di Francesca Mattei

A chi serve?
Quando mi hanno chiesto di scrivere un pezzo “sull’ambizione nella scrittura femminile”, raccontando la mia esperienza come “giovane donna” esordiente “che si avventura nei territori del patriarcato” (dal momento che anche il mondo editoriale è ancora caratterizzato da una forte presenza maschile), la prima cosa che mi sono chiesta è stata: “Perché proprio io?”. È stata una reazione spontanea, che, involontariamente, diceva già molto riguardo a ciò di cui avrei voluto parlare.
Era un po’ di tempo che mi proponevo di scrivere qualcosa sul tema della vergogna. I due argomenti mi sono sembrati subito collegati. La vergogna è, senza dubbio, l’emozione che provo più spesso, eppure, fino a pochi anni fa, non sapevo neanche che fosse un’emozione. L’ho scoperto grazie a un saggio di Gabriella Turnaturi: Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, testo nel quale si tenta di definire il significato sociale di questo termine e di evidenziare come si trasformi nel corso della storia. A questo punto, mi è venuto spontaneo pormi due domande.
La prima riguarda le cause della mia vergogna: di che cosa mi vergogno e di fronte a chi?
Il secondo, e più complicato, quesito ha a che fare con la legittimità di provare determinate emozioni, soprattutto quelle ritenute “negative”.
Ecco dunque che, nel tentare di rispondermi, l’unica cosa che sono riuscita a fare è stata pormi un’altra domanda. Se non sono in grado di registrare, riconoscere, accettare, validare e, infine, esplicitare le mie emozioni (con particolare riferimento a quelle non “positive”), quanto dipende dalla mia esperienza biografica – e dalla mia scarsissima intelligenza emotiva – e quanto dal fatto che sono donna?
Secondo Turnaturi, “a seconda delle epoche storiche, dei contesti sociali e culturali alcune emozioni sono approvate e le loro espressioni sono incoraggiate, mente altre sono guardate con sospetto. […] La rabbia e l’ira sono state interdette per molti secoli alle donne in quanto venivano considerate emozioni poco congrue al genere femminile e al loro ruolo morale di mediatrici e consolatrici. […] Le donne si sono sempre molto arrabbiate, pur avendo imparato a celare, ad attutire o addirittura a reprimere queste emozioni tanto da riprodurre loro stesse lo stereotipo della donna che non si arrabbia mai.”
Per anni mi sono vergognata di scrivere, tanto che non ne parlavo quasi con nessuno. Alla fine, quando sono riuscita a proporre dei racconti a qualcuno che non fosse il mio compagno dell’epoca e la mia amica più stretta, le cose sono leggermente cambiate, ma la vergogna non se ne è mai andata del tutto. Quando faccio qualcosa, per avere motivazione, istintivamente mi chiedo sempre: “A chi serve?”. E se la risposta è “Unicamente a me”, non è sufficiente a convincermi che sia importante. Mi domando anche: “A cosa serve?” e se la risposta non è “A guadagnare soldi nell’immediato”, allora mi sento in colpa e tendo a vergognarmi di quella occupazione. Sicuramente questo ha a che fare con il sistema economico nel quale viviamo e tutti i preziosi insegnamenti che dispensa e che ho interiorizzato, esattamente come la maggior parte dei miei contemporanei. Eppure mi sembra che ci sia qualcosa in più, che mi sfugge.
Ritengo che in gran parte la vergogna abbia a che fare con la legittimazione: se non ritengo di avere il diritto di provare un’emozione o di fare un’esperienza, allora me ne vergogno.
Secondo Virginia Woolf, “la libertà intellettuale dipende da cose materiali.” Per Woolf, queste cose materiali sono cinquecento sterline l’anno (stabilità economica e non ricattabilità, dal momento che la questione di classe è, purtroppo, ancora una frattura fondamentale) e una stanza tutta per sé (condizioni di contesto favorevoli allo sviluppo di tale libertà, cioè un’educazione, un ambiente socio-culturale, una socializzazione e una serie di esempi che non ti scoraggino a intraprendere un determinato percorso solo in base alle tue caratteristiche ascrittive).
