L’indice di Venere. Storia di un’indecenza femminile

di Eva Clesis

© Marco Wiatrowski Malavolti

Appartengo all’ultima generazione le cui mamme solevano richiamarci all’ora di cena, sporgendosi dai balconi dei caseggiati. Maschi e femmine, confusi tra giochi di squadra e partite di pallone, eravamo tutti per strada, a fare di cortili improvvisati la nostra comune.

Di quella società ognuno occupava un proprio spazio senza sentirsi ai margini: sulle scale, tra le aiuole, nei campetti, sui marciapiedi, all’ombra delle macchine o degli alberi, attorno alle pozzanghere, contro i muretti, nell’entra ed esci tra le cancellate, nei salti alla corda o sulle linee di gesso delle campane e dei giochi dell’oca. Ognuno di noi era parte di una conta: eravamo le nostre biglie, le nostre figurine e le nostre biciclette assistite dal ruotino. Giocavamo in estate e in inverno, subito dopo la scuola e fino all’ora del richiamo. Tutti conoscevamo il nome urlato degli altri compagni, tutti ci ritiravamo a casa più sporchi e più vivi, con le ginocchia sbucciate, le vecchie pustole degli esantemi di inverno grattate via, come le crosticine di graffi e abrasioni, sotto le scalfitture delle unghie luride. A cena ci annoiavamo nella compostezza della tavola, sgambettando sotto le tovaglie: abbassavamo gli occhi ai rimbrotti masticati dei nostri fratelli maggiori, dei nostri genitori, delle sorelle fidanzate. Di sera, qualcuno di noi iniziava la sua partita solitaria con le prime letture: alcuni sono diventati miopi sotto le lenzuola, leggendo al buio o alla luce debole di una lampada da comodino. Libri, fumetti, cataloghi: si sfogliava qualsiasi cosa.

Io ho scoperto la masturbazione così, a otto anni, leggendo Chaucer.

Le avvisaglie della pubertà mi avrebbero separato presto dai miei amici di cortile: ma io ancora non lo sapevo o non avevo voglia di scoprirlo. Il piacere mi avrebbe dato l’odore di un rosso fico d’India che avrebbe marcato il mio addio all’infanzia.

In realtà, qualcosa in me si era già risvegliato a partire dai quattro anni, nella curiosità dell’anatomia delle bambole. Spogliavo le mie barbie e passavo il polpastrello sui loro seni a punta, aprivo loro le gambe, in spaccata, chiedendomi perché io fossi così diversa, perché non fossi piatta e avessi invece una feritoia per urinare che loro non avevano. Si trattava tuttavia di esplorazioni innocenti, ancora intatte dalla macchia dei sentimenti prossimi di vergogna e pudore. Quelli sarebbero venuti qualche anno dopo, o meglio, avrei imparato a distinguerli dalla massa informe di raccomandazioni e divieti materni, permettendo che prendessero corpo nella mia mente e separassero ciò che si poteva dire da ciò che doveva restare segreto, ciò che si poteva mostrare da ciò che bisognava coprire. Così, nell’essere del mio campo cresceva un altro campo.

A sette anni, avevo già smesso di fare la pipì dietro le macchine parcheggiate, assieme ai miei compagni di gioco. Noi femmine ci accucciavamo a due o a quattro, parlottando mentre spiavamo il rivolo giallo che, sotto le nostre mutandine arrotolate e dopo una timida spinta, tracciava l’asfalto. I maschi si mettevano contro i muri o dietro gli alberi, in piedi. Pisciare era una seccatura divertente, e il fatto che tra noi pisciassimo in modo diverso non era oggetto di eccessiva curiosità. Ma, a un certo punto, per tutte le bambine veniva il giorno della vergogna e dell’autoemarginazione. Se ci scappava, prendemmo l’abitudine di salire a casa. A volte non scendevamo più: all’incombenza del piscio si aggiunse la novità del lavarsi le mani con il sapone per dare un aiuto a imbandire la tavola.

