Ai bambini si perdona tutto. Il Puer aeternus nel cinema mainstream.

di Deborah D’addetta

© Filippo Ciavoli, Graste.

Tra la vergine e l’uomo, affinché costui possa cader vittima della malia, dev’esserci un divario di diversi anni – mai meno di dieci.

Lo diceva Vladimir Nobokov in Lolita.

Una dichiarazione che potrebbe far inorridire, ma Luc Besson, osannato regista del film Léon, deve averlo preso in parola perché la storia di Matilda e di Léon è ispirata alla vera relazione amorosa tra lui e Maïwenn Le Besco. Incontrata quando lei aveva dodici anni e lui ventinove, ebbero una figlia dopo appena quattro anni. Potremmo affermare che quei dieci anni di differenza augurati da Nabokov siano stati rispettati appieno.

È difatti lo stesso divario d’età che incontriamo anche tra i protagonisti di Léon, le cui iniziali dei nomi, a voler forzare la mano, sono le stesse di Luc e Maïwenn.

La correlazione è presto fatta. Mathilda è una neo-Lolita: troppo sensuale, troppo smaliziata, troppo adulta; Léon però, a differenza di Humbert, non si macchia di pensieri impuri. Sta proprio qui la differenza e, al tempo stesso, il nesso: il film e il libro trascinano il pubblico in un mondo dove ci si dimentica della morale per concentrarsi sul sentimento e sulle ragioni del creatore; quelle ragioni che spingono ad andare oltre un’apparenza sordida, per indagare un rapporto ben più stratificato. Se con Lolita Nabokov sfiorava tematiche controverse, quali la pedofilia, la violenza, l’ossessione, il disturbo psicologico, in Léon tutto viene alleggerito da un rapporto tenero, quasi macchiettistico, tra Léon e la sua piccola compagna.

Sembrano esserci due correnti di pensiero: quella di chi ha visto il film all’epoca della sua uscita e quella di chi lo ha visto molti anni dopo. I primi lo osannano, minimizzandone difetti e antinomie; i secondi, pur apprezzandolo, sono consapevoli dell’effetto stridente che ha la storia oggi, in un’epoca in cui tematiche quali l’emancipazione femminile, la misoginia e lo sfruttamento del corpo della donna sono al centro del dibattito.

Non che nel 1994 non se ne parlasse. Semplicemente ora la battaglia è più infuocata.

Come si posiziona allora un film come Léon in questo contesto?

Partendo dalle radici, si citava Lolita, romanzo del 1955. Nel corso del tempo la figura della giovane ammaliatrice è diventata mitologica, arrivando a guadagnarsi un aggettivo tutto suo, lolitesco, tramite il quale si fa riferimento a certi atteggiamenti maliziosi, sensuali e ingenuamente sfacciati. 

Mathilda è tutto questo e anche di più. Pur presentando le caratteristiche tipiche della ninfetta, non viola mai il confine. Il suo rimane un sentimento ingenuo, una cotta come verrebbe da dire, un amore-non-amore nato dalla mancanza, dal lutto e dalla solitudine.

In un gioco di associazioni meno scontato, potremmo scomodare Pigmalione di George Bernard Shaw: se nella commedia il professor Higgins si proponeva di trasformare la povera e ignorante Eliza in una donna di classe, così in Léon (ma ancor di più in La Femme Nikita, prequel dello stesso Besson) lo svampito killer ha come obiettivo fare di Mathilda in un’assassina. In entrambi i casi, le allieve s’innamorano perdutamente degli insegnanti, molto più vecchi di loro. Ed ecco che vediamo Mathilda rientrare nei canoni della ragazzina innocente socialmente accettata: nelle commedie più famose degli inizi Novecento le donne non venivano rappresentate in modo equivoco, a meno che non si citasse esplicitamente una prostituta. Ma anche qui esistono eccezioni, se pensiamo al precedente La Signora delle camelie: Margherita Gautier è difatti una prostituta, ma Dumas non ne parla mai in termini dispregiativi. Anzi, la sua storia d’amore con Armando Duval è divenuta emblema dell’amore romantico. Una missione di pulizia che Besson applica anche alla sua giovane ninfa che appare sì maliziosa, ma a causa degli eventi: una vittima sfortunata cresciuta troppo in fretta.

© Filippo Ciavoli, Pongu.

Basi solide per un film divenuto, nel corso degli anni, così mainstream da ispirare travestimenti a tema: non di rado si vedono ragazze travestite da Mathilda, con tanto di collarino nero e piantina sotto al braccio. Mathilda piace perché è bella, perché è cool, perché ha creato una moda; perché è una bambina e ai bambini si perdona tutto. Assomiglia così tanto a Valentina di Crepax; a una Valentina alle soglie della pubertà, che a sua volta assomiglia a Louise Brooks, attrice e ballerina statunitense degli anni Venti. Allo stesso modo piace Léon, forse ancora di più: fanciullesco, lento, innocuo, è il protagonista di un’inversione di ruoli non accidentale: se Besson lo avesse reso un vero killer spietato trasudante testosterone, la storia non avrebbe avuto lo stesso successo. Invece il suo essere stralunato giustifica ed esorcizza il confine sottilissimo tra il permesso e lo scandalo. Se la figura di Mathilda crea comunque ambiguità, con Léon il pericolo non viene sfiorato. Per tutelare l’accessibilità del film e la sua diffusione, Besson sapeva di dover bilanciare i comportamenti dei due personaggi: laddove quello femminile sconfinava nel non ammissibile, quello maschile smontava ogni dubbio. Si tratta di un killer sì, ma di un killer atipico, che più che interessato a Mathilda come piccola donna ne rimane affascinato come essere umano.

