di Sara Verdecchia

A Napoli sembra arrivata la fine del cinema porno Agorà, chiuso ormai da qualche mese, in via dei Guantai Nuovi, incastonato tra la Casa del Mutilato di Guerra e la questura di Napoli — la necessità di proiettare il sesso sorta nel mezzo di una sfrontata architettura fascista. Da una parte quelli che scelgono con orgoglio di essere percepiti come sconci individui sessuali e dall’altra le forze dell’ordine, a fronteggiarsi ogni giorno (i primi con indosso pantaloni della tuta e gli altri con un’arma da fuoco sul fianco), separati solo da un viale alberato. La prima volta che lo vidi era ancora aperto, conservava un aspetto rispettabile, merito del marmo bianco e delle alte colonne all’ingresso.
Non era raro vedere uomini sostare affranti davanti alle locandine che annunciavano “CINEMA A LUCI ROSSE”, camminando avanti e indietro e fumando sempre più sigarette con l’intensità e lo scoramento di chi si è ricavato una pausa da un turno di lavoro troppo lungo.
Provavo già allora a informarmi sugli spettacoli e conservo la registrazione della telefonata imbarazzante intercorsa tra me e un uomo che percepiva dalla mia voce che ero una ragazza e mi diceva che “per correttezza” doveva informarmi che il luogo in cui stavo cercando di andare era un cinema a luci rosse, io gli rispondevo che lo ringraziavo ma che lo sapevo già e la conversazione si spegneva con lui che forse pensava per la prima volta a cosa ne fosse stato della moralità e a che tipo di società avevamo costruito, se una ragazza sceglieva di venerdì sera di chiamare il botteghino di un cinema porno per farsi dire quali erano le pellicole in programma. Ho cercato in seguito informazioni online per poter capire la storia di questo posto e ho scoperto che negli anni ha accumulato parecchia notorietà nei forum gay e transgender — quelle persone queer che oggi si stanno lentamente ricollocando nella comunità LGBTQ+, ma per le quali fino a pochi anni fa era impossibile manifestare la propria identità se non in un contesto di segretezza. Alcuni utenti chiedono a quelli che ci sono già stati se possono vestirsi come vogliono, quanta libertà c’è nelle sale e che tipo di persone lo frequentano. Ho letto che il biglietto di ingresso era in realtà una sorta di lasciapassare che permetteva di trascorrere fino a 12 ore all’interno del cinema e di muovercisi dentro liberamente. Mi ha colpito che quasi tutti quelli che raccontavano la propria esperienza volessero specificare che il sesso non è scontato, puoi trovarlo oppure no, ma se lo vuoi devi chiederlo ed essere educato anche quando vieni rifiutato. Ho parlato con un uomo bisessuale che frequenta il Ritual (un fetish party che ha l’intento di essere appunto un rituale, una cerimonia di condivisione per celebrare ogni stile di vita, modo di essere, kink, etnia, minoranza, sessualità alternativa, identità di genere e orientamento sessuale) a Roma. Mi ha raccontato dello smarrimento che alcune persone etero provano quando scoprono che quello non è un evento a cui si prende parte per fare sesso facile. Quella che per loro è ricerca di trasgressione è in realtà uno spazio in cui le persone queer possono tornare a manifestarsi dopo una segregazione e sì, anche a scopare se è quello che desiderano. Mi sono chiesta per quanti di loro questi luoghi possano essere stati fondamentali nell’educazione al sesso e al proprio corpo, nella libertà di esprimerela propria identità, e se non sono quindi l’ultimo avamposto della pornoresistenza contro le politiche fasciste, ma anche libertarie con la prospettiva di certe linee radicali, che riconoscono una sola forma di sesso morale.