Quando tua madre smetteva di gridare al vicinato il tuo nome: solo allora crescevi.

Sono diventata pubere anzitempo e miope subito dopo. Questo mi ha sempre fatto pensare che erano nel giusto coloro che dicevano che a masturbarsi si diventasse ciechi.

A dieci anni, il menarca, del colore della terra più che dei papaveri, mi sembrò il sintomo evidente della malattia del piacere, un esantema segreto. Il secondo sintomo me lo rivelò mia madre, prima di acquistarmi un reggiseno. Già a otto, nove anni, io più delle altre mie amiche avevo un pube sporgente. Lei, misurandomi i vestiti, iniziò a preoccuparsi del mio monte di Venere.

© Marco Wiatrowski Malavolti

«L’abitino no, meglio una gonna più ampia».

O: «In pantaloncini non ci puoi più stare, sono diventati troppo aderenti».

Adesso che ci penso, è da più di trent’anni che non indosso un paio di shorts.

Qual era la parola? Io non sapevo come chiamare questa mia nuova condizione. Con il menarca, la parola divenne “signorina”, ma non era quello a incupire mia madre. Erano gli sguardi maschili, precoci vista la mia età, per scongiurare i quali non faceva che darmi raccomandazioni. Stare seduta composta, a gambe strette, anche a casa delle amiche, nelle gite in macchina e in visita ai parenti. Da quelli, soprattutto. Al mare, uscire dall’acqua e correre a nascondersi sotto l’ombrellone, senza indugiare sul bagnasciuga.

Le maestre a scuola sembravano pensarla come lei. Alla fine delle elementari sospettai che mia madre le avesse avvisate in qualche modo, perché io, da brava prima della classe, sedevo di fronte alla cattedra, mi sarei sempre seduta di fronte alla cattedra, anche in seguito. E non mancava giorno che la maestra mi guardasse, stringesse le labbra in una linea sottile per poi mimare una coppa con le due mani, scandire il mio nome e battere due volte i palmi. Nessuno capiva, a parte me. O forse le mie amiche capivano. La mia infanzia terminò così, con la scoperta di essere una signorina e un’altra scoperta ancora, quella volta che a scuola andai in bagno con un’amica. Facemmo la pipì a turno e quando venne il mio, lei mi guardò tra le gambe e disse:

«Che schifo!»

Io non capivo.

«Hai dei peli e la tua cosa è grossa».

Ovviamente indicò il pube. Lei non lo aveva come il mio. Lei era una bambina e io non più.

Sua madre si sporgeva ancora dal balcone ogni pomeriggio, per richiamarla a cena. La mia aveva smesso. In cambio, mi stava insegnando a cucinare.

A casa, mio padre, che di questi aspetti non si curava, sacramentava troppo per poter dire che fossimo una famiglia cattolica, né noi andavamo a messa, nemmeno a Natale. La sfrontatezza del mio pube e il fatto che fossi sbocciata in modo prematuro non lo preoccupavano affatto, ma, dalle scuole medie in poi, s’ingegnò a educare me e mio fratello in modi diversi, per quanto complementari. Io non potevo parlare in dialetto, mio fratello sì. Io dovevo abdicare alla mia curiosità per il mondo, evitando di fare troppe domande, mio fratello poteva parlare. Io non dovevo essere orgogliosa dei miei voti, ma sforzarmi di essere umile, di mascherare la mia indole di ribelle in una mansuetudine che mi era estranea, incoraggiata dai calci agli stinchi che mi elargiva mia madre da sotto al tavolo, perché almeno al momento dei pasti imparassi a stare zitta.

Come per il piacere, anche il mio intelletto doveva essere limitato, fuori dalla mia cameretta: più della storia o della geometria, mi si chiedeva di imparare il garbo. Così, tra le coperte esercitavo entrambe, lettura e lussuria. Forse è anche per questo che sono diventata insonne, oltre che miope.

