di Barbara Guazzini

© Cristina Comparato
Sing me to sleep/Sing me to sleep/I’m tired and now/I want to go to bed/Sing me to sleep/Sing me to sleep/And then leave me alone/Don’t try to wake me in the morning/’Cause I will be gone/Don’t fell bad for me/I want you to know/Deep in the cell of my heart/I really want to go (Asleep – The Smiths, settembre 1985)1
*
Del fatto in sé ho pochi ricordi, non saprei dire in quanta parte genuini o costruiti a posteriori.
Rammento che era estate, questo sì. Io, mio padre e mia madre dopo cena eravamo andati dagli zii che allora gestivano un circolo dopo-lavoro. Era un locale con le vetrate per pareti, e si collegava alla strada attraverso un vialetto breve a lastroni sconnessi; da fuori potevi osservare quello che avveniva lì dentro (ricordo di aver pensato quanto sarebbe stato bello viverci). Mio padre chiese a sua sorella L. di poter usare il telefono a scatti, sospeso in un angolo ad altezza di adulto e separato da un paravento di metallo traforato; senza attendere il sì, attraversò la stanza, sparì dietro quella specie di confessionale. Mia madre scambiava discorsi leggeri con mia zia; mio zio serviva i clienti che si presentavano al bancone del bar alla spicciolata; io inserii la moneta nel distributore di palline di plastica con la sorpresa, quella scese, mi deluse (era da maschi) e dunque raggiunsi mio padre. Lui stava muovendo l’indice inspessito per il lavoro in fabbrica nella rotella dell’apparecchio, io lo prendevo in giro mentre lo guardavo da sotto in su. Lui non rise. «Non risponde» disse. «Non risponde»; io avevo solo fretta di andare in pineta al Parco dei Divertimenti, dove era allestito il teatrino delle marionette. Infatti andammo.
1 Inverness, Teatro Eden Court, concerto del 1° ottobre 1985. Durante il soundcheck, un pianoforte impegna una parte laterale del palco. Si racconta che lo strumento – non trasportabile – sia rimasto lì, e che The Smiths abbiano voluto dargli un senso eseguendo Asleep, brano fuori programma. Qualcuno ha caricato in rete il file audio (https://youtu.be/Fo2Euavj2nY). In sottofondo si sente il fruscio macchinoso della cassetta col nastro a due bobine. La voce ha l’andare fiacco della cantilena, si appoggia alle note del pianoforte come per trovare riparo, certe volte va per la sua e il risultato è un lieve fuori tempo (non disturbante, senza rincorse); i piatti, affannati, sembrano dover spirare dopo ogni tocco. I fischi del pubblico montano e cozzano contro la voce grave di Morrissey – lui la sta spingendo fuori dal corpo, raccolto in posizione fetale, al centro del palco, senza fratture né incertezze. Potresti dire che è tutta ripiegata all’interno del corpo che la genera e che, “occasionalmente”, la riversa nello spazio saturo. Si crea un contrasto senza composizione: è la solitudine sublimata in suono nel mezzo della vita che noncurante continua. There’s another world/There’s a better world/It must be/It must be: la voce sfuma – si esaurisce – il piano continua per due giri di melodia e si interrompe brusco. The Smiths non la eseguiranno più dal vivo.

La mia camera era buia, dai fori della serranda non filtrava niente. Mi aveva svegliato lo sbattere del portone d’ingresso e sentii la voce soffocata di mia madre che diceva: «Oh mio dio». Sul momento il mio cuore prese la rincorsa ma il silenzio ritrovato lo fece tornare nei ranghi; la notte proseguì, io mi riaddormentai fino al mattino.
In mezzo ai due scampoli di ricordo c’è il nulla delle azioni consuete, di norma trascurabili (avrò riso alle battute delle marionette, avrò mangiato lo zucchero filato, tornammo di certo a casa), che invece diventeranno tessuto di ricostruzione e rivisitazione ripetuta – anzi, ossessiva – nei giorni a venire, ma mentre si svolgevano ancora non lo potevamo sapere.
Il frammento successivo è della mattina in cui rientrai a scuola dopo un’assenza, e presentai la giustificazione per “motivi familiari” firmata da mia madre. La maestra non si accontentò, faceva domande. «Mia zia P.» dissi. «Cosa le è successo, per non venire a scuola?» chiese lei. «“Suicidio”» risposi, ed era la prima volta che la pronunciavo, “quella parola”, tanto che intaccai e dovetti ripetere. La maestra si ammutolì, tornò in cattedra e mi lasciò appesa a “quella parola”. La sua reticenza mi fece provare vergogna, mi sentii rifiutata. Rammento le vampe in viso, e la merenda consumata seduta al banco per evitare gli altri bambini.
Del funerale nulla so (c’ero?, mi hanno lasciata a casa?), di certo sarà stato in sordina2.
2 Il Codice di Diritto canonico (1917-1983), al canone 1240, sulle cause di esclusione dalla sepoltura ecclesiastica, prevedeva: “Ne sono privati, se non pentiti, i notori apostati, eretici, scismatici, massoni o altri settari, scomunicati e interdetti con sentenza; suicidi […]” (http://www.cdirittocanonico1917.it/m/online).

