

On being ill
Mi siedo di fronte a uno specchio e tengo il busto ben inarcato. Alzo il mento. Con l’indice e il medio della mano sinistra mi tocco la gola alla ricerca del punto preciso, della fornace dove ogni mia parola brucia e si scioglie e si trasforma in un grumo di suoni inutilizzabili.
Convalescente dopo un esaurimento nervoso che l’ha costretta a letto, Virginia Woolf scrive un saggio per riflettere sulla malattia. Lo intitola proprio così, On being ill, e lo affida alle cure di T.S. Eliot, che lo pubblica nel Criterion, nel 1925. Cinque anni più tardi sarà stampato in volume dall’ Hogarth Press [la casa editrice dei coniugi Woolf], in sole 250 copie.
La malattia, qualsiasi sia la sua natura, permette all’essere umano che ne è affetto di esperire un tempo diverso da quello in cui vivono i sani; un tempo allargato, per così dire slabbrato e sganciato dall’«uncino della vita». Nel tempo sospeso in cui la mente deve finalmente soggiacere alle richieste del corpo dolorante, normalmente trascurato come fosse l’appendice ignobile della testa cartesiana, l’essere umano si toglie «l’uniforme da soldato». Il malato è un disertore dei doveri quotidiani e, in questa veste, può finalmente concedersi il lusso di abbandonare ogni finzione.
La prima: credere che ciò che si vive sia già stato vissuto da altri; che ciò che si pensa, sia già stato in qualche modo pensato da altri. Il sentire è incomunicabile, così come l’esperienza del dolore: «La lingua inglese, che sa esprimere i pensieri di Amleto e la tragedia di Lear, non ha parole per la febbre e il mal di testa»; e ancora, «non conosciamo le nostre stesse anime, tanto meno quelle degli altri». La vera empatia, secondo Woolf, non esiste (o quantomeno, ci permettiamo, è così rara che quasi non esiste).
La seconda: credere di poter ignorare che la vittoria ultima non spetti alla natura; di poter ignorare che esista un’indifferenza profonda alle esigenze umane nel cielo solcato dalle nubi, nelle energie che circolano per ragioni estranee al «piacere e al profitto umani», nell’autosufficienza dei fiori con cui si adornano le stanze in cerca di conforto.
La terza: credere che ci sia un’utilità nel affaccendarsi quotidiano, laddove l’unico scopo che varrebbe la pena perseguire, fintanto che siamo soggetti allo slancio vitale, sarebbe la costruzione di un Paradiso; scopo che, tuttavia, si addice solo all’immaginazione di un poeta.
Non a caso, è la poesia, o la prosa poetica, a essere la compagna della malattia. La qualità mistica delle parole è meglio apprezzata quando la «polizia della ragione» è fuori servizio; allora sono i suoni a scivolare sottopelle, non il significato; allora la lettura è flusso, onda, respiro.
La medicina narrativa
«Disartria, la preferenza che ho per questa [seconda] parola è netta: anche se per me sono entrambe impronunciabili, quest’ultima contiene nella forma tutto ciò che, nei fatti, fa sì che mi resti intrappolata in gola. E poi è un termine medico, quindi privo dell’emotività che ho imparato essere mia nemica – per anni, dopo l’inizio della malattia, ho pensato di studiare medicina».
Se è vero che Oliver Sacks, il neurologo noto per essere l’autore di “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” e di altri libri con a tema le malattie mentali, fu il primo, o uno dei primi, a scrivere spontaneamente cartelle parallele per raccogliere le storie personali dei suoi pazienti, è altrettanto vero che a riconoscere formalmente l’esigenza di una “narratologia” clinica e a fondarne i presupposti furono due donne, Rita Charon (“Literature and medicine contribution to clinical practice”, 1995) e Rachel Naomi Remen (“Kitchen table wisdom: stories that heal”, 1996).
La medicina narrativa, definita da Charon “l’essenza della pratica clinica quotidiana”, nacque dunque alla fine degli anni Novanta allo scopo di integrare alla pratica terapeutica metodologie d’analisi normalmente applicate dalla critica letteraria, allo scopo di coinvolgere il paziente nel processo di cura, renderlo co-autore del suo percorso di guarigione e di innescare una relazione di natura empatica bottom-up tra il paziente, appunto, e il suo medico.