In più, avevo il timore che la pratica della masturbazione rinvigorisse la mia collinetta. Come, non lo sapevo. Sospettavo che sotto quella piccola calotta di carne che anticipava il sesso ci fosse un muscolo segreto. Una specie di secondo cuore, che pompava il sangue giù, nelle piccole e grandi labbra.

Ma, come capita di frequente, indugiavo nelle cose per cui mi sentivo in colpa, specialmente nelle cose per cui mi sentivo in colpa, e sfidavo me stessa agli orgasmi più lunghi, dormendo sempre meno.

A volte sognavo di liberarmi di quel fardello. Tagliare via la parte prominente, fantasticavo, mi avrebbe mondata dal senso del peccato che mi aveva fatto visita prima del tempo. Avrei potuto indossare i vestiti aderenti delle mie amiche ed essere glabra e asciutta come loro.

Uno dei maggiori problemi dell’essere umano è la convinzione che si possa arrivare a conoscere la causa di tutto. Io non facevo eccezione: era colpa del mio pube se desideravo il sesso, e con il sesso i maschi. O forse le mie morbosità avevano nel pube la propria lettera scarlatta, e la loro causa ero io, il mio essere smodato e fuori forma, la mia incontenibile immaginazione, la mia curiosità di lupa.

© Marco Wiatrowski Malavolti

Arrivata alle medie, iniziai a fare pratica con i ragazzi: questa si rivelò piuttosto deludente per una bambinetta troppo cresciuta qual ero io, innamorata dell’amore come delle lettere.

Nella vita fuori dalla mia cameretta, i maschi sembravano non capirmi. Se qualche volta godevo, non era mai abbastanza. Esisteva uno scarto tra l’eccezionalità del mio desiderio e quello che potevo ottenere come esperienze da ragazzi impacciati, nutriti com’erano dalla retorica delle riviste e dei film porno, in cui il sesso era un’ingegneria perfettamente in sincrono tra i partecipanti, e la donna doveva dare prima piacere orale e poi ricevere sesso in due modi diversi, davanti e da dietro.

In un certo senso, entrambi, io e il maschio di turno, partivamo da un ideale per poi metterlo in atto: ma la differenza era che il mio era un universo di ingordigia e pienezza che non sempre sapevo rappresentarmi, ma che sapevo di volere raggiungere con i nostri corpi. Il loro sembrava una sceneggiatura già scritta e rappresentata migliaia di volte, qualcosa su cui si poteva andare a colpo sicuro, bisognava solo imitare il patinato.

Mi andava bene affidarmi a un maschio? Sì, se tradivo il sogno che sapevo essere la mia natura. Bastava chiudere gli occhi e farsi fare, sapendo benissimo cosa sarebbe successo e come sarebbe finita.

Esprimere ciò che volevo d’altra parte mi sembrava impossibile: ci avevo provato, avevo provato a dire a qualcuno, “ascolta, dimentica tutto quello che credi di sapere che si fa con una femmina e sii autentico nella tua fame. Perché tu hai fame, no? Anch’io ce l’ho, e tanta”. Ma l’unica cosa che avevo ottenuto era di metterli in difficoltà. Anche nel sesso mi veniva chiesto di essere, in qualche modo, garbata, apri e chiudi le gambe così, e composta, adesso mettiti a cuccia.

A diciassette anni rivelai i miei problemi a una compagna di classe a cui davo ripetizioni. Lei mi disse di chiedere al mio fidanzato di tenere la tv accesa, mentre lui si prodigava su di me, così potevo distrarmi. E poi che una sua amica era andata da un chirurgo plastico.

«A fare cosa?»

«A tagliarsi le menne».

«E se le è tagliate?»

«Sì, adesso ha una quarta, ma poi un altro medico ha detto che forse le ricresceranno».

«E se le ricrescono che fa, se le ritaglia?»

«No, sarà costretta a mettersi un busto».

«E quindi che se le è tagliate a fare?»