Sono stata in un cinema porno una sola volta, qualche anno fa, a Roma. Era metà pomeriggio ed ero andata con un ragazzo che frequentavo. Quel giorno indossava una giacca di tweed, un tessuto troppo assorbente per quel tipo di luogo, anche se ricordo bene l’odore di disinfettante, fortissimo e ospedaliero. Mi fece pensare a quanto fosse importante, per permettere al pubblico di costruirsi un ricordo decente dell’esperienza, ridurre al minimo la possibilità di subodorare i fluidi corporei degli sconosciuti. L’olfatto è un senso instabile e senza filtri, potrebbe fornire al cervello la precisa idea di putridume e sarebbe spiacevole, a meno che non sia qualcosa che si desidera ricreare. Penso infatti alla scena de “La Pianista” in cui la protagonista Erika (Isabelle Huppert) va in un sexy shop ed entra in una di quelle cabine, credo ormai scomparse, in cui c’è un piccolo schermo sul quale vengono proiettati film porno. Lei ha una faccia immobile e col telecomando si ferma sull’ ’immagine di una donna distesa che pratica del sesso orale a un uomo che la sovrasta, stando in piedi e facendole scorrere le mani addosso. Nulla sulla faccia di Erika si muove, ma il suo sguardo si appassiona e per completare quel momento allunga una mano verso il cestino della spazzatura che ha davanti a sé, recupera il fazzoletto in cui l’uomo che era lì prima di lei ha da poco eiaculato e lo inala. Sta cercando in quell’odore qualcosa di minuziosamente definito nella sua eccitazione. È una delle scene più oneste sullo spettro del desiderio e del diritto al piacere che siano state filmate in un’opera destinata a lusingare i lobi frontali e non alla sola reazione fisica (che comunque si manifesta anche in chi non la guarda con attitudine voyeuristica). Michael Haneke sceglie di non mostrare la masturbazione, che ci si aspetta essere il compimento di tutti quegli stimoli. Se lo avesse fatto sarebbe stata rivolta agli uomini e sarebbe andato perso quel disagio astratto che la solitudine di Erika, con la sua apparente immobilità, riesce ad evocare.
Dell’esperienza nel cinema mi colpirono le reazioni delle persone che ci accolsero, un uomo non tanto giovane e tatuato e una donna bellissima con un accento dell’est Europa. Lei era vestita con gli abiti che puoi acquistare solo nel reparto abbigliamento di un sexy shop, tessuti lucidi e in scarsa quantità, lunghi capelli biondissimi, truccata in modo appariscente. Una bimbo perfetta, figura che la giornalista transessuale Andrea Long Chu nel suo saggio “Femmes” definisce «femminilità incarnata e resa autorevole», proprio per le sensazioni potenziali che riesce a suscitare in chi la guarda. Credo che il suo ruolo lì fosse quello di rassicurare il pubblico, perlopiù maschile, diventando una sagoma nello sfondo delle loro fantasticherie solitarie, fargli capire che nonostante la loro presenza in quel luogo, avrebbero potuto continuare ad allontare l’idea di un sesso alienato e trovare uno sguardo di complicità tra le ciglia coperte da vari strati di mascara di una ragazza che sa di avere un ruolo in un gioco. L’uomo ci guardò, stupito dal fatto che fossimo giovani, che fossimo lì insieme, e ridacchiando disse che avrebbe aperto la balconata solo per noi, così saremmo stati tranquilli. Ci tenne a precisare che non avremmo incrociato nessuno degli altri spettatori. La ragazza staccò i biglietti e mi fece un sorriso gentile, di comprensione, pensava fossi lì per accontentare l’uomo con cui stavo e voleva mostrarmi una forma di solidarietà nutrita dalla certezza che io fossi una ragazzina remissiva, o non mi sarei di certo trovata lì. Non so chi abbia diffuso l’idea che le ragazze cosiddette normali possano provare solo disgusto o tollerenza verso le immagini di sesso esplicito.
Della sala ricordo che faceva un buio pesto e che c’erano dei rumori che ogni tanto si staccavano dal suono del film proiettato, tipo il rumore dei pacchetti di fazzoletti che si aprono o lo scricchiolio delle poltrone quando ci si sposta con decisione. Il film era brutto, pessima qualità e datato, lo si capiva dal tipo di corpi esposti (naturali, diciamo realistici), dalle acconciature delle ragazze e dalla sostanziale amatorialità della scena, quella che è stata la fortuna di certe produzioni porno italiane degli anni ‘80. Gli attori sullo schermo davano l’impressione di esserci intrappolati e che avrebbero continuato a fare sesso all’infinito, o almeno finché ci fosse stato qualcuno a guardarli.