© Cristina Comparato
Non ci furono approfondimenti di attività investigativa della Procura: il fascicolo venne chiuso in fretta e archiviato come atto volontario, nonostante l’opposizione dei congiunti: a monte c’erano la separazione recente da un uomo difficile e una relazione iniziata da poco. Un carabiniere recuperò una ciabatta di mia zia sull’asfalto, accanto al corpo, e la consegnò a mio padre. Lo vidi tenerla fra le sue mani grosse, percorrere le cuciture laterali in punta di dita a testa bassa, dunque avvolgerla in una borsa di nylon e riporla nell’armadio in camera. Per un po’ fui perseguitata dalla presenza in casa di quella stupida ciabatta sopravvissuta a mia zia. Immaginavo la torsione innaturale del piede nel momento dell’impatto, l’osso della caviglia che si rompeva con uno schiocco, mentre la ciabatta si sfilava e guizzava poco più in là. O forse, si era messa in salvo in volo.
Non so dire se il fatto mi sia stato trasmesso dai miei in modo chiaro e diretto. Credo piuttosto siano state le pareti della casa in cui abitavamo – un buco – ad aver ascoltato e riportato i discorsi degli adulti. Vivere (e crescere) in una casa di dimensioni modeste è trovarsi in una condizione di trasparenza malgrado tutto – non è consentito mantenere segreti gli umori, i pensieri e neppure le ossessioni – tanto che ognuno ha idea che sia già tutto risaputo, condiviso, e non necessiti di spiegazioni, annunci o cautele. Così puoi essere messa a parte del mondo tragico che si agita intorno a un atto altrui, solitario e intimo, come il darsi la morte: mio padre che di notte, sottovoce, faceva a mia madre il resoconto di cosa stavamo facendo noi, di banale, mentre lei…, oppure che ripeteva i discorsi “normali” dell’ultima telefonata in cui gli era sembrata “normale”; o ancora, che supponeva, deduceva, procedeva con l’illusione di avere la quadratura a portata, e invece doveva muoversi a ritroso in cerca del momento in cui i conti avevano iniziato a non tornare. Mi addormentavo ascoltando i suoi bisbigli nel buio, divenuti abituali, la sua narrazione “intorno” all’accadimento, da una prospettiva tarata sul desiderio di dimostrare, sopra ogni cosa, la non volontarietà dell’atto. Finché mia madre gli diceva «Ora dormi», col tono che usava con me. Credo che lui andasse cercando una sorta di sollievo, per sé, in quel pensiero, e che gli sia mancata l’intuizione di poterlo, invece, trovare nell’accettazione della volontà altrui espressa nel gesto (Don’t fell bad for me/I want you to know/Deep in the cell of my heart/I really want to go)3.
3 La narrazione intorno al suicidio non avviene solo sottovoce, tra le pareti di casa. La psicologia forense si occupa di indagare le cause di morte, quando vi sia un ragionevole dubbio se questa sia stata autoinflitta ovvero eteroinflitta. La tecnica utilizzata si chiama “autopsia psicologica”, teorizzata all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso dagli psicologi statunitensi Schneidman e Faberow. Si tratta di un’indagine retrospettiva della vita del soggetto deceduto, attraverso la ricostruzione della biografia, mettendo in risalto lo stile di vita, la personalità, gli stress recenti, eventuali infermità mentali, l’enunciazione di idee orientate alla morte, in particolare negli ultimi giorni e nelle ultime ore della vita per definirne lo stato mentale in prossimità della morte. Tutte le informazioni vengono raccolte attraverso documenti personali, rapporti medici, rapporti di polizia, pratiche giudiziarie, interviste ai familiari, agli amici, ai colleghi di lavoro, analisi del materiale fotografico (ritenuto assai rilevante nel rivelare la personalità di un soggetto, gli umori, le relazioni familiari ed extrafamiliari). La tecnica ha scarsa applicazione in Italia (l’obiezione più facile è “tante teste, tante narrazioni”), è stata invece oggetto di standardizzazione attraverso la creazione di un protocollo da parte dell’Istituto di Medicina Legale della città de La Habana nei primi anni Novanta (MAPI, Modelo de autopsia psicologica integrado), nel tentativo di cercare di ridurre al minimo il margine di errore nella ricostruzione dell’intimità del morto, delle sue ragioni, dei suoi pensieri attraverso elementi esteriori.

