di Giusi D’Urso

All’ingresso del mio studio, aspetto una nuova paziente. Di fronte a me, sul pianerottolo, la grande finestra si affaccia sulla piazzetta. In basso, ci sono i tavolini di un bar e persone sedute a bere, mangiare, chiacchierare. Chi sono, che lavoro fanno, che pensieri masticano insieme alla colazione? Penso al tempo che dedichiamo al cibo, alla qualità di questo tempo, a quanto ciò che mangiamo sia strumento, sostentamento e conforto. Ci penso per deformazione professionale e per una certa deriva a cui sono soggetta da qualche anno. Mi distraggo, ultimamente, da grafici, tabelle e manuali. Forse è l’età di mezzo, forse la malattia che ho affrontato di recente a rendermi più distratta.
Certe volte penso che sono sbagliata. Mi guardo indietro e ne ricevo conferma da certe fragilità che mi danneggiano oppure, al contrario, mi salvano la vita. Non l’ho ancora capito.
La mia formazione scientifica mi ha partorita analitica e riduzionista. A causa di un’inquietudine congenita non sono però riuscita a restarmene chiusa in un laboratorio di ricerca a cui, – per passione e per dispetto a chi mi aveva sbeffeggiata per i miei sogni di ragazza, – approdai dopo la laurea. Negli anni novanta la biologia riempì la mia testa e la mia esistenza. Giornate intere chiusa in un laboratorio. La vita minuscola saggiata a suon di cromatografie, elettroforesi, saggi enzimatici, fluorescenza, radioattività. Roba che dà risposte, dati numerici, percentuali, immagini incontrovertibili. Nero su bianco. E io, ostinata e motivatissima, numeravo i quaderni degli esperimenti, catalogavo risultati da interpretare con cura e precisione, mi godevo il nome sulle prime pubblicazioni.
La mia formazione scientifica mi ha partorita sicura che la chimica e la fisica mi avrebbero aiutato a capire e a rispondere a ogni quesito. Francis Crick un anno prima della mia nascita, aveva affermato che l’obiettivo finale della scienza moderna è la comprensione della biologia in termini di fisica e chimica. Era stato il mantra dei miei anni di studio. Crick, Watson e la loro doppia elica. Indiscutibili.
Del resto, mi ripetevo dal sacco amniotico dei miei studi, attaccata al cordone ombelicale delle mie ambizioni da scienziata, un sistema biologico cos’altro è, se non un insieme di atomi e molecole studiabile, decifrabile, intellegibile attraverso leggi e assiomi, formule e reazioni?
Poi arrivò un sentimento sconosciuto a guastarmi la festa, a dirmi che forse non ero fatta per quel lavoro, per quel genere di pervicacia. Arrivò un senso di manchevolezza che mi tolse il sonno per anni.
La mia paziente è arrivata.
Sono manchevole, ancora oggi, di fronte a questa donna che mi siede di fronte nella stanza delle misurazioni. Pesa oltre un quintale e si chiama in molti modi, ma da qui in poi la chiamerò Nina.
Nina è una donna, ma anche un uomo, è una bambina ma anche un bambino, è una persona. Nina è tutte le persone con obesità. E con sé, oltre al suo peso, porta in questa stanza un vissuto avvilente e doloroso.
I numeri dell’obesità sono inquietanti, soprattutto se si pensa alle comorbilità, ai costi sanitari, ai risvolti sociali che ne conseguono. Su bambini e adolescenti l’epidemia di obesità ha conseguenze ancora più negative, in termini percentuali di morbilità e mortalità.
Nina è qui perché oggi di mestiere faccio la nutrizionista. Ho iniziato a occuparmi di diete, dimagrimenti e disturbi alimentari guidata dalla manchevolezza che mi ha scovata seduta a un microscopio ottico, sottraendomi alle certezze del signor Crick.