Il patriarcato, dal momento che sono una donna, tendenzialmente mi dice di vergognarmi per il fatto di avere delle ambizioni e di credere in quello che mi piace fare, a meno che questo non rientri nel genere di ambizioni che “può” avere una donna. Scrive Woolf: “Nel caso della donna non era indifferenza, ma ostilità. Il mondo a lei non diceva, come diceva a loro [gli uomini]: «Scrivete, se volete: per me non fa differenza». Il mondo diceva sghignazzando: «Scrivere? E a che serve che scriviate?»”.
Per comprendere se ciò che provavo originasse solo da una mia impressione, mi sono rivolta a quella incredibile disciplina che è la statistica. Secondo un’indagine realizzata dall’Osservatorio dell’Associazione Italiana Editori (AIE), in collaborazione con Pepe Research sui consumi editoriali, nel 2017 “le autrici sono il 38,3% del totale, con un trend in crescita” e, nonostante sia in aumento, la presenza di donne in ruoli dirigenziali in campo editoriale è pari al 22,3%.
Durante la stesura della mia tesi, mi sono resa conto, con orrore, di una trappola in cui continuavo a cadere. Ogni volta che mi trovato di fronte a una nota a piè di pagina, che riportava il cognome della persona da cui era stata tratta una citazione e il suo nome puntato, io davo per scontato che quel nome fosse maschile e, quindi, che l’autore fosse un uomo. Leggendo Invisibili di Caroline Criado Perez, ho scoperto che questo è un errore piuttosto comune: “Le probabilità che una donna sia scambiata per un uomo (ad esempio da un collega che legge «P.» come Paul quando invece è Pauline) è dieci volte maggiore del contrario.”
Dunque non sono la sola. Il fenomeno è più comune di quanto pensassi. Non dimentico che parlo da donna bianca, istruita e privilegiata, che non vive in una condizione di povertà estrema. Il conflitto nasce, probabilmente, anche da questo: una serie di agenzie di socializzazione primaria e secondaria inviano messaggi contrastanti, che io ricevo in quanto individuo non passivo e non isolato dal resto del mondo, ma la segregazione orizzontale e la segregazione verticale in base al genere in ambito lavorativo esistono ancora.
Cosa c’entra tutto questo con la mia esperienza da esordiente?

Giovane autrice. Un verme con le ali d’aquila
Una volta, parlando della mia raccolta, una ragazza ha detto che le era piaciuta perché le protagoniste dei racconti impedivano alla sua mimeomia di predominare. Non conoscevo il significato di questa parola, che definisce la frustrazione che si prova nel riconoscere la facilità con la quale ci si adatta a uno stereotipo, anche se non si ha intenzione di farlo, oppure di essere facilmente stereotipabili. Una volta che ne sono venuta a conoscenza, questa osservazione mi ha colpita sia in senso positivo che negativo. Mi fa piacere il modo in cui ha descritto i miei personaggi femminili, ma allo stesso tempo mi sono chiesta come mai quando noi lettrici ci accingiamo a leggere un romanzo, tendiamo ad aspettarci che le donne siano rappresentate in modo stereotipato e a sorprenderci quando non è così. Virginia Woolf fa notare che in molti romanzi scritti da uomini fino alla prima metà del ‘900 la donna è rappresentata come “una persona di estrema importanza, molto varia, […] grande come l’uomo, e, pensano alcuni, anche più grande”. Eppure, nel mondo reale, “non sapeva quasi leggere, scriveva a malapena, ed era proprietà del marito”. Woolf dice che la donna che si scopre “leggendo prima gli storici e poi i poeti è uno strano mostro: un verme con le ali d’aquila”.
