Sopravvivere alla catastrofe. Kurt Vonnegut e la scrittura del disastro.

di Barbara Catalano

© Nicola Bertellotti, Un coer en hiver

Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la notte?

La sentinella risponde: viene la mattina e viene anche la notte.

ISAIA, Capitolo 21 di Tanakh, versetti 11 e 12

La nostra è essenzialmente un’epoca tragica, per questo ci rifiutiamo di viverla tragicamente. Il cataclisma ormai c’è stato, siamo tra le rovine, iniziamo a ricostruire nuovi, piccoli habitat, cominciamo a nutrire nuove, piccole speranze. È un duro lavoro: non c’è più una strada spianata verso il futuro. Ma proviamo ad aggirare o ad arrampicarci sugli ostacoli. Dobbiamo vivere, non importa quanti cieli ci siano crollati addosso.

D.H. LAWRENCE, L’amante di Lady Chatterley


 

Quella notte non accadde nulla. Fu la notte successiva che morirono a Dresda, centotrentamila persone.

Il mattino del tredici un enorme stormo di svassi lasciò le rive dell’Elba e scomparve verso nord. Dalle finestre, il rosso delle creste illuminava il cielo torpido di febbraio. Una freccia che puntava compatta altrove, via dalla Città Vecchia, lontana dalle croci e i pennoni della Frauenkirche, oltre il Teatro dell’Opera.

Non era mai accaduto prima. Contro le nuvole gli uccelli sembravano razzi di segnalazione. Sotto, nelle piazze, al mercato, sul sagrato della Hofkirche, centinaia di occhi seguirono la partenza improvvisa.

Non è mai accaduto prima, bisbigliarono le voci in un passaparola sgomento.

Un’alluvione, dissero alcuni, il cielo era del resto già gonfio. Bisognerebbe controllare gli argini, far preparare alle donne e ai ragazzini i sacchi di sabbia. Le madri, le figlie. I bambini. Qualche sparuto vecchio. Gli uomini, tutti sui fronti della guerra da un tempo che pareva immemorabile.

La pioggia non venne. Al suo posto si presentò il fuoco che divorò le croci e i pennoni e il teatro e le piazze e il mercato e una tempesta di vento rovente risucchiò le madri, i figli e le figlie, e i vecchi e gli occhi e le voci che non avevano compreso il segnale degli uccelli, scaraventandoli tutti nell’inferno degli inermi.

© Nicola Bertellotti, Call of the wild.

Quando gli americani e le loro guardie vennero fuori, il cielo era nero di fumo. Il sole era una capocchia di spillo. Dresda era ormai come la luna, nient’altro che minerali. I sassi scottavano. Nei dintorni erano tutti morti.

Della città luminosa, non era rimasto nulla. Il passato estinto insieme al futuro. E un presente che al mattino si presentò agli occhi dei pochi superstiti sotto forma di ceneri e carboni ardenti, di pietre scomposte, di corpi irriconoscibili. La manifestazione di ciò che chiamiamo nulla e non sappiamo immaginare. Desolazione. Assenza di respiro.

Vedo il giovane soldato americano camminare accecato nella luce buia del giorno dopo, nel mutismo totale di un nulla (previsto, eppure imprevedibile); rovistare tra le pietre, intercettare frammenti di vita combusta, le dita di una mano, un piede saldamente fuso nella scarpa, occhiali incollati a simulacri di volti senza più sguardo. Lo immagino gridare una domanda muta, millenaria: Sentinella, a che punto è la notte?

Ma nel vuoto della distruzione, non avrà alcuna risposta o, se una risposta verrà, non sarà in grado di sentirla perché davanti alla catastrofe, non perdiamo solamente la voce: diventiamo sordi, non sentiamo più, e se qualche suono riesce a penetrare la barriera dello sbalordimento quel suono ci arriva frammentato. Ci sembra impossibile ricostruire un senso. Tastiamo il ricordo, frughiamo tra le macerie dei nostri sentimenti, privati di tutti le armi e gli strumenti di comprensione. Vaghiamo come revenants alla ricerca di conferme sul nostro passato.

Ero proprio io?

Era questo il mondo?

Non erano qui il mercato e la scuola e il greto del fiume e le madri, le figlie e i figli e i cani spelati in attesa sul sagrato della chiesa cattolica, le sue campane, e la musica e le porcellane e l’organo della chiesa protestante che ruggiva nelle mattine intorpidite della domenica?

E tu? C’eri anche tu?

E dove sei ora? E io, dove sono io?

Questo è un romanzo scritto un po’ nello stile telegrafico e schizofrenico in uso sul pianeta Tralfamadore […].