«Ma che ne so?», mi rispose. E poi, sospirando: «Magari le avessi io, quelle menne

Anch’io invidiavo le menne dell’amica della mia amica: attiravano un sacco di ragazzi, tra cui un mio vicino di casa, alto, magro e riccio, che non mi salutava mai. Luca, si chiamava. Non gli avevo fatto niente, sapevo di stargli antipatica. Si era appena iscritto a un’università di Milano. Medicina.

«Dici che me lo può tagliare?»

«Non ne ho idea, ma se ci vai dimmelo, così ti accompagno».

Fu così che mi guadagnai il mio primo “puttana”.

Mia madre seppe della mia intenzione di andare dal chirurgo plastico. Come, non l’ho mai saputo. Ho sempre ammirato la capacità di certe mamme di scoprire le trame segrete delle loro figlie, e ho sempre creduto che fosse un potere che le donne che partoriscono delle femmine si tramandano attraverso generazioni, come le ricette di famiglia. Non è telepatia, è qualcosa che lievita come il miglior pane e che tu non possiedi, ti dici, quando provi a rifare la loro torta di mele ripetendo tutti i passaggi che osservavi da bambina. È un rituale del presagio che dai loro cuori arriva alle mani.

Infatti mi diede uno schiaffo. Mia madre. Il “puttana” lo disse dopo, in un sibilo.

Io mi chiusi in camera, le guance in fiamme. Lei mi rincorse e batté i pugni sulla porta.

«Se ti fai toccare da quello non ti presentare più a casa, te ne vai a dormire sotto i ponti!»

Batteva, batteva.

«Mi hai capito?»

Batteva, batteva.

«Non ti voglio vedere più qua!»

Batteva.

Ma a un certo punto smise. Come me aveva udito un rumore di chiavi provenire dall’ingresso. Mio padre tornava a casa in quel momento. Sentii mia madre allontanarsi dalla porta e andargli incontro in corridoio.

«Che è successo?»

Lei gli rispose: «Niente».

Immaginai che non gli dicesse nulla non perché volesse tenergli nascosto ciò che sapeva di me, ma per il gusto di parlargliene al momento opportuno. Non avrebbe sfruttato subito il vantaggio della verità, e questo perché non è vero che i manipolatori mentono. I veri manipolatori tengono la verità per loro stessi, per poi concederne qualche boccone quando conviene loro.

Uscii dalla mia stanza solo a cena. Mio padre pensava che fossi indisposta, né gli interessava indagare. Aspettai una settimana prima di andare dal chirurgo plastico: chiamai il suo studio da una cabina telefonica, subito dopo la scuola, e all’appuntamento ci andai da sola. Sospettavo che la mia compagna avesse fatto la spia, eppure tutti in classe sembrarono comportarsi con me allo stesso modo, e così gli insegnanti. Mentii quando lei mi chiese cosa avessi deciso: dissi che avevo cambiato idea.

Il giorno dell’appuntamento non tornai a casa. Pranzai fuori e mi presentai nello studio del chirurgo alle quattro. La sua assistente venne ad aprirmi: era il perfetto biglietto da visita per l’attività del suo capo. Alta e molto magra, ma con seni prominenti, perfettamente sferici alla base. Labbra voluttuose, marcate, ciglia nere che svettavano in su come bandiere, trucco impeccabile e un tailleur pantalone rosso. I capelli lucidi e dritti le si adagiavano sulle spalle e lungo il viso come una tenda di velluto nero.

© Marco Wiatrowski Malavolti

Mi fece accomodare in sala d’attesa, per fortuna ero da sola. Aspettai un quarto d’ora e poi la stessa assistente mi indicò la stanza del medico. Lui era seduto su una poltrona in pelle bianca, non si alzò alla mia vista, mi fece cenno di sedermi di fronte. Poteva avere poco più di trent’anni, incanutito prima del tempo, soprattutto alle tempie. Sotto il camice era vestito come se dovesse andare in barca e solo per errore si trovasse là, ridicolmente abbronzato tra le piante di felci, un computer tozzo e le luci al neon.

Mi chiese di dirgli quale fosse il problema. Per tutta risposta mi alzai in piedi e sollevai la gonna.

