondo il dio, sono invenzioni che porteranno grandi vantaggi all’umanità. Thamus si mostra concorde su tutto, eccetto che sulla scrittura. Sostiene infatti che sì, ha indubbiamente alcuni benefici, ma che gli svantaggi sono di sicuro più grandi, e in maniera particolare si scaglia contro la capacità della scrittura di generare falsa conoscenza, poiché chi se ne servirà non comprenderà – né ricorderà – il mondo dal di dentro, ma soltanto attraverso i segni, specchi arbitrari che indicano la realtà senza esserlo. Chiunque userà la scrittura, cadrà dunque in un inganno travestito da beneficio.
La lingua dei viventi è, fino a prova contraria, la lingua parlata. È la base della comunicazione, e prevede un emittente, un messaggio, un ricevente. La lingua parlata si svolge in presenza, ed è viva, soggetta a mutamenti e condizionamenti. Le innovazioni, per esempio, non passano mai per la lingua scritta perché essa è per definizione più stabile e cristallizzata, mentre il livello di sorveglianza applicato da chi parla è minimo e più aperto agli influssi esterni. La lingua parlata è viva, tremante, oscilla insieme ai parlanti e alle loro emozioni, e mi era inaccessibile. Lo è ancora, non è cambiato nulla. La spontaneità, i guizzi di tono, mi sono sconosciuti; se uno solo di essi dovesse entrare nel mio linguaggio la deformità che alberga nella mia gola si sveglierebbe e trasformerebbe quei suoni in storpiature ritmate. Per parlare, per farmi sentire dagli altri, attingo alla lingua dei morti.
Qualche anno fa, mentre sedevo in un bar fuori dall’università con alcuni compagni di corso, una ragazza che conoscevo di vista mi chiese se per caso fossi russo o di qualche paese dell’est. Negai, e aggiunsi che in molti venivano tratti in inganno dal mio aspetto – all’epoca portavo i capelli tagliati cortissimi –, ma lei replicò che non era per quello. Feci spallucce e distolsi lo sguardo. «Parli come un russo» insistette. «O come uno che non conosce bene la nostra lingua. Secondo me non sei davvero italiano».
Momenti del genere ne ho vissuti a centinaia, e gli adulti, in qualche modo, glissano senza fare domande: hanno rispetto, sono generalmente pudichi, e tranne che in poche occasioni accettano l’innaturalità del mio linguaggio come un dato di fatto. Ai bambini invece non piace il mio inganno e a me non piace il loro disagio, il sospetto che gli compare negli occhi ogni volta che apro bocca; ero come loro quando nella gola le parole hanno iniziato a bloccarsi, fragile e ingenuo allo stesso modo. Però li comprendo: un inganno è un inganno e fino a una certa età è lecito pensare che il mondo sia fatto soltanto di trasparenze e che gli inganni esistano soltanto per mettere alla prova e, soprattutto, per essere svelati.
Tutto, nel modo in cui mi esprimevo, era falso, frutto della mia ossessione per la lingua scritta. D’improvviso iniziai a camuffare la rigidità delle mie parole fasulle. Il solo modo che conoscevo per trasformare la mia lingua da posticcia in spontanea nella maniera più rapida possibile era bere. Lo avevo notato in un amico durante alcune cene: più vino beveva, più le parole gli uscivano di bocca veloci. La mutazione che l’alcol induceva nell’articolazione delle parole era sorprendente: durava ore, era indolore e per di più gli altri la trovavano divertente. Così mi misi a bere. Avevo sedici anni.