Questa persona è arrivata al primo piano salendo le scale, ha percorso ansimando il corridoio fino alla mia porta, si è seduta davanti a me e sorridendo mi ha fatto un cenno garbato con la mano per chiedermi pazienza. Devo aspettare che riprenda fiato prima di farle qualche domanda. Restituisco il sorriso e la rassicuro, abbiamo tutto il tempo necessario.
Anch’io sento di dover rallentare.
Ha una casacca e un pantalone leggeri, i capelli lunghi e lisci sulle spalle, una frangetta che arriva a coprirle parte degli occhi. Mentre riprende fiato sta a testa bassa, le mani puntellate alle ginocchia. Il busto come un mantice si gonfia e si sgonfia recuperando lentamente una frequenza respiratoria normale. Poi, finalmente, Nina comincia a parlare e mi chiede scusa. Chiede scusa per il tempo che mi ruba il suo corpo. Si ferma un attimo, si guarda, allarga le braccia: il mio corpo funziona male, dice, è troppo lento e non riesco più a gestirlo. Dice che sono la sua ultima occasione, che dopo non se ne concederà altre perché è stanca e perché tutti la considerano una causa persa. “Tutti chi?” le chiedo, “Tutti” risponde e abbassa lo sguardo.
Tutti hanno giudicato, tutti hanno già capito.
È sudata, si asciuga la fronte con un fazzoletto scoprendo appena gli occhi di un azzurro chiarissimo. Nina ha una laurea in lingue e fa la casalinga. Non ha lavorato per crescere i figli, sono bravi a scuola, bravi nello sport. Prepara i pasti ogni giorno, spesso deve preparare due o tre pietanze diverse per accontentarli. I profumi la tentano, finisce per cedere agli assaggi, un pezzo di formaggio, un cantuccio di pane, una fetta di salame. Poi si siede a tavola e non ha appetito, dopo cena invece, quando resta sola in cucina, perde il controllo e non riesce più a fermarsi. La notte se non riesce a dormire si alza e apre il frigorifero in cerca di qualcosa che le plachi l’ansia. Poi il mostro della colpa la divora.

Nina racconta e io sento mille altre storie. La bambina grassa dell’ultimo banco che tutti chiamano cicciona, il giovane uomo che non riesce a fare colpo su nessuna perché ha le gambe a ics e la pancia prominente, la ragazzina formosa che la madre magrissima accompagna da dietologi e nutrizionisti, l’adolescente sovrappeso che non vuole uscire per non essere derisa dal gruppo.
Questa faccenda ha molti numeri, che mi agitano più dei pesi considerevoli, più delle circonferenze eccessive, dei molteplici indici di obesità. Sono i numeri che riguardano lo stigma verso le persone grasse e i loro corpi che hanno smarrito la forma, verso la loro lentezza, la loro goffaggine, le loro fragilità.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il 40% delle persone affette da obesità grave ha subito atteggiamenti di stigma e pregiudizio. Lo stesso è accaduto a circa il 20% fra le persone in sovrappeso o con obesità lieve.
Nell’infanzia e nell’adolescenza i bambini più grassi hanno maggiori probabilità si subire atti di discriminazione e bullismo, sia a scuola che in altri contesti. Il 70% dei pazienti con obesità si sentono vittime di pregiudizi da parte dei medici che li hanno in cura. Tutto questo aggrava il rischio di disturbi alimentari.
Si tratta di un’epidemia nell’epidemia, basata sull’idea che per perdere peso basta avere buona volontà e seguire una semplice equazione che bilanci entrate e uscite. Anche Nina ne è convinta. Le hanno detto che deve smettere di mangiare, le hanno fatto il gesto di una cerniera che serra la bocca, le hanno ripetuto che finché non si deciderà a cambiare non vedrà calare il suo peso di un etto e che fino a quando non sarà pronta a sacrificarsi sarà tutto inutile, anche tornare in quel reparto a fare i controlli periodici. Glielo ripete chiunque e di continuo: chi lavora con lei, chi vive con lei, chi la incontra al supermercato, chi le siede accanto al cinema e in chiesa, chi l’ha presa in cura.