Il mio pube sembrò gonfiarsi sotto le mutandine, al cospetto dei suoi occhi assenti, per nulla sorpresi dalla mia intraprendenza.

«Si metta di profilo», mi ordinò.

«Ho un monte di Venere sporgente», dissi, evidenziando l’ovvio.

«E cosa vorrebbe fare, il rimodellamento? A me sembra normale, ci sono donne che ce l’hanno così, forse anche sua madre è così».

Non ci avevo mai pensato. Mia madre non aveva sesso per me. Non nella maniera in cui io vivevo il mio. Il paragone mi mise a disagio. Iniziai a pensare a tutte le volte che l’avevo vista in biancheria o in costume. Il dottore mi indicò il lettino, mi ci sdraiai supina, e mentre lui si avvicinava alle mie gambe distese risposi finalmente di no. Mia madre era più piatta.

«Si abbassi le mutandine di qualche centimetro, fino qui», disse lui, indicando sul cotone bianco dei miei slip il limite oltre il quale non sarei dovuta andare. E, quasi ricordandosene allora:

«Se questo non la fa sentire a disagio, ovviamente. Altrimenti può tenerle su».

Io non dissi di sì né di no. Dal pube fino in giù, provavo già quell’eccitazione familiare che produceva una voce diabolica nella mia testa. E la voce diceva: “Sfilatele. Oltraggialo. Mostrati nuda e vedi come reagisce. Che magari. Che magari…”

Invece lo vidi infilarsi dei guanti in lattice.

Con quelli mi pizzicò il pube, l’indice e il pollice protetti dai batteri della mia lussuria.

«Posso aspirare parte del grasso», spiegò, mentre mi toccava stringendo appena i polpastrelli, come tastando una fragola marzolina, «ma poi dovremo rimuovere anche un pezzetto di pelle, con una micro-incisione. La cicatrice non si vedrà, glielo assicuro. L’intervento si fa in giornata, una piccola anestesia locale, niente di traumatico, ma non potrà andare al mare subito».

© Marco Wiatrowski Malavolti

In realtà quella spiegazione non mi interessava. Tagliare un pezzo di pube avrebbe ridotto il mio appetito sessuale? Mi avrebbe fatto diventare come le altre, o almeno nella maniera in cui tutti sembravano descrivere l’essere una ragazza? Sensibile ai tramonti, capace di aspettare i baci dei maschi senza provarci per prima, poco curiosa, per nulla intraprendente, che cedeva in modo passivo al fidanzato solo dopo avergliela fatta sudare e girando la testa dall’altro lato, assieme alla richiesta di accendere la televisione? Livellare quella collina di carne mi avrebbe fatta diventare il sesso debole che tutti volevano che fossi?

Era come se mi togliessi la costola che mi aveva reso una donna dalla bambina che ero, per poi ridargliela al mio Adamo mutilato e dire: è quella sbagliata, ti sei sacrificato per niente. Va rimodellata, è necessario un lifting della tua costola perché io diventi Eva. Non è colpa tua, ha sbagliato Dio. Dio ha sbagliato con me e ha sbagliato con te, ma se ho peccato l’ho fatto perché provengo da una costola incrinata.

«In genere questi interventi si fanno su donne sovrappeso o con smagliature da gravidanza. Se lei però non si sente a posto, prenotiamo l’ambulatorio e facciamo tutto in un giorno».

Annuii, annoiata dai dettagli. Fu solo quando il medico menzionò la parola “firmare” che mi ridestai dalle mie elucubrazioni.

«Firmare cosa? Quale consenso?»

«Deve fare firmare ai suoi genitori il modulo del consenso informato: quel giorno si faccia accompagnare dalla mamma o dal papà, mi basta la firma di uno dei due. Intanto le faccio preparare gli assegni: l’anticipo va versato tre giorni prima, il resto dopo l’intervento».

Perché diavolo non ci avevo pensato? Ero una minorenne.