Questa frase in esergo a Mattatoio N.5 non è solo una ironica dichiarazione di stile. È la constatazione di uno scrittore alle prese con il disastro. Di un uomo assordato da una catastrofe che non potrà più essere solo altrui e diventa invece menomazione sua, personale e permanente, che del ricordo della tragedia può solo scrivere per frammenti perché la menomazione consta proprio dell’essere ormai umanamente incapace, dopo il disastro, di percepire sé stesso e il mondo come intero.

© Nicola Bertellotti, Veduta d’Italia.

Il disastro non mi mette in questione, ma toglie la questione, la fa scomparire, come se io scomparissi con essa nel disastro […]. Per Maurice Blanchot il rapporto con la scrittura può essere a questo punto solo violento, lacerante, frammentario come il resoconto sconnesso di Billy Pilgrim alter ego e specchio in frantumi del giovane Vonnegut alle prese con l’impossibilità di darsi ragione di ciò che ha visto e che lo ha mandato in pezzi e per il quale l’unico rifugio possibile è il ripetersi “così è la vita”, quasi come fosse un mantra salvifico: una dichiarazione di resa della ragione davanti all’incomprensibilità della catastrofe e l’abbandonarsi tra le braccia di un fatalismo consolatorio come ultima spiaggia dell’intelletto.

C’è di più. Le catastrofi non ci privano solo della verità sul nostro passato: al cospetto del nulla rimasto, non siamo più in grado di percepirci come futuro. Chiediamo “a che punto è la notte” ma non ascoltiamo la risposta della sentinella: la speranza per il futuro si è consumata anch’essa nel fuoco, nella devastazione.

Senza più un passato e privati della visione sul futuro, dopo una tragedia camminiamo sul posto, immobili in un presente fatto di istanti sempre uguali. Siamo stati travolti dall’immane e non possiamo far altro che restare in quel momento, nello sbigottimento. Fermi in mezzo allo sconquasso tra ruderi bollenti o immobili dentro a un letto che farà da ospite al nostro dolore, ripercorriamo con ostinata passione l’istante in cui è avvenuto il disastro.

Senza uno ieri che ci faccia da salvacondotto e che dica chi siamo e senza un domani nel quale proiettarci, siamo diventati le creature fragilissime di un presente demolito.

Se poi l’evento distruttivo ci vede del tutto incolpevoli, ci travolge ma siamo solo testimoni della furia che ci ha – incidentalmente? – atterrato, al sentimento di incomprensione e smarrimento si aggiunge un inguaribile dolore. 

Billy Pilgrim viene sottratto a questo dolore quando viene rapito e portato su Tralfamadore, pianeta abitato da creature eterne, esistenti in tutti gli istanti del Tempo. Coscienti dell’inizio e della fine, del prima e del dopo. Un rapimento che pare più una richiesta d’aiuto a capire, a dare risposta alla domanda sulla fine della notte.

Come… Come ho fatto ad arrivare qui?

Ci vorrebbe un altro terrestre per spiegarglielo. I terrestri sono bravissimi a spiegare le cose, a dire perché questo fatto è strutturato in questo modo, o come si possono provocare o evitare altri eventi. Io sono un tralfamadoriano. E vedo tutto il tempo come lei potrebbe vedere un tratto delle montagne rocciose. Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. È, e basta. Lo prenda momento per momento e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti nell’ambra”.

Sottrarsi, affidarsi a una conoscenza aliena sembra una soluzione finalmente razionale nella sua incredibile irrazionalità. Billy chiede, interroga le sue “sentinelle” tralfamadoriane. Vuole indietro il suo passato e insieme a questo la possibilità del futuro.

© Nicola Bertellotti, Facilis descensus averno.

Uno dei modi per trovare una soluzione al dolore può essere allora il ricorso all’ironia, nella scrittura e nella vita: l’ironia non è più solo uno strumento retorico ma la possibilità concreta di poterci guardare dall’alto e di recuperare la ragione e di ricucire le lacerazioni. E non importa se quell’alto è un disco volante che ci porterà verso un altro pianeta.

Ma l’ironia non sempre ci soccorre.

Paradossalmente, è quello stesso presente in cui siamo incarcerati che può offrirci una possibilità.

La storia di Billy finiva molto curiosamente in un sobborgo che non era stato toccato dal fuoco e dalle esplosioni. Al tramonto le guardie e gli americani giunsero a una locanda. Dentro c’erano delle candele accese. Da basso il fuoco ardeva in tre caminetti. C’erano tavoli e sedie vuoti che aspettavano che venisse qualcuno, e di sopra dei letti vuoti con le coperte piegate.