Per arrivare a questo punto fu tuttavia necessaria, come spesso accade, una presa di coscienza su larga scala, accompagnata da una rivalutazione semantica del concetto di “malattia”. Da un lato si riconobbe che il malato non si poteva ridurre alla sua malattia e che dunque il terapeuta, se era un buon terapeuta, non avrebbe potuto esimersi dal considerarlo, prima di ogni cosa, come una persona; dall’altro, la medicina anglosassone cominciò a distinguere, grazie allo psichiatra e antropologo Arthur Kleinman, tra la malattia considerata come affezione patologica dell’organismo (disease), la malattia come esperienza soggettiva (illness) e la malattia come condizione socialmente connotata (sickness).
La medicina narrativa studia perciò l’illness, ovvero le modalità con cui il paziente vive la propria condizione, e lo fa «osservando, ascoltando, interpretando ed lasciandosi muovere dalle narrazioni dei pazienti», per poter «accedere a una conoscenza altrimenti inaccessibile» (R. Charon) eppure fondamentale. Secondo recenti statistiche, infatti, «in pazienti gravi ospedalizzati una conversazione di 30-60 minuti con medico o infermiere nel protocollo di cura ha generato una riduzione significativa dei periodi di degenza e un aumento del numero di pazienti ritornati nella propria abitazione» ( Temel JS, et al. Early palliative care for patients with metastatic non–small-cell lung cancer. N Engl J Med 2010).
I metodi adottati per accompagnare il malato nella narrazione di sé sono diversi e spaziano dal racconto libero, alla scrittura diaristica e all’intervista/colloquio, condotta in modo circolare (Launer) e seguendo dei pattern predefiniti; tutti, comunque, mirano alla rimozione di blocchi emotivi potenzialmente dannosi, non solo per il benessere psicologico del paziente, ma anche per la buona riuscita del protocollo di cura.
In Italia sono ancora rari, in ambito accademico, corsi specifici dedicati alla medicina narrativa, che invece è nei paesi anglofoni al centro di alcuni programmi universitari, come quello gestito dalla facoltà di Medicina e Chirurgia della Columbia University. Alcune Aziende Ospedaliere hanno tuttavia organizzato dei corsi, ad esempio a Firenze e a Catania, mentre nel 2002 è stata istituita, all’interno della Fondazione ISTUD, l’Area Sanità e Salute per l’Educazione continua in Medicina. Accreditato dal MIUR, ad oggi è il centro di riferimento per ricerca e formazione in medicina narrativa (link a http://www.medicinanarrativa.eu )
Fedro.
Platone, nel “Fedro”, fa raccontare a Socrate il mito del dio Teuth e del faraone Thamus. Siamo in Egitto, e la divinità porta in dono al sovrano alcune innovazioni: numeri, algebra, geometria, e infine la scrittura. Secondo il dio, sono invenzioni che porteranno grandi vantaggi all’umanità. Thamus si mostra concorde su tutto, eccetto che sulla scrittura.
Nel “Fedro”, dialogo platonico composto presumibilmente nel 370 a.C., Socrate riprende a discettare d’amore, dopo essersene già occupato nel “Simposio”, e lo fa prendendo le mosse da un discorso dell’oratore Lisia, che egli critica da par suo, cioè obliquamente.
Attraverso il mito della biga e dell’auriga, secondo cui l’anima sarebbe tripartita in parte razionale, volitiva e istintiva-passionale, se ne asserisce l’origine divina e la natura immortale, natura che si manifesterebbe in particolare nei momenti di reminiscenza delle realtà iperuranie, contemplate prima della discesa – o caduta – dell’anima in un corpo. Tali momenti sarebbero sollecitati dalla visione della bellezza, l’unica tra le idee (in senso platonico) che sia percepibile attraverso i sensi umani. La bellezza, che suscita amore in chi la sa cogliere, porta l’anima a «rimettere le ali» e ad anelare alla verità di cui godeva un tempo, quando ancora faceva parte del corteo del suo dio. E la verità a sua volta, se degnamente perseguita, dovrebbe essere da guida all’uomo che, per analisi e per sintesi, produce discorsi in grado di spiegare correttamente qualsiasi tipo di concetto.
«SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, c’era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura.
Re di tutto l’Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l’utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell’uno e nell’altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell’anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti».
[…] Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll’intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso».
La lingua dei viventi
La lingua dei viventi è, fino a prova contraria, la lingua parlata. È la base della comunicazione, e prevede un emittente, un messaggio, un ricevente. La lingua parlata si svolge in presenza, ed è viva, soggetta a mutamenti e condizionamenti. Le innovazioni, per esempio, non passano mai per la lingua scritta perché essa è per definizione più stabile e cristallizzata, mentre il livello di sorveglianza applicato da chi parla è minimo e più aperto agli influssi esterni.