Nina ci crede. Anche in tv i grassi sono quelli meno belli, meno abili, meno bravi. Nella migliore delle rappresentazioni, fanno ridere.
Lei nella mia stanza si descrive indolente, pigra, incapace, priva di autodeterminazione e volontà. Hanno tutti ragione, mi dice, se non imparo a sacrificarmi di più non ne uscirò.
Cosa si aspetta da me? “Una dieta”, risponde, “uno schema che mi indichi cosa posso e cosa non posso mangiare, gli orari dei pasti, i grammi dei vari alimenti, le cose vietate”.
Vuole che compili e avalli una nuova ennesima strategia del sacrificio e della rinuncia, la punizione per la sua colpa. Tutto in carta intestata, dall’alto della mia competenza. Io che so cosa è giusto e cosa non lo è, io che riconosco il peccato di ingordigia e so infliggere la giusta penitenza. Come tutti gli altri.
Prima di risponderle provo a fare ordine nella mia testa. Vorrei trovare il tono giusto della voce per dirle che ci sono fattori che sfuggono all’equazione “grass* uguale incapace di” e che le cose che mi ha raccontato sono figlie di narrazioni sbagliate, delle storie che ognuno di noi si racconta per sentirsi “normale” e al sicuro. Mi rendo conto che sto usando il tono da esperta e non ne sono contenta perché probabilmente è quello che hanno usato tutti gli altri prima di me.
L’obesità, dico, è una malattia complessa e multifattoriale. L’obesità è uno stato patologico.
Se lei avesse un ascesso a un dente o una gamba rotta, nessuno le direbbe che è colpa sua. Se lei avesse una qualsiasi altra malattia.
Penso alla mia, di malattia, al tradimento recente di un pezzo della mia carne: tumore al seno, ricoverata, curata, accolta, rassicurata. Nessuna colpa, è accaduto, ma c’è la cura, affidati, guarirai.
Continuo, i miei discorsi sono rodati. Lei mi ascolta.
Nell’aumento di peso sono coinvolti meccanismi intestinali che comunicano con il centro della fame. Fornisco esempi. L’ansia e la frustrazione non fanno che aumentare il ricorso al cibo consolatorio e il comportamento peggiora quando siamo discriminati per il nostro aspetto. Disegno un cerchio, una freccia in un verso soltanto, con la penna ci giro intorno ancora e ancora. Le parlo di molecole che regolano l’umore che originano dal tessuto intestinale. Illustro legami fra parti del corpo insospettabili, considerate poco nobili. Le parlo di quella complessità che non si può eludere, di reazioni individuali che non si possono prevedere. Le dico – e mi infervoro, mi accaloro – che non esistono soluzioni univoche, generali ed efficaci per tutti. Che ognuno ha la sua unicità: il trattamento dell’obesità va studiato sulla persona che ne è affetta.
Nina scuote la testa, fa un leggero schiocco con la lingua, apre le braccia e poi le lascia ricadere lungo i fianchi.
Guardo il mio disegno circolare, mi ripeto nella mente le parole che le ho appena detto: la mia manchevolezza non si vede ma c’è, incagliata fra il suo corpo sconfinato e la mia sindrome dell’insufficienza.
Procediamo con le misurazioni, bilancia, metro, plicometro, tutta la routine che fa di me una professionista rassicurante e affidabile. Numeri che lei accompagna con una breve esclamazione, a tratti un lamento sottovoce.
Lei è qui perché io la giudichi, la incaselli e la classifichi. Io, perché molti anni fa ho creduto alla imprevedibilità dei sistemi biologici, alle loro molteplici relazioni, alle variazioni interne ed esterne e alle loro risposte integrate. E quindi ripongo le misure in uno spazio più grande dove non sempre so in anticipo cosa metterò. So solo che per ogni persona, per ogni Nina che arriva qui, ho bisogno di uno spazio adeguato in cui raccogliere altro. Risposte metaboliche, fragilità, incertezze, rammarichi. E dopo, ricostruzioni necessarie.