© Cristina Comparato
A un certo punto, le notti a casa tornarono silenziose.
Ho immaginato mio padre arrendersi all’evidenza di non poter trovare risposte alle domande che l’atto finale si era lasciato dietro. Dunque solo in apparenza atto finale; nella sostanza: l’inizio di altro – un “altro” del tutto collaterale ed estraneo all’intimità dell’autore del gesto.
In Norwegian wood – Tokio blues, Haruki Murakami fa dire al protagonista Watanabe Tōru, a proposito del suicidio dell’amico Kizuki: “Decisi di dimenticare. […] All’inizio sembrò funzionare. Tuttavia, per quanto mi sforzassi di dimenticare, dentro di me restava qualcosa, una specie di grumo d’aria non meglio precisato. Poi, col passare del tempo, quel qualcosa cominciò a prendere una forma più chiara e definita. Così chiara che posso anche tradurla in parole. Le seguenti: LA MORTE NON È L’OPPOSTO DELLA VITA, MA UNA SUA PARTE INTEGRANTE. […] Trascorsi la primavera dei miei diciott’anni sentendo dentro di me quel grumo d’ aria. Però allo stesso tempo mi sforzavo di non prenderlo troppo sul serio, perché intuivo vagamente che prendere le cose sul serio non sempre significa avvicinarsi alla verità. Continuavo a muovermi in quell’angosciosa antitesi, in un infinito circolo vizioso. A pensarci adesso furono davvero dei giorni strani. Nel pieno della vita tutto ruotava attorno alla morte”4.
Non so se ciò accada universalmente; tuttavia accadde a me. In quella specie di grumo d’aria, i miei genitori morivano in mille modi, e io restavo sola.
Di mia zia non parlammo più.
Immagino che, nelle intenzioni dei miei, il silenzio sull’accaduto fosse volto a tenermi lontana dal concepire il suicidio come una tra le possibili modalità per affrontare le complicazioni della vita, trasferendo la mia adorazione per la zia nella normalizzazione della sua scelta di darsi la morte5.
4 È degna di nota la circostanza che Murakami non usa il termine “suicidio”. Nella cultura nipponica ‒ intesa, in sociologia, come “l’insieme dei valori, simboli concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale” (https://www.treccani.it/vocabolario/cultura/) ‒ il suicidio è concepito come atto moralmente accettabile, addirittura come gesto onorevole, a forte valenza simbolica ed estetica (per esempio: la maggior parte dei suicidi avviene il giorno del compleanno; ci sono luoghi con un alto tasso di suicidi, come la foresta Aokigahara ai piedi del Fuji, i binari della linea rapida Chūō, la scogliera di Tōjinbō). Conseguente a questa concezione, il suicidio ha ricevuto in Giappone una codificazione e stratificazione anche lessicale: seppuku o harakiri (volgare): letteralmente “taglio del ventre con un coltello”, antico rituale per il suicidio volontario o obbligatorio della casta dei samurai; karoshi: letteralmente “morte per troppo lavoro”; kodokushi: letteralmente “morte solitaria” attraverso l’alienazione dal mondo e dalle relazioni interpersonali. 5 Il sociologo David Phillips nell’anno 1974 ha enunciato il c.d. “Effetto Werther” in un articolo pubblicato su The American Sociological Review, numero del mese di giugno 1974, dal titolo The influence of suggestion on suicide: substantive and theoretical implications of the Werther effect (https://www.researchgate.net/publication/277423058_The_Influence_of_Suggestion_on_Suicide_Substantive_and_Theoretical_Implications_of_the_Werther_Effect). La teoria prende le mosse dall’osservazione che, a seguito della pubblicazione del romanzo di Goethe (1774), si erano verificati una serie di suicidi emulativi di giovani uomini in qualche modo riconducibili alla lettura del romanzo. Fenomeno analogo veniva osservato anche in Italia, a seguito della pubblicazione de Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1803) e in Austria a seguito della pubblicazione del saggio Sesso e carattere (1903) del filosofo Otto Weiningher (morto suicida all’età di ventitré anni). Lo stesso effetto è stato osservato nella città di Los Angeles il mese successivo alla morte di Marilyn Monroe (1962), con un incremento del 40%; con un incremento inferiore, lo stesso fenomeno si è verificato a seguito del suicidio di Ernest Hemingway (1961).