«Posso portare il foglio già firmato, assieme ai soldi? Cioè, so già che i miei genitori sono d’accordo, ma m’imbarazza che siano con me durante l’intervento. E anche gli assegni: sono proprio necessari o posso… possiamo pagarla in contanti?»

Il dottore per tutta risposta si sfilò i guanti e li buttò via, quasi stizzito. Poi andò a lavarsi le mani, c’era un piccolo lavandino, proprio accanto al lettino da visita, che non avevo notato. Se le insaponò copiosamente e nel farlo mi sembrava che sospirasse.

«Non è possibile, mi dispiace. Deve presentarsi accompagnata e non può pagare in contanti», mi spiegò, rimanendo di spalle.

E se allargassi le gambe per convincerlo? Pensai. Non avrei mai avuto il coraggio di farlo, ma certo come fantasia sarebbe stata lo spunto per una futura masturbazione.

© Marco Wiatrowski Malavolti

Pagai le mie centocinquantamila lire in silenzio, uscii, l’assistente del dottore mi salutò e io non risposi. Scappai per le scale con il mio pube fra le gambe. Intatto. Come la mia fame.

Tornai in paese quasi subito, con la corriera del pomeriggio. Nel viaggio avevo pianto persino un po’, asciugandomi gli occhi con rabbia non appena sentivo le lacrime bagnarmi le ciglia. Non volevo aspettare la maggiore età, un anno in quelle condizioni era un altro anno rotto.

E per un nonnulla non mi feci investire sulla strada di fronte a casa mia, da un’Audi nera che andava in retromarcia per parcheggiare. Ero arrivata davanti al portone quando sentii apostrofarmi con la parola “cretina”.

Mi voltai e vidi che era Luca. Dalle medie in poi era sempre stato insopportabile con me, eppure da bambini giocavamo entrambi in strada, una volta mi fece persino salire sulla sua bicicletta nuova, senza ruotino. Crescendo mi salutava facendo smorfie strane o rendendomi oggetto di battute antipatiche a cui neanche mi prendevo la briga di rispondere e, ancora prima, di capire. Negli ultimi anni smettemmo di salutarci, e, se io prendevo l’ascensore, Luca vedendomi sceglieva le scale.

Ora invece mi dava della cretina.

«Ma che vuoi?», gli dissi, sfidandolo con gli occhi. Lui stavolta non abbassò lo sguardo, non finse di non vedermi, anzi.

«Sei spuntata all’improvviso e senza neanche guardarti intorno. Cristo! Per poco non ti mettevo sotto».

«Ti piacerebbe!», esclamai, mentre quasi rompevo il gancio della borsa pur di agguantare le chiavi.

«Certo che sei proprio…», iniziò lui, avvicinandosi.

Alzai di nuovo gli occhi a guardarlo. Avevo un debole inconfessato per gli uomini con i capelli ricci, eppure in quel momento l’avrei preso a schiaffi. Invece allungai il viso verso il suo.

«Proprio cosa?»

«Proprio troia, ecco cosa».

«Sì», sussurrai. «Come la tua mennona. O forse pensi che mentre tu sei a Milano lei qui indossi la cintura di castità?»

Lui in risposta mi afferrò il braccio, facendomi cadere la borsa a terra. Poi mi spinse via, come disgustato. La raccolsi e continuai a stuzzicarlo.

«Cosa c’è? Papino non ti ha fatto usare il garage e adesso te la prendi con me?»

«Il garage mi serve a castigare quelle come te».

Scoppiai a ridere e finalmente infilai le chiavi nella serratura del portone.

«Se lo facessi con me non ne usciresti vivo», mormorai, voltandomi per entrare.

Per la seconda volta Luca mi agguantò il braccio. Stavolta mi strinse il gomito.

«È una scommessa?»