Nei giorni seguenti torno alla penna, alla scrittura manuale che si avvicina a ogni sentimento, con i suoi arrotondamenti, i suoi tempi di risposte muscolari minute e imperfette. E in questo territorio neutrale, a metà strada fra le misure e il dolore di Nina, provo a costruire ragionamenti e percorsi.
Sopravviviamo da millenni perché cerchiamo cibo e ce ne nutriamo. Un tempo era scarso, adesso è in eccedenza, sempre a disposizione, almeno in questa parte del mondo. La tv parla di cibo, i giornali parlano di cibo, i cartelloni pubblicitari parlano di cibo. Ogni cosa e ogni contesto che ci circonda non fa che parlare di cibo e ostentarlo. Ci riuniamo per mangiare, tristi o allegri, onoriamo la tavola, non perdiamo occasione. Siamo animali sociali.
Così l’istinto che ha provveduto a salvarci la vita è amplificato da continui richiami sensoriali; l’automatismo di certe risposte ci si ritorce contro. Mettiamo da parte scorte e abbiamo poche occasioni per consumarle. Il loop si autoalimenta attraverso cose che dobbiamo imparare a gestire: la frustrazione, il senso di inadeguatezza, i doveri quotidiani che soffocano il tempo per la cura di noi stessi. E sopra ogni cosa, la narrazione tossica intorno agli standard estetici.
Magro è bello, magro è sano. Di più: magro è normale. Il resto è fuori standard, fuori misura.
Per tornare degni di considerazione, le persone con obesità devono perdere peso rapidamente, costi quel che costi. Viviamo in contesti che generano obesità e che contemporaneamente la stigmatizzano. Riempiono di cibo e svuotano di autostima.
Vedo Nina anche nelle settimane seguenti. Ne vedo tante, di Nina, sempre di più. È un lavoro lento e costante. Come ne esco, io? Con le ossa rotte, a prescindere dagli obiettivi raggiunti. Cosa provo ogni volta? Raccolgo i miei frammenti e mi dico che si tratta di una fatica buona e che il più delle volte ciò che manca cura. Ed è vero: il dolore di Nina è pesante e va a fondo, ovunque venga depositato. Ma affondando restituisce a me e al mio lavoro il senso umano della fragilità e dell’imperfezione.
Il peso in eccesso si stratifica nell’arco di anni, a volte anche molti; ma la spinta sociale è verso la perdita rapida. La mia stanza delle misure, invece, è territorio di pazienza e creatività. I miei strumenti sono camaleontici. Se Nina ha otto anni, gioco e coloro e ritaglio. I bambini con obesità sono spesso monotematici, mangiano sempre le stesse cose e in eccesso, perciò necessitano di narrazioni ricche, colorate, divertenti. Se Nina ha qualche anno di più e sogna la pancia piatta, parlo dei contenitori che sono fatti per custodire cose, come l’addome. Contiamo insieme quanti organi contiene. E se piange perché non si sente amata, , le dico che il suo dolore è umano e che non c’entra affatto con l’essere incapaci, tanto meno con i chili e le circonferenze. Le insegno a concedersi del tempo, a scegliere il proprio cibo senza forzature e rinunce, a capire di cosa ha bisogno. Lavoro e spero che ognuno, nel proprio corpo, ritrovi la sua casa e il rispetto di sé. Perché per dolori così occorrono luoghi sicuri.
Giusi D’Urso è biologa nutrizionista, specialista in patologia clinica. Ha pubblicato saggi divulgativi e libri per bambini. Alcuni suoi racconti sono stati ospitati su riviste quali Crack, Bomarscé, Offline, Fernweh. È autrice di alcuni testi liberi pubblicati sulla rivista Fernweh e sul magazine online Al passo coi tempi. Custodisce le sue parole sul blog di scrittura #secondapelle.