I primi tentativi di ubriachezza li feci a casa, di pomeriggio. Riempivo un paio di bicchieri di vino e li bevevo a piccoli sorsi. Le prime volte andò male; non ebbi alcun effetto se non un lieve cerchio alla testa che, nei casi peggiori, durò anche un paio di giorni. Non avevo praticamente mai bevuto, ero inesperto, ma non desistetti. Volevo trasformare la mia lingua morta in quella dei viventi. Allora, in un pomeriggio di primavera, cambiai strategia: riempii un bicchiere di vino e lo vuotai in un sorso, e poi un altro, e un altro ancora. Al quarto, sentendo che la glottide non avrebbe fatto passare un solo sorso in più se non forzosamente, piegai la testa all’indietro e mandai giù. Subito mi mancò l’aria. Le gambe si misero in movimento per portarmi fuori di casa, alla ricerca di qualcuno con cui provare se l’esperimento fosse andato a buon fine. Finii a casa di un amico. Lo riempii di chiacchiere, e ricordo che mentre lui era seduto sul divano e mi ascoltava blaterare su cose che la mia memoria non ha trattenuto, io volevo solo mettermi a piangere dalla gioia. La mia lingua era come quella di tutti. Vive, le parole mi salivano in gola senza che le dovessi costruire. Potevo abbandonarmi alla realtà pura senza la mediazione delle parole. Il mio amico però non capiva perché continuassi a parlare. Per lui ero soltanto ubriaco, un adolescente che aveva trovato il modo di svoltare il pomeriggio – due anni fa, a una festa con alcuni amici che non frequentavo più da tempo, ho scoperto che così mi ricordano in tanti: un minorenne che non ha di meglio da fare se non bere, forse un tipo sveglio ma un po’ triste che ha trovato il proprio modo di venire a patti con i suoi problemi.
Uscii da casa sua dopo un tempo che mi parve lunghissimo. Andai verso il fiume. Camminai qualche chilometro, insensibile alla fatica e alla luce che svaniva. L’aria, quando si fece fredda, mi rinsecchì il petto e mi compresse lo stomaco. Vomitai ai piedi di un tiglio. Quando rialzai la testa il buio era ovunque, ma anche se sapevo che avrei dovuto provarne, la paura non si manifestò. Sentii invece la certezza di doverlo rifare, di riavere la lingua pura e vera, viva; quella certezza mi risalì lungo la schiena e mi si incastrò nella nuca. Per due anni, da quel momento, non potei fare a meno di riempirmi di alcol ogni volta che la situazione lo richiedeva.
Intanto iniziai a coltivare una fantasia. Questa.
Mi siedo di fronte a uno specchio e tengo il busto ben inarcato. Alzo il mento. Con l’indice e il medio della mano sinistra mi tocco la gola alla ricerca del punto preciso, della fornace dove ogni mia parola brucia e si scioglie e si trasforma in un grumo di suoni inutilizzabili. Tasto ogni millimetro di pelle disponibile e poi, colpito da qualcosa che non saprei scrivere, mi fermo. Nella mano destra ho un coltello dalla lama sottile e ben molata. Con un movimento fluido e sicuro lo porto al collo. Non indugio; il fiato non accelera. Faccio un taglio unico, uniforme. La ferita che apro è perfettamente perpendicolare alla linea del collo. È rossa, ma non una sola goccia di sangue mi bagna. Un lavoro pulito, sobrio. Allontano il coltello e me lo appoggio in grembo, poi avvicino le dita della stessa mano verso la ferita. Stavolta indugio, ma non per paura. Tremo un poco, ma non me lo posso permettere; le dita devono rimanere salde, fare il loro lavoro. Le infilo nella ferita. Rimestano la carne. Sanno cosa devono cercare, cosa devono eradicare. La mia storpiatura esiste, non è neurologica. È lì, fra le pieghe cartilaginee della mia gola. La devo soltanto cercare, la devo soltanto strappare. Me ne frego del tempo che ci vorrà e della cicatrice ghignante che mi marchierà a vita.

Una lingua falsa in sostituzione di una vera ma per me impraticabile; un’azione incosciente come l’attaccarmi alla bottiglia per costruire una menzogna capace di nascondere la mia lingua falsa: questo ero. Sarei potuto andare avanti all’infinito, affastellare menzogne su menzogne nella speranza che si incastrassero fra loro per formare fronde indistricabili e perdermi. Sembrava l’unica via percorribile, invece me ne sono tirato fuori. I modi e i tempi non sono fondamentali, non mi serve a nulla rinvangarli.