C’erano un locandiere cieco, la moglie che ci vedeva e faceva la cuoca, e le loro due giovani figlie che lavoravano nella locanda come cameriere. Quella gente sapeva che Dresda non c’era più. Quelli della famiglia che ci vedevano l’avevano vista bruciare a lungo, e si rendevano conto di essere, ora, ai margini di un deserto. Eppure avevano aperto ugualmente, avevano lustrato i bicchieri, caricato gli orologi e acceso il fuoco, e avevano seguitato ad aspettare che arrivasse qualcuno.

Siamo disperati e distrutti, inchiodati dalle immagini di quel che è accaduto. Qualsiasi gesto ci sembra impossibile eppure dentro conserviamo il sentimento dell’attesa. Forse non può esserci più speranza ma, quel moto inconscio che ci fa scrutare una porta, appoggiare la fronte al vetro di una finestra, resta vivo e vigile, come una divinità interiore che nostro malgrado, ci esorta alla reazione. Ma quale reazione può essere possibile? Cosa può aiutarci, insieme al distacco e all’ironia?

Per sopravvivere alla tragedia e al trauma, prima costruisci il futuro. Soltanto dopo ricorda il passato.

Questa frase di Jonathan Sacks e riferita alla Shoah contiene in sé un potenziale rivoluzionario. Qualcosa che ci sembra impossibile mentre restiamo fermi tra le rovine del presente.

© Nicola Bertellotti, Diario di un curato di campagna.

Tuttavia: è maggio inoltrato.

I tigli cominciano a mostrare il loro verde più tenero. La guerra è finita e nel tepore del sole qualcosa sembra tornare a riprendere un senso. In quel che è rimasto della città si fanno le prove generali delritorno alla vita, tentativi timidi, per ora. Forse il giovane soldato sceglierà di restare ancora un po’, di partecipare a questa incredibile rinascita. Magari, camminerà sulle ghiaie del greto dell’Elba ancora annerite dalle polveri dell’incendio.

Ma sono tornati gli svassi, e sembrava non potesse succedere più.

Barbara Catalano crede di essere sempre stata una libraia se per libraio si intende qualcuno che ama leggere e ama raccontare di quel che legge, nutrendo così le storie di altre storie. Ha iniziato a scrivere di libri e letteratura già da molti anni, su blog personali, sui social e su alcune riviste. Le piace cercare le connessioni nascoste tra libro e libro, a tutta prima invisibili, e portarle alla luce raccontandole.

Nelle sue foto, Nicola Bertellotti insegue la purezza. Fissa l’occhio su una perpetua prospettiva centrale e lì resta immobile: registra un mondo in cui la maceria è senza tempo, dilatata dalla distorsione del grandangolo.

Nei dettagli, nella luce del mezzogiorno e nella saturazione dei colori, mette al riparo il soggetto dallo struggimento romantico; le sue diventano città ideali dove il tema della rovina, raffreddato e ricostruito in un artificio ostentato, si libera dell’iconografia imposta da John Ruskin nell’Ottocento per aprirsi all’enigma distopico.

Le automobili abbandonate in una corsia definita dal bosco non sono l’ambientazione de La strada di Cormac McCarthy; il pianoforte accanto al camino bombardato non racconta una guerra dalla quale siamo sopravvissuti: quello che cattura lo sguardo è la scatola, il rigore del triedro.

La distruzione non interessa più, è già superata. Quello che conta è la linea.

Nicola Bertellotti (1976) vive a Pietrasanta e viaggia per il mondo cercando di riscoprire la gloria passata di luoghi dimenticati. Quel che emerge nella sua estetica è la nostalgia del paradiso perduto, espressa nell’amore per le rovine, e la riproposizione in chiave fotografica della poetica decadente. Autodidatta, scatta le sue immagini alla luce naturale utilizzando una fotocamera digitale di medio formato. Nel 2014 Petrartedizioni pubblica Fenomenologia della fine, un catalogo che riunisce molte delle sue serie. Ha esposto in varie gallerie d’arte contemporanea e musei; tra le principali mostre: Hic sunt dracones, Castel dell’Ovo, Napoli (2016); Aftermath, Isculpture gallery, San Gimignano (2017); The Great Beauty, Pärnu Museum, Pärnu (2019); Paradiso Perduto, Estella Gallery, New Orleans (2021). Le sue opere sono presenti in diverse collezioni pubbliche e private e sono apparse su prestigiose riviste, tra le quali : Esquire, Arte, Artedossier, Elle Decor, Lampoon, Bild, Daily Mail, Milieu.Magazine.

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