Mi fermai di nuovo. Ché c’era, in quella domanda strafottente e assurda, l’invito a un gioco che per un attimo mi riportò ai nostri di quando eravamo bambini. Ricordai un particolare. Luca era cambiato con me dal giorno del giro in bicicletta. Quel pomeriggio mi ero aggrappata alle sue spalle, avevo stretto le mie gambe sudate alle sue, premuto il mio pube contro i suoi jeans sporchi di terra. E allora, lui, forse per primo, forse ancor prima ch’io lo realizzassi, era stato testimone della mia transizione, da bambina a lupa. Ora, dopo quasi dieci anni, ci ritrovavamo insieme, a un tratto spogliati dell’ipocrisia di fingere il decoro degli adulti, immersi nel limbo magico del peccato primordiale. Accettai la sfida.

«Sì, vediamo chi vince», dissi con aria tranquilla.

Dieci minuti dopo eravamo nel garage dei suoi.

Luca chiese se preferissi il buio, gli risposi che non volevo giocare a nascondino. Lasciai che la borsa cadesse di nuovo a terra e per la seconda volta, quel giorno, mi sollevai la gonna davanti a un maschio.

Lo vidi inginocchiarsi e gli afferrai i capelli. La sua testa mi sparì tra le gambe.

Lo feci entrare.

Eva Clesis (pseudonimo) nasce a Bari nel 1980 e scrive per lavoro e per diletto. Ha esordito nel 2005 con il romanzo A cena con Lolita (Pendragon 2005) a cui è seguito nel 2008 il romanzo Guardrail (Las Vegas edizioni). Nel 2010-11 pubblica due libri con la casa editrice Newton Compton: il saggio 101 Motivi per cui le donne ragionano con il cervello e gli uomini con il pisello e il romanzo E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco. Nel 2013 pubblica per Perdisa il noir Parole sante, nel 2014 pubblica un altro noir, il breve Finché notte non ci separi (Lite Editions). Nel 2018 escono due libri: il romanzo Lo Straordinario (Las Vegas edizioni) e Amor (Miraggi) nonché una nuova edizione del libro Guardrail. Nel 2022 esce il suo ultimo romanzo, E lucevan le stelle (Castelvecchi). Ha pubblicato svariati racconti per antologie e riviste. Attualmente vive a Reggio Calabria.

Il desiderio, nelle fotografie di Marco Wiatrowski Malvolti, è un ricordo. Il corpo femminile che lo incarna ci appare intoccabile, ripreso da una distanza che ha più a che fare con il tempo che con lo spazio. Nei suoi lavori il legame con la pittura non è solo accennato: la pellicola, come la tela, è materia, medium; incarnazione, non specchio.

Le donne di Malvolti sono ninfe dell’acqua, spiriti della foreste: si mostrano allo sguardo per eccezione. Come nell’universo preraffaellita, il fotografo può solo spiarle, augurandosi di essere abbastanza veloce. Ma è in questo processo di idealizzazione – nell’apparizione furtiva, nel suo svanire –  che ci svela qualcosa:

Non possiamo portare al linguaggio i nostri desideri, perché li abbiamo immaginati. La cripta contiene in realtà soltanto delle immagini, come un libro di figure per bambini che non sanno ancora leggere, come le images d’Epinal di un popolo analfabeta. Il corpo dei desideri è una immagine. E ciò che è inconfessabile nel desiderio, è l’immagine che ce ne siamo fatta. (Agamben, “Profanazioni”, 2005, Nottetempo, p. 57)

Livia Del Gaudio

Marco Wiatrowski Malavolti, in arte Uomodelnord, nasce a Faenza nel 1981. Dal 2005 inizia ad appassionarsi alla fotografia. Col tempo, la sua passione matura e passa dal digitale all’analogico nel 2018. La sua iniziale attenzione la rivolge ai luoghi con particolare interesse per quelli che contengono elementi di contrasto. Scenari notturni, urbani, alienanti. Natura potente. Successivamente, spinto dal bisogno di maggior profondità evocativa, si rivolge ai soggetti. Di questa sensibilità che lo caratterizza ne ha fatto l’impronta con cui vorrebbe silenziosamente firmare le sue foto. Un viaggio introspettivo, in un’ottica di accettazione e accoglienza dei luoghi nascosti che ognuno, lui compreso, possiede dentro di sé.

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