Oggi, invece, ci sono moltissimi esempi, tra i romanzi che ho letto, di donne descritte in modo realistico. Penso ai lavori di Shirley Jackson, Alexandra Kleeman, Han Kang, Jade Sharma, Elena Ferrante, Mónica Ojeda e sicuramente a tante altre scrittrici che non conosco o che conosco troppo poco. Eppure ho l’impressione che la scrittura femminile venga ancora registrata come un’eccezione, non solo statistica. Qualche tempo fa mi è capitato un episodio che mi ha fatto molto riflettere su questo tema. Avevo ricevuto un invito, tramite messaggio privato, molto informale e mai formalizzato, da parte di un membro della direzione artistica di un festival letterario che si sarebbe svolto alcuni mesi più tardi. Nel messaggio diceva che gli avevano richiesto “un’autrice giovane” (virgolettato suo) da invitare all’evento, budget permettendo. Il ragazzo in questione mi aveva appena detto di non aver letto il mio libro, ma che aveva intenzione di farlo. La preoccupazione di almeno uno dei membri della direzione artistica di un festival letterario, dunque, non era che ci fosse quella “autrice giovane” il cui libro era stato apprezzato, ma che ve ne fosse una qualsiasi.
Da questo episodio ho tratto alcune conclusioni. La prima è che evidentemente qualcuno mi ha etichettata come “autrice giovane”, nonostante io non mi senta né l’una né l’altra cosa e che, probabilmente, questo porta con sé tutta una serie di definizioni correlate, che non so ben identificare. La seconda è che la voce di un’autrice giovane vale l’altra. Si potrebbe dire che in parte questo sia vero: tutte le sfere della vita pubblica, culturale, politica ecc. dovrebbero essere più inclusive di come attualmente sono, perché persone appartenenti a categorie diverse hanno esperienze diverse e tutte apporterebbero contributi molto validi (penso, ad esempio, a quanto sarebbero differenti le città se i piani urbanistici fossero pensati da e per persone disabili). Nonostante ciò, per molti versi, credo di avere più in comune con un uomo della mia età, cresciuto in un ambiente simile al mio e della mia stessa classe sociale, che con la Regina Elisabetta. Allo stesso modo, io non sperimenterò mai lo stesso tipo di discriminazione che subisce una donna non caucasica, e l’unica occasione che ho per venirne a conoscenza è ascoltare le sue storie. Questo vuol dire che anche le voci femminili sono, e non possono non essere, molto diverse tra loro, proprio perché quella di genere non è l’unica diversità esistente.
La terza considerazione ha a che fare con il modo in cui ho reagito a questo invito. Ho fatto finta di niente. Ho fatto finta che fosse normale chiedere a una persona che ha scritto un libro di partecipare a un evento solo nel caso in cui non si fosse trovata un’altra “autrice giovane”, meno costosa in termini di trasporti e pernottamento, cioè più vicina alla città in cui viene realizzato il festival. Ho avuto vergogna di dire quello che veramente pensavo e cioè che trovavo davvero strano che non riuscisse a richiamare alla mente una scrittrice che secondo lui avesse qualcosa da dire, e che dovesse ripiegare su una perfetta sconosciuta solo perché “giovane” e “autrice”. Temevo che una risposta del genere sarebbe stata interpretata come una forma di risentimento, come se mi fossi offesa personalmente, quando non era affatto così (in realtà ho trovato lo scambio molto comico) e allo stesso tempo mi chiedevo: “Non starò esagerando? Non è apprezzabile che un’organizzazione si sforzi di includere delle donne all’interno del suo programma?”
Eppure mi sembrava assurdo proprio questo: che includere delle donne fosse uno sforzo. Che la mia voce in quanto “autrice giovane” fosse percepita come una deviazione dalla norma, come “voce fuori dal coro”, solo perché la maggior parte dei coristi sono uomini.

La ragazza dietro il bancone
Non mi sento di affermare niente di nuovo dicendo che il mito liberale secondo cui puoi diventare tutto ciò che vuoi è un’enorme bugia. Comunque sia, l’idea di non poter accedere, o di avere più difficoltà ad accedere, a tutta una serie di beni, servizi e anche strumenti di autoconsapevolezza a causa di un sistema costruito su misura per una parte della popolazione crea ancora molta frustrazione. Secondo Woolf, “il romanzo, o il lavoro creativo, non è un sasso che cade per terra […]; è una ragnatela legata alla vita”. Il lavoro delle donne e degli uomini in una specifica epoca storica non può prescindere da quello delle generazioni precedenti. La narratrice di Una stanza tutta per sé legge il primo romanzo dell’autrice fittizia Mary Carmichael “come se fosse l’ultimo volume di una serie lunghissima” e considera la scrittrice “come discendente di tutte quelle altre donne” che la hanno preceduta. Al termine della lettura conclude: “Datele altri cento anni, […] datele una stanza tutta per sé e cinquecento sterline l’anno, lasciatela parlare liberamente”.