Così, nel tempo, per andare a riempire la stanza vuota, in autonomia e vorace ho raccolto segni e notizie, per lo più attingendole dalle trasmissioni tv o dai giornali6.
Nell’opera di messa a fuoco del gesto di mia zia, mi è capitato, per esempio, di fissare in mente la dichiarazione di un regista (rilasciata durante un’intervista), in cui confidava che quando soggiornava in albergo aveva preso l’abitudine di spostare l’armadio davanti alla finestra, per interporre un ostacolo fisico alla volontà di gettarsi in strada; sosteneva che l’ideazione suicidaria fosse un blocco passeggero della lucidità ‒ lo definiva black-out ‒ e che l’espediente dell’armadio (non la terapia, non l’aiuto di altri…) gli aveva permesso di superare l’impasse indenne7.
Allo stesso modo, rammento il racconto di una donna, inquadrata di spalle e con la voce storpiata, su come avesse preparato a lungo il proprio suicidio, senza mai metterlo in atto: non sopportava l’idea del corpo inerte in posa sgraziata, scrutato con pietà morbosa; aggiungeva che si era fatta bastare il sollievo provato al solo pensiero di un’“ipotesi” di via d’uscita al vivere con dolore8.
6 Poiché è stato osservato che più i media diffondono notizie e dettagli sui suicidi, maggiore è l’effetto emulativo, l’OMS ha elaborato un manuale dal titolo Preventing Suicide: a resource for media professionals, periodicamente aggiornato (l’ultima versione è del 2017), contenente le Linee Guida per una corretta diffusione delle notizie sulle morti per suicidio, tale da scongiurare o quanto meno limitare l’effetto emulativo (il testo completo è reperibile sul sito della World Health Organization - WHO). Alcune delle raccomandazioni: non usare nei titoli la parola suicidio, e dare la notizia in maniera essenziale senza indugiarvi né usare linguaggio sensazionalistico, soprattutto se si tratta di celebrità; dare la notizia contestualmente alle informazioni sulla prevenzione (per esempio diffondendo i numeri telefonici di strutture di aiuto); non creare leggende metropolitane e non descrivere i luoghi e le modalità; usare cautela nelle interviste ai congiunti maggiormente esposti a porre in essere atti emulativi. 7 In contrapposizione al c.d. “Effetto Werther”, si è definito “Effetto Papageno” il fenomeno per cui la notizia di una persona che rinuncia al proposito di suicidarsi provoca una emulazione positiva. Ne Il flauto magico di Wolfang Amadeus Mozart, il personaggio Papageno sta meditando di suicidarsi impiccandosi a un albero, per porre fine alle sue sofferenze d’amore per la scomparsa dell’amata Papagena. Intervengono, però, tre genietti che lo fanno desistere, suggerendogli di suonare un carillon di campanelli magici: la donna amata riappare e si riunisce per sempre a Papageno. 8 Nella letteratura medico-scientifica, si definisce “paradosso di genere” il fenomeno in base al quale si è osservato l’utilizzo da parte degli uomini di metodi suicidari a più alta letalità, mentre le donne in fase di attuazione lascerebbero più spazio alla possibilità di essere soccorse. La teoria è confermata dagli ultimi dati ufficiali raccolti sui suicidi in Italia, risalenti ormai all’anno 2017. Il dato che emerge è di una prevalenza numerica maschile (su circa 4.000 suicidi in un anno, quasi l’80% sono di uomini). Non esistono, invece, stime certe sui tentativi di suicidio ma si calcola che nel sesso femminile siano maggiori di 10-25 volte rispetto a quelli registrati nel sesso maschile (htpps://www.repubblica.it/salute/2021/03/14/news/suicidi-291318922/).

© Cristina Comparato
In altra occasione, mi colpì il volto di un uomo che riempiva lo schermo, mentre stava leggendo il biglietto lasciato dal fratello scomparso, in seguito ritrovato in un bosco morto suicida. Erano poche righe di scuse ai familiari in cui il morto spiegava che si sentiva annegare nei debiti e non scorgeva più alcun futuro; oltre a questo, si raccomandava per l’accudimento del cane. Accanto alla lettera c’erano poche banconote per sostenerne le spese. L’uomo aveva la fronte che si accartocciava nell’espressione di chi non comprende: non so se fosse per il dolore o se avesse colto, come me, una contraddizione nella prospettiva del suicida, tra un futuro che non esisteva più e un futuro di cui tuttavia continuava a preoccuparsi mentre era sul punto di darsi la morte. Evidentemente, allora, per me esisteva “il” futuro (per meglio dire: “il domani”), e non concepivo che ognuno ne avesse uno proprio, individuale, a cui poter mettere volontariamente fine.