Alla fine della proiezione sono andata in bagno e ho incrociato un uomo che usciva da un cubicolo e che ha tenuto gli occhi a terra mentre mi passava accanto, ho capito che quello è un luogo in cui si va per non sentirsi soli e anche che forse per molti è l’unico posto che concede di mostrare l’eccitazione per quello che è. Volersi sentire nudi è diverso e più sottile dall’essere nudi, oltre a creare una fluidità ininterrotta tra il desiderio e l’appagamento. L’eccitazione è un sentimento liminale, non tutte le fantasie diventano sesso e questa è una certezza con la quale riusciamo ad amplificare il godimento e a renderlo libero. Tutto ciò che è piacere sarà sempre più mercificato man mano che il capitalismo e la tecnologia accelerano. L’ultimo decennio ha reso effettiva la possibilità di godere di esperienze sessuali senza dover uscire di casa o dedicarci del tempo reale. Le sessioni in cam, Onlyfans, i social media e la pornografia in streaming sono i punti di riferimento della storia del desiderio contemporaneo e i nuovi volti del lavoro sessuale. Mi interessa capire come viene inteso il piacere, come parola e come sensazione, dopo l’ascesa dell’economia dell’attenzione, che generalmente tende a privilegiare l’anticipazione rispetto alla soddisfazione. Sono abituata a sentire discorsi sulla mia generazione, quella che attualmente sta raggiungendo la maggiore età o è nei suoi vent’anni, e su come non sia così tanto interessata al sesso. O meglio, a quanto pare, non ne è ossessionata, ma ne è in parte sopraffatta, per via della mancanza di strumenti con i quali avvicinarlo. I più cinici parlano di una forma di inebetimento collettivo e se ne preoccupano dedicandoci un’attenzione quasi scientifica e parlano di svogliatezza., In realtà siamo cresciuti facendo tutto e vedendo tutto, perché ci è stato sempre portato agli occhi con una naturalezza che era la risposta della società alla censura, all’invenzione del porno-chic, alla cultura pop degli anni ‘80-’90 e a tutte le teorie post-porno moderne, quando il termine “movimento” veniva usato per tenere sotto controllo l’individualismo. Ho un’amica mia coetanea che fa la escort a Berlino da quando era poco più che maggiorenne e mi ha detto che tutte le persone autodeterminate che ha conosciuto nell’industria del sesso sono istruite, consapevoli, disgustate dal capitalismo e dall’idea di trovarsi un lavoro che non permetta loro di avere controllo diretto del proprio tempo e delle proprie sensazioni. Scelgono di farlo perché per loro è un lavoro facile in termini di impegno e responsabilità rispetto alle altre opportunità che avrebbero.

Riflettendo sulla percezione del sesso che ho io e che hanno molti dei miei coetanei, mi viene in mente Travis Bickle in “Taxi Driver” che invita la ragazza che gli piace a un appuntamento e la porta in un cinema porno. Lei si scandalizza e se ne va offesa, lui la insegue gridando: «Non sapevo che non si potesse fare». È un argomento di conversazione interessante, un’offerta naturale, non c’è un valore intrinseco da preservare. Un’era definisce il piacere che proviamo o sono i piaceri che proviamo a definire la nostra era? I sistemi sempre più simbolici che usiamo per comunicare influenzano anche il modo in cui proviamo a godere e quello che ricerchiamo nel godimento. Ho vissuto tutto il periodo in cui ho cominciato a essere sessualmente attiva accumulando esperienze sessuali formative come in un processo di eliminazione che si sarebbe fermato quando avrei trovato un’estasi completa e saziante. Mi imbarazza sapere che legavo il mio piacere, e quello delle persone con cui lo vivevo, alla percezione che avevo della mia fisicità, finendo per trovare i miei impulsi erotici quasi terrorizzanti. A questo proposito, nel 1966 Virginia E. Johnson e William Howell Masters pubblicarono il saggio “The human sexual response” rendendo nota la preoccupazione orgasmica che affliggeva i sessi. Una decina d’anni dopo, Hal Ashby ha girato “Coming Home”, uno dei tre film degli anni ’70 costruiti sugli orgasmi di Jane Fonda (gli altri due sono Klute e Barbarella). I suoi personaggi femminili e la loro varietà di orgasmi sono diventati l’incarnazione vivente della mentalità degli anni ’60 e ’70. Il suo coinvolgimento attivo con i movimenti contro la guerra divenne intrinsecamente legato alla politica sessuale, secondo cui il buon sesso e le buone rappresentazioni del sesso potrebbero essere l’unica vera resistenza del desiderio nella società del progresso capitalista. Da lì quanto siamo progrediti? Il sesso e l’orgasmo che cerchiamo hanno ancora una funzione cerebrale: la giornalista Emilia Petrarca, in un pezzo su The Cut, scrive che gli utenti delle app di incontri specificano molto spesso nel loro profilo di voler abolire il capitalismo e cibarsi delle carcasse dei ricchi, questo per mettere in chiaro gli aspetti di una potenziale connessione ideologica. Il buon sesso è una performance iper-letterale, di dipendenza e alchimia. Non riesco a immaginare un tempo senza internet in cui non si potesse chiedere a qualcuno di raccontare il sesso che si sperava di raggiungere insieme, prima che avesse davvero inizio nel mondo fenomenico.