Cento anni sono passati e penso che tante cose siano cambiate in meglio, per una donna che decide di scrivere – o di votare, o di lavorare, o di indossare i pantaloni. Molte delle rappresentazioni e degli esempi che vediamo quotidianamente sono ancora opprimenti, ma a volte mi viene da pensare che basti sapere dove guardare.
“Ed ecco la ragazza dietro il bancone; preferirei la vera storia della sua vita alla centocinquantesima biografia di Napoleone”.
Ultimamente mi è capitato di pensare alla scrittura, così come a tante altre attività umane, come a un percorso verso una ricerca di legittimazione del dolore. Non necessariamente il proprio. Non parlo di scrittura terapeutica (non so cosa sia, né come praticarla), ma di qualcosa che leghi le singole esperienze individuali ai loro contesti di riferimento.
Non nego che l’esperienza biografica sia importantissima per la formazione del sentire e del carattere di qualsiasi essere umano. Ma, a ben guardare, anche molte caratteristiche soggettive sono legate al contesto in cui viviamo. Se fossi cresciuta in una città più grande o più piccola di quella in cui sono nata; se avessi avuto una famiglia di mentalità più o meno “aperta”; se il grado di istruzione dei miei genitori fosse stato più alto o più basso di quello che è; se il mio corpo fosse stato più o meno conforme agli standard dell’epoca in cui vivo; se avessi avuto uno stato di salute migliore o peggiore di quello che ho, avrei provato la stessa vergogna che provo adesso per gli stessi motivi per i quali la provo? E se fossi stata un uomo, mi sarei vergognata così spesso di fare qualcosa che mi piace? Avrei dato ai miei interessi una validazione maggiore, o almeno diversa?
Non lo so.
Quello che so è che mi sento in imbarazzo a esprimere non un desiderio in particolare, ma a esprimerne uno qualsiasi. Non provo vergogna perché mi espongo, ma provo vergogna all’idea stessa di espormi, anche se non tutti i contesti mi imbarazzano allo stesso modo. Allora, mi sono chiesta, perché mi piace scrivere e perché lo faccio, pur vergognandomene un po’? Che cosa potrei imparare dall’aver pubblicato un libro? Non credo che scrivere sia di per sé un’occupazione riprovevole, né disprezzo le persone che scrivono. È solo che a volte penso che sia una cosa stupida per me, nonostante sia contenta del lavoro che ho svolto sul libro con il mio editore.

Visionarie
In The Bond of Shame, Carlo Ginzburg scrive: “Molto tempo fa ho improvvisamente realizzato che il paese a cui si appartiene non è, come usualmente si crede, quello che si ama ma quello di cui ci si vergogna. La vergogna può essere un legame più forte dell’amore”.
Forse per la scrittura, o per qualsiasi altra cosa che sia fonte di imbarazzo, ma che ci piace, vale lo stesso. Capita di vergognarsene perché ci riguarda. Esprime inevitabilmente la volontà di raccontare e quindi di esporsi. Rileggendo questo pezzo, ho pensato di chiedere che venisse pubblicato in forma anonima. Poi ho colto il paradosso di questa richiesta e l’ho trovata persino ironica. Il problema principale della vergogna è che, come scrive Ferruccio Mazzanti nel suo romanzo Timidi messaggi per ragazze cifrate, ci si vergogna di vergognarsi. Per me, uno dei migliori modi per neutralizzarla, come scrive invece Hilary Tiscione in Liquefatto, è quello di dichiararla, studiarla calata nel suo contesto e, magari, scherzarci sopra.