© Cristina Comparato
Un po’ come accadde a mio padre, a un certo punto ho interrotto la narrazione in solitaria intorno al suicidio. Finché, di recente, è capitato di fare un tratto in auto con una persona che dopo qualche mese (ho saputo poi) si è suicidata. La casa dove è accaduto si trova sul percorso per i miei spostamenti abituali, così in primavera ho potuto assistere al prato che si rinfoltiva di un verde nuovo e agli alberi che si caricavano di frutti; col passare delle settimane, il prato è diventato una selva senza disciplina e i frutti si sono sfasciati a terra. Il disagio provato nel vedere quella casa viva, nonostante tutto, è stato lo stesso di quando da ragazzina mi trovavo davanti all’armadio di camera dei miei e ripensavo alla ciabatta riposta lì dentro, in salvo. E ho concluso che gli oggetti sopravvissuti ai suicidi ‒ la pianella che abbandona il corpo, la casa che si fa tomba ‒ non sono meritevoli del posto che continuano a occupare: mostrano una persistenza stupida e ingrata per il suo essere separata, autonoma (e anzi, contrapposta) rispetto a chi dava loro un senso possedendoli in vita. Mi sono sentita, come mai prima, un essere umano fragile.
La ciabatta di mia zia venne in seguito spostata in un baule in cantina, per fare spazio a un televisore che mio padre aveva acquistato con la gratifica di Natale. Lo fece furtivo, io me ne accorsi a cose fatte. Credo sia ancora lì.
La casa, invece, non la guardo più.

© Cristina Comparato
Barbara Guazzini è nata nella Maremma toscana, dove tutt’ora vive ed esercita la professione di avvocato. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste e blog letterari (Carie, Crack, Malgrado le mosche, micorrize, Narrandom, Sulla quarta corda, ’Tina).











La casa è crollata. I calcinacci sono ovunque, parte del tetto non c’è più, al posto di una facciata c’è un buco. La casa ha smesso di essere una casa.
Meglio sarebbe starle alla larga.
Invece Cristina Comparato le gira intorno. Raccoglie frammenti, li osserva, scatta una foto. Li rimette al loro posto e prosegue. Mentre le ruspe completano la distruzione – la casa non è più una casa; è un pericolo, una rovina da rimuovere – la macchina fotografica raccoglie. Biglietti, vecchie fotografie, la fuga di un gatto senza padroni. Quello che ne viene fuori non è una storia, ma la descrizione di un movimento che dall’epicentro del disastro si allarga verso i bordi, come un sasso lanciato sul fondo di un lago.
Quando la monaca Chiyono studiava lo zen con Bukko di Engaku, racconta una favola Zen, per molto tempo non riuscì a raggiungere i frutti della meditazione. Finalmente, in una notte di luna, stava portando dell’acqua in un vecchio secchio tenuto insieme con una cordicella di bambù. Il bambù si ruppe e il fondo del secchio cadde, e in quel momento Chiyono fu liberata! Per commentare l’evento, scrisse una poesia: In questo modo e in quello cercai di salvare il vecchio secchio Poiché la corda di bambù era logora e stava per rompersi. E poi tutt’a un tratto il fondo si staccò e cadde Niente più acqua nel secchio! Niente più luna nell’acqua! (101 storie Zen, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, 1973, Adelphi)
La fotografia di Comparato, nella sua libertà tecnica e nell’assenza di dogmi estetici, trova il suo segno: un linguaggio fatto di vuoti, che ambisce alla dissoluzione. Una voce senza più acqua né luna nel secchio.
Livia Del Gaudio
Maria Cristina Comparato. Di formazione umanistica, non nasce fotografa ma sperimenta l’uso dell’immagine da autodidatta, alla ricerca di possibilità narrative oltre la parola. Il suo attuale percorso si muove attraverso l’esplorazione dell’identità, attraversando corpi, territori, ma anche memoria e sensazioni, partendo dall’esperienza del quotidiano, del vissuto e dell’appartenenza. Vincitrice dell’edizione 2020 del premio nazionale Portfolio Italia, ha contribuito al volume collettivo Chirocene – Naviganti d’Appennino con la serie fotografica intitolata Racconto di pietra, pubblicato da Hacca Edizioni, mentre una selezione del progetto a lungo termine sugli Appennini Marchigiani sarà pubblicata a breve all’interno di una rivista dedicata all’indagine sul territorio italiano. Collabora con l’osservatorio Urbanautica e con la casa editrice Penisola Edizioni.