Tra lingua parlata e lingua scritta la prima differenza, la più evidente, riguarda le modalità di esecuzione: il parlato è fatto di aria, muscoli e organi, lo scritto di carta e inchiostro (o di pixel). Ancora, il parlato presuppone una comunicazione in fieri, è contingente e tiene conto delle reazioni dell’interlocutore; spesso si accompagna ai gesti del corpo e alla mimica del viso, che, talvolta, sostituisce, rafforza o smentisce ciò che viene detto. Ancora, nel parlato le maglie della grammatica si allargano ed è più facile utilizzare termini gergali e dialettali che più difficilmente rientrerebbero nello scritto – non si potrebbe dire lo stesso, invece, dei neologismi e dei forestierismi che oggi compaiono anche in testi prodotti in ambito professionale e istituzionale.
Lo scritto comunica in differita: non dispone, o può disporre solo in pochi casi, di un riscontro immediato da parte del destinatario. Pertanto, è rigido e sequenziale; le innovazioni linguistiche vi filtrano più lentamente e, in genere, sono riconosciute come legittime solo dopo l’imprimatur di un’autorità linguistica. Quando, nel corso del tempo, emerge e si stabilizza una nuova realtà, sia essa di natura economica, culturale, sociale e/o scientifico-tecnologica, emergono giocoforza anche le parole necessarie per descriverla. Negli ultimi anni, perciò, i cruscanti e i vocabolari hanno inserito, tra i nuovi lemmi, parole come “whatsappare” (2015), “skillato” (2019), “spoilerare” (2016), “svapare” (2013), “triggerare” (2020) e “boomer” (2021), ma anche “rider” (2019), “algocrazia” (2020), “bullizzare” (2019), “coding” (2020), “didattica a distanza” (2020) e “catcalling” (2021).
Il parlato precede, filogeneticamente, la scrittura; una lingua, per essere viva, ha bisogno di essere parlata, ma non ha necessariamente bisogno di essere scritta: in Oceania e in Africa, ad esempio, ci sono centinaia di idiomi che non hanno una tradizione scritta. è pur vero, tuttavia, che una lingua senza scrittura non ha difese contro l’oblio, soprattutto se la comunità dei suoi parlanti incomincia a contare sempre meno membri.
Balbuzie
Non ero diventato afono per il troppo piangere. Non ero afasico. Il mio linguaggio esisteva ancora, non si era dissolto nel nulla come accade nei pazienti reduci da ischemie cerebrali o tumori al cervello; esisteva, voleva uscire, trasformarsi in suono limpido e frase compiuta, ma non ci riusciva. Pensavo le parole, tuttavia queste restavano imbrigliate nel mio corpo, nel mio cervello, ovunque.
Mosé, Demostene, Aristotele, Cicerone e Virgilio erano tutti balbuzienti di grande eloquenza – per quanto Mosé parlasse al popolo ebraico per mezzo di suo fratello, Aronne -.
Il nome del matematico Niccolò Tartaglia, nato Niccolò Fontana e vissuto tra il 1499 e il 1557, sarebbe per sempre stato legato al suo difetto di pronuncia (si veda il verbo “tartagliare”), mentre qualche secolo dopo di Alessandro Manzoni, celebre fobico, si sarebbe saputo che solo per mezzo di un grande sforzo avrebbe pronunciato o scritto una sola parola davanti ad un pubblico.
Balbuziente sarebbe stato, molti secoli dopo, anche Giorgio VI, il sovrano inglese che ha attraversato che Seconda guerra mondiale e a cui è spettato il difficile compito di rincuorare la nazione via radio (a questo proposito, si consiglia la visione del Discorso del re, film del 2010 con Colin Firth e Helena Bonham Carter), insieme a Winston Churchill, suo contemporaneo, che per camuffare la sua difficoltà teneva tra le labbra un sigaro, spento o acceso che fosse.
E ancora, erano balbuzienti Somerset Maugham, dottore, scrittore e diplomatico, Lewis Carroll, professore di matematica a Oxford e autore di “Alice nel paese delle meraviglie”, ma pure il “nostro” Italo Calvino.
Unica donna che ricordiamo in questa breve e non esaustiva galleria è Marilyn Monroe: afflitta da una balbuzie che al liceo le procurava diversi problemi tra i coetanei, si affidò alle cure di un logopedista grazie al quale s’impadronì di una prosodia particolare, che avrebbe poi contraddistinto la sua carriera di attrice.
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