Leggendo Le visionarie, un’antologia di racconti di speculative fiction curata, nella versione italiana, da Veronica Raimo e Claudia Durastanti, ricordo di aver pensato, con sorpresa: “Ma allora si può fare davvero. Si può scrivere così.” In questa scoperta, che mi ha commossa, non c’era spazio per la vergogna.
Non perché sentissi la necessità di cancellarla, ma perché i mondi costruiti da queste autrici erano così vasti, (in)credibili eppure profondamente intimi, da farmi vedere altro, oltre a me stessa e le mie paure.
Pensando alla frequenza con la quale provo imbarazzo, si potrebbe concludere che forse, a prescindere dal mio genere di appartenenza, sono semplicemente una persona più timida della media, forse sono solo estremamente riservata. O forse non è così.
Non saprei spiegare bene perché, ma le parole che mi sembrano più calzanti come conclusione di questo ragionamento sono quelle che Catherinne M. Valente scrive nel suo racconto contenuto proprio nell’antologia a cui accennavo, e intitolato: Tredici modi di concepire lo Spazio-Tempo.
“E alla fine dell’universo in svendita che è la mia stessa morte, la scrittrice di fantascienza che sono io e sempre sarò io e sempre sono stata io e non sono mai stata io e che non riesce nemmeno a ricordarmi, agita le sue bandiere rosse e dorate all’indietro, senza fine, verso le mie mani che stanno digitando queste parole, adesso, a te, che vuoi sentirmi parlare di idee e conflitto e revisioni e di come un personaggio inizia in un modo e finisce in un altro”.

Francesca Mattei vive in una piccola città al confine tra Toscana e Liguria. Alcuni dei suoi racconti sono apparsi su Verde Rivista, Narrandom, Clen Rivista, Voce del verbo, Malgrado le Mosche, SPLIT, Salmace Rivista, In fuga dalla bocciofila e nell’antologia “Vite sottopelle. Racconti sull’identità”, edita da Tuga Edizioni e in collaborazione con Reader For Blind. Il primo marzo 2021 è uscita la sua prima raccolta, “Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa”, per Pidgin Edizioni e ha da poco preso parte all’antologia “Human” edita da MoscaBianca Edizioni con il racconto “Nutrirla”.





I volti sono sintesi dell’intera figura femminile. Si presentano come paesaggi chiaroscurali tra rivelazione e nascondimento, in cui le zone umbratili aggettano più delle zone esposte alla luce. O sovraesposte, fino allo stemperamento dei confini del corpo. In generale, nelle fotografie di Tito Ghiglione i contorni rinunciano all’alta definizione per entrare nel magma dell’intorno.
Il significato dell’immagine si affila solo laddove oscurità e chiarore entrano in contatto. L’angolazione scelta, alta sopra il capo delle protagoniste degli scatti, non opprime e non appiattisce; al contrario, fa dialogare tra loro abissi e vette. I primi, invisibili, s’indovinano agitarsi a fondo immagine; le seconde, invece, si possono leggere iscritte nei corpi di donna.
Tito Ghiglione (Genova, 1979). Da sempre interessato alla sperimentazione e ai linguaggi artistici inizia a scattare, sviluppare e stampare dal 2010 scoprendo, nella pellicola, una materia in grado di rivelare sensibilmente ciò che gli occhi non riescono a vedere. Concentrato dunque sulla materia/pellicola e sulle sue possibilità visivo-percettive, pone al centro della sua ricerca la luce in ogni sua manifestazione e accadimento. Oltre alle tecniche classiche (35 e 120 mm) apre la sua sperimentazione a tecniche come la fotografia stenopeica, la pseudo-solarizzazione e altri processi alternativi in camera oscura. Nel corso dell’ultimo anno le sue fotografie sono state pubblicate su diverse riviste on-line e, nel luglio del 2021, gli è stato dedicato il n°23 della rivista Nudeartzine. Attualmente sta collaborando con La Bestia collective per il progetto “Uncertainty” e con le gallerie InArteOff e Traumfabrik.