Le illustrazioni di Veronica Leffe, rispettivamente intitolate Matrimonio, Dio e Uomo, sono nate per la rubrica Etimologie de Il libro azzurro (https://www.libroazzurro.it/index.php/note/etimologie), un progetto nato dalla collaborazione tra l’artista e lo scrittore Pier Paolo Di Mino:
Matrimonio: «[…] Sposarsi, all’etimo, significa promettersi. Promettersi cosa? La risposta è nella stessa parola, dal momento che il verbo “spondere” (da cui “promettere” e, quindi, in seguito “sposarsi”) è un intensivo di “spendo”, ovvero “libo”. Si liba versando liquidi a terra per gli dèi. “Libare” è ovviamente connesso con “essere liberi”. “Libero”, che a Roma era venerato come Dio, è del resto un liquido, quello linfatico e spermatico che anima ogni cosa viva, o che è l’anima libera di ogni cosa: insomma, quell’anima liquida di cui troviamo il surrogato in liquidi come il vino. […] E, allora, ecco il matrimonio, legge per la quale, al posto degli sposi, abbiamo una donna finalmente sgravata dal peso erotico di essere donna, e ricollocata nella figura esclusiva di madre (matrimonio significa all’etimo questo), e in cui l’uomo figura come prestatore parsimonioso, oculato e mirato di seme […]».
Dio: «[…] La parola dio è latina, ma ha vaste attestazioni in diverse aree di quel fantasiosissimo mostro immaginario che è l’indoeuropeo. Significa: luce, luce del giorno. I suoi concorrenti, nella nostra cultura, sono moltissimi. Prima di tutto la parola greca theòs, astrattissima, che vale per spirito; o, ancora, la parola tedesca gott, che significa spirito evocato e che, in virtù del fosco sentimento esorcistico e idolatrico che suscita, è appena meno astratta; quindi il russo bog, parola con la quale il divino viene immaginato come distributore di destino […]».
Uomo. «[…]La parola, di origine latina, è legata alla famiglia di “humus”, e definisce l’uomo come creatura terrena, terrigna, ma anche come umile ovvero bassa, posta ovvero in basso, sotto il cielo; per quanto in realtà e nello specifico sia posta fra cielo e terra. […] Per quanto riguarda le altre lingue strettamente costitutive della nostra cultura e collettività, l’ebraica e l’araba, ancora non usciamo da questa definizione, ovvero dalla definizione che ci vede fatti di terra facilmente degradabile e, proprio per questo, felicemente modellabile: che ci vede come creature e, quindi, se si vuole, come opere d’arte […]». Il libro azzurro è uno degli pseudobiblia citati nel romanzo di Di Mino, Lo Splendore. Si tratta di un lavoro smisurato non ancora del tutto completato, di cui Leffe cura l’iconografia in un serrato dialogo fra immagini, idee e parole. Questo romanzo trova tutt’ora grandi difficoltà di pubblicazione. Per questo motivo, l’unica sua parte visibile oggi è proprio la pagina Facebook dedicata a Il libro azzurro (https://www.facebook.com/libroazzurro).
Veronica Leffe è un’artista visiva. La sua ricerca nel campo della figuralità filosofica l’ha portata nel corso del tempo all’esplorazione delle immagini archetipiche, dei simboli della scienza sacra, delle grandi narrazioni. Fa parte del collettivo TerraNullius, e, insieme allo scrittore Pier Paolo Di Mino, porta avanti il progetto artistico e letterario Il libro azzurro, sezione di un progetto più ampio, legato al romanzo inedito di Pier Paolo Di Mino Lo Splendore, del quale cura l’iconografia in un serrato dialogo fra immagini, idee e parole.
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