Quando parlo con persone più adulte di me scopro che hanno una visione del sesso, del pudore e dell’approccio sessuale molto diversa rispetto a quella che conosco, più sfumata e con più sottointesi.
Qualche sera fa ero con alcuni amici che hanno tutti trent’anni o poco più. Raccontavano un caso di “atti osceni in luogo pubblico” e ne sembravano scioccati. Pur sforzandomi non riuscivo a capire perché stessero pensando quello che pensavano, soprattutto non quel raccapriccio, e ho realizzato che per me e quelli della mia generazione è estremamente raro provare dello stupore vero per qualcosa che ha a che fare col sesso e forse, per estensione, con l’uso del corpo. Il risveglio sessuale è avvenuto quasi per tutti noi con la visione volontaria o involontaria di materiale pornografico. Siamo cresciuti con Paris Hilton che diceva (cito a memoria, ma sono sicura che sia testualmente) «la verginità non è un valore, ma una forma di ignoranza», e abbiamo visto Bella Hadid trasformarsi nella donna più bella del mondo secondo parametri scientifici, la figura aliena di Kim Kardashian diventare un modello nuovo di eteronormatività dei corpi. Tutto è sessualizzato e al tempo stesso desessualizzato. Ovviamente nel mondo reale l’espressione sfrenata del desiderio sessuale è incompatibile con la civiltà, la società punisce coloro la cui lussuria ha la meglio. La maggior parte di noi vive imparando ad autodisciplinarsi, più o meno, a non agire sui nostri impulsi sessuali quando pensiamo che sia sbagliato, ma restiamo increduli davanti alle forme più sottili di seduzione o di sessualità, quelle che richiedono uno sforzo di decifrazione per la loro trasversalità rispetto alla chiara esposizione. Quello che mi colpisce, quando discuto del concetto di piacere, soprattutto con le donne, è il loro bisogno di individuarlo. Il piacere è interiore, si scopre, deriva da stimoli intellettuali o emotivi, eppure l’intellettualizzazione del piacere può sfociare nella nevrosi, che distrugge la capacità di avere un orgasmo. I corpi dunque si aprono grazie agli organi nascosti che danno il senso dell’osceno, quando qualcosa suscita una specie di umidità sinaptica. Nel film “Amateur” di Hal Hartley troviamo una suora vergine e ninfomane (sempre la Huppert, perfetta in questi ruoli per la sua faccia da borghese accanita), che lascia il convento in cui ha vissuto per gran parte della sua vita adulta per poter esplorare la sua sessualità. Per vivere si mette in testa di poter scrivere per dei giornaletti porno e ogni volta che sta davanti al suo editore a leggere i componimenti su cui ha lavorato, quello scuote la testa e le grida: «Non va affatto bene, questa è poesia!». Lei replica, urlando e perdendo la sua fissità: «No, è pornografia!».
“Headshot” è un film porno della regista Jennifer Lyon Bell, un esperimento di tensione e immaginazione. Il film si apre sul volto in primo piano di un ragazzo, dietro di lui una parete. Sentiamo alle nostre spalle il suono di una porta che si apre, il ragazzo sorride e saluta una ragazza che ricambia ed entra nella stanza restando fuori dall’inquadratura. La ragazza quasi immediatamente si inginocchia e comincia a praticargli del sesso orale. Per tutto il tempo emette suoni e vediamo il volto del ragazzo che si contrae e si eccita, muove le braccia, forse per metterle le mani addosso, tentare di toccarla, ma lei lo respinge. Possiamo solo immaginare quello che lei gli sta facendo. Il sesso è solo nella nostra testa. Inoltre il ragazzo sta subendo l’atto che sentiamo, percepiamo, ipotizziamo, la figura maschile non è più quella che detiene il potere. Il momento dell’orgasmo maschile, che nella pornografia etero mainstream è la fine del film, nonché la fine del piacere della ragazza, assume così caratteristiche molto diverse e un clamore inaspettato. La regista Erika Lust ha da poco lanciato una piattaforma di streaming che si chiama Else Cinema, dedicata, dice, a tutti quelli che vogliono eccitarsi ma che non vogliono guardare del porno in senso stretto. Tra i film che propone ci sono soggetti facilmente riconducibili alle esperienze di vita che conosciamo, contesti che sono abbastanza plausibili e girati di modo da non farli sembrare una produzione professionale, degli sceneggiati Netflix in cui nell’arco