Adesso c’è il presente, la giornata di oggi che trasuda pioggia nonostante siamo in aprile. Ho scelto di trasformare la mia disartria in un oggetto che posso conoscere soltanto tornando indietro, indagandolo in maniera confusionaria e incerta. Non passo il tempo a documentarmi sui nuovi studi scientifici né a leggere le storie di chi, poco alla volta e in modi che spesso vengono raccontati come se fossero dei miracoli, ha ripreso a parlare normalmente. Dell’esattezza e della sanità non me ne faccio nulla; la redenzione non fa parte del mio orizzonte d’attesa. Io sono interessato alla sola cosa che la disartria mi ha lasciato: l’ossessione per la parola scritta. Niente è più importante per me, niente mi riempie la testa allo stesso modo. Da quando c’è lei tutto il resto le è subordinato: tutto ha a che fare con le parole, con questi segni che indicano qualcos’altro e che continuamente confondono i piani di realtà. Io cerco le parole. Le inseguo, le afferro, le colleziono appuntandole con uno spillo sul dorso. E con la stessa veemenza sono sicuro che la deformità che ho in gola vivrà per sempre. Non potrò prescinderne: non avanti né indietro, ma sempre le graviterò intorno.
Ho un caro amico che condivide con me la medesima disfunzionalità. Da quando lo conosco non ho mai smesso di pensare a come sarebbe confrontarci. In particolare, mi piacerebbe chiedergli se anche lui ha sviluppato la mia stessa mania e se pensa costantemente a come comporre le frasi, alle parole da scegliere per non inciampare. Ci immagino seduti a un tavolo a parlare fino a notte fonda – magari aiutandoci con del vino –, e sviscerare poco alla volta le nostre storie. Ma questo non è mai accaduto, e dubito che accadrà in futuro. Forse lui non è ossessionato dalla lingua come lo sono io, forse per lui le ossessioni non contano nulla. Queste hanno senso soltanto per chi le prova. Sono fiumi carsici che, se toccano l’aria esterna, evaporano e non lasciano alcuna traccia. Le ossessioni non sopravvivono alla realtà; sono la realtà, la innervano facendola muovere secondo il proprio desiderio.
Riccardo Meozzi (1994) è nato a Città di Castello. Ha pubblicato racconti sulle principali riviste e litblog italiani come Verde Rivista, Crapula Club, Pastrengo rivista e agenzia letteraria, Narrandom, Tre Racconti, Malgrado le Mosche, In fuga dalla bocciofila, e altre. Un suo racconto si trova nell’antologia “A casa nostra, lontano da casa”, edita da Aguaplano. Collabora con CaLibro Festival.



L’anatomia umana è in mutazione: gli inchiostri sono liquidi di contrasto che individuano vene, tendini e fibre muscolari per farne un fascio di gigli, dalie, rovi. Vi si appollaia un visitatore, ma è solo un testimone. Affratellati sono l’uomo e la pianta; l’animale suggella l’unione con la calma distratta che appartiene alle cose che sono destinate ad essere.
Il volto, in queste illustrazioni di Hernan Chevar, è solo un accessorio. A definire il soggetto è ciò che si trova al di sotto della pelle, qui smaterializzata. La biologia è una talea innestata sul sogno. Ne fiorisce poesia.
Hernan Chavar, è un artista nato a Buenos Aires e arrivato in Italia nei primi anni Ottanta. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti di Macerata in pittura e tecniche dell’incisione, ha cominciato a esporre le sue opere in diverse città, nazionali e estere. Attualmente vive e lavora a Porto Recanati e collabora con diverse case editrici e quotidiani.
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Complimenti a Riccardo, un inceppo, un ostacolo che descrivi bene a tal punto da farlo “provare”, provarne le difficoltà. E poi, mia moglie è logopedista!
Illustrazioni fantastiche
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