© Filippo Ciavoli, Cevachi.

Nonostante il mestiere, Léon sembra un bambino, con la sua pianta e i litri di latte. Curioso che un personaggio così profondamente buono, ne beva così tanto. Nei maggiori titoli della cinematografia internazionale, chi beve latte è un gran cattivo: si potrebbero citare Alex in Arancia Meccanica; James Dean in Gioventù bruciata; Hans Landa in Bastardi senza gloria; Anton Chigurh in Non è un paese per vecchi; Loris ne Il mostro; Jeffrey detto Drugo ne Il grande Lebowski e, alle origini del cliché, il famoso bicchiere di latte ne Il sospetto di Hitchcock.

Il latte come simbolo d’innocenza, di fanciullezza, fortemente contraddittorio tra le mani di un assassino, in quelle di Léon tuttavia riacquisisce la sua connotazione pura, se si pensa a quanto insista perché Mathilda ne abbia la sua dose giornaliera, un invito a farla tornare bambina.

© Filippo Ciavoli, Carcatta darme.

Perché dunque, nonostante le contraddizioni, Léon è diventato un cult?

Si potrebbe rispondere che sono proprio le contraddizioni il segreto di tanto successo. I protagonisti di Léon (come non citare anche Gary Oldman nelle vesti del pazzoide Norman?) sono difettosi, strani, teneri, dolci ma anche pieni di problemi. Il loro modo di relazionarsi, che sia socialmente accettabile o meno, è indiscutibilmente umano.

Pur avendo subito delle feroci critiche nell’anno della sua uscita, Léon ha quasi immediatamente assunto lo status di film di culto, nonostante le sbavature. E questo perché guarda al rapporto tra i personaggi per quello che è: un tenero tentativo da parte di entrambi di amare. Forse oggi un messaggio così semplice finirebbe per essere ingoiato da accuse di scandalo, di pedofilia e malattia mentale. Eppure il legame tra Mathilda e Léon non è altro che una metafora dell’emarginazione che viene combattuta tramite la vicinanza e l’affetto, ai quali i due si aggrappano disperatamente.

E allora si può serenamente affermare che proprio tutti questi dettagli, piccoli ma importantissimi, hanno contribuito a rendere Léon uno dei migliori film degli ultimi decenni, arricchendo per sempre il panorama cinematografico mondiale con la sua strana storia d’amore.

Mathilda: «Ho finito di crescere. Sto invecchiando».

Lèon: «E per me è il contrario: sono grande abbastanza, ho bisogno di tempo per crescere».

Deborah D’addetta pugliese di nascita, napoletana d’adozione, si definisce una flâneuse. Scrive, mangia e vaga per il mondo, accompagnata dalla sua macchina fotografica a pellicola. Laureata in Lingue Orientali, adora i musei, i gatti sfinge e ha un feticcio per gli spaghetti al pomodoro. Attualmente scrive per alcuni magazine online, di cibo, cultura pop, arte e viaggi (QuaerereScatti di gustoItaly SegretaCasa di RinghieraFormicaleone). Suoi racconti sono comparsi su A4Blam RivistaIdrovolante EdizioniFantastico!Donne Difettose.

Nelle figure di Filippo Ciavoli l’occhio è chiamato a ricomporre i fuori contorno di una linea che si sforza di delimitare uno spazio deflagrato. Planimetrie e fughe d’angolo impazzite racchiudono presenze fantasmatiche eppure abbastanza umane da suscitare pietà e spavento, nel loro slabbrarsi al di fuori di sé.

Il disegno riesce nell’intento di congiungere pesantezza e leggerezza: le membra protuse, pesanti, sembrano ancorate irrimediabilmente a terra, tuttavia sono animate da uno slancio eroico verso l’altrove. Il pugno gigantesco di “Pongu”, la mano artigliata di “Graste”, le gambe piegate in cerca di maggiore stabilità di “Cevachi” si spingono in avanti con la stessa forza con cui rimangono inchiodate a terra. Il risultato è un’immobilità vibrante, racchiusa entro i tratti di un’ombra entro cui il segno grafico cerca, senza trovarla, la propria unità.

Filippo Ciavoli (Pietrasanta, 1977) inizia a fare pratica di disegno, modellato in creta, tecniche della fusione e taglio della pietra a quattordici anni quando entra nello studio di Igor Mitoraj come unico allievo del maestro, dove rimane fino al 2000. Nel frattempo si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Carrara con una tesi in storia dell’arte sul concetto di caos nell’arte contemporanea. Negli anni ’90 lavora anche a fianco dello scultore Giò Pomodoro e nel ’94 collabora con il noto land-artist scozzese Andy Goldsworthy alla realizzazione di una grande scultura in sabbia presso il Museo Egizio di Torino. Dal 2000 circa, a tutt’oggi, si specializza nella lavorazione della pietra e del marmo, lavorando principalmente ancora sulle opere del maestro Mitoraj, e collaborando anche con vari altri artisti (Bruto Pomodoro, Kan Yasuda, Mauro Corda, ecc.). Di pari passo porta avanti da sempre la sua ricerca artistica che si è espressa nel tempo tramite i materiali più disparati, dalla pittura alla plastica, passando per la grafica, sia tradizionale che digitale.

Ha vinto numerosi premi internazionali (Premio Citta di Carbonia, Premio Henraux, etc.) e partecipato a mostre personali e collettive (Milano, Parigi, Bruxelles, Miami, Napoli, Bologna). Nel 2019 espone una grande replica, oggi a Minorca, di “Corallo”, in marmo bianco statuario, presso il Battistero di Pietrasanta, e altre due sculture in legno dalla serie “Spore” in Piazza Dante a Forte dei Marmi.

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