narrativo è consentito vedere le persone nude. I personaggi parlano, hanno una storia personale che si rivela in qualche dettaglio, forse hanno persino un nome proprio. Di sicuro nessuna ragazza esce dalla doccia e si ritrova una squadra di baseball in cortile, nessun ragazzo minorenne viene addestrato al fisting anale dal suo attraente e assurdamente glabro professore di matematica — sarebbe bello se l’esplorazione del grottesco si liberasse da certi limiti di copione per dedicarsi alle fantasie ancora inesplorate, se non da alcune produzioni d’avanguardia; penso alla “Puzzy Power” di Lars von Trier, Annie Sprinkle, Candida Royalle o Scarlot Harlot, per cui il sesso è un gioco politico e può assumere qualsiasi forma, in cui i corpi possono non essere corpi terrestri e tutto si allenta in una dimensione magica e imprevedibile. La poetessa, attivista e sex worker Rachel Rabbit White scrisse un post su Instagram, poi rimosso a causa delle linee guida, in cui diceva che era stanca di non potersi più definire “escort” come aveva sempre fatto. La parola ormai era criminalizzata e se la usava i suoi account potevano essere eliminati, inoltre i suoi clienti erano sempre più lontani dal vederla come una sex worker (sapevano che lo era, ma non volevano che lei lo facesse capire quando stavano insieme). La tendenza è quella di cercare una finzione ben mascherata, e fruire di contenuti che non abbiano il marchio dell’industria dei servizi. Poiché il sesso è sempre mediato dal capitalismo, ci ritroviamo a volerne essere attori.
Ci viene insegnato che meglio conosciamo noi stessi, più ci sentiremo a nostro agio con il sesso, ma questo presuppone molto: che le nostre vite sessuali siano sotto il nostro controllo e che conoscere se stessi sia una certezza per riuscire ad amarci. La popolarità del gioco di ruolo e del cosplay nella pornografia è testimonianza di un’altra teoria: forse meno siamo consapevoli della nostra identità, più siamo vicini a provare un piacere puro. Simone de Beauvoir ne “Il Secondo Sesso” scrive che il confine tra la personalità e la completa auto-oggettivazione è sottile come un sussurro. Un essere umano deve poter sperimentare se stesso sia come soggetto che come oggetto. Un soggetto, scrive, è un essere che ha i mezzi per esprimere il suo senso di ciò che conta nel mondo, per osare e avere voce in capitolo. Parte dell’essere sudditi, pensava de Beauvoir, è lasciarsi essere oggetto del giudizio altrui, razionale o irrazionale: rischiare di essere ridicolizzati o condannati o ignorati o, peggio, ritrovarsi convinti che i giudizi degli altri siano veri. Forse è la complessa combinazione di auto-riconoscimento e rifiuto che riesce a risvegliare al meglio i nostri sensi.

Sara Verdecchia è nata in Abruzzo nel 1997. Collabora con la rivista Split di Pidgin Edizioni. Vive a Napoli e manifesta una crescente insofferenza per le scalinate.



Le foto di Laura Petra Simone sono scrigni, scatole contenenti oggetti misteriosi, il cui cuore scuro è l’ultimo e più segreto dei misteri: il desiderio femminile.
La camera coglie lo sguardo silenzioso di una donna – anche e soprattutto quando si nasconde oltre i confini dell’immagine – e ce lo restituisce come specchio. Siamo noi a essere osservati, spiati dalla fessura tra le ante dischiuse di un armadio, passati al setaccio mentre con noncuranza lei continua a mettersi lo smalto.
La superficie di questi scatti ha la patina di un cammeo, le pose immobili da ritratti da camera conferiscono alle immagini un suono senza tempo, un lirismo da Belle Époque. Ma il corpo del pesce apparecchiato sulla pancia, le ali dell’assorbente sullo slip nero ricordano che la donna è un mostrum, un delicato passaggio mai del tutto compiuto tra regno umano e animale, e come tale va trattato.
Laura Petra Simone nasce il 2 marzo 1997 a Grottaglie. Laureata in violino presso il conservatorio” G. Paisiello di Taranto, utilizza l’autoritratto attraverso la fotografia digitale per immortalare e approfondire il rapporto tra corpo e oggetti d’uso domestico, divenendo parte di vere e proprie performance concettuali dall’estetica tenue e onirica. Attualmente prosegue il suo percorso lavorativo e artistico presso Milano, città d’adozione
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