di Fabiana Castellino

© Aldo Feroce
Per un certo periodo della mia vita, la cui fine è coincisa con la conclusione dell’università, ho saputo con esattezza scientifica cosa volessi. Sapere cosa si vuole permette di tracciare una mappa con una fede incrollabile. Una strada diritta alla fine della quale i desideri sono, non realizzabili, ma realizzati. Sapere cosa si desidera sta nel fatto che lo si sa e basta. È una consapevolezza interiore che non è solo il principio di tutto, ma è anche il motore di tutto. A quel tempo io sapevo che cosa volevo senza averlo cercato, e se qualcosa rimaneva fuori da questa consapevolezza semplicemente era fuori dal mio interesse. Quello, prima che finisse, è stato un periodo molto ingenuo. Poi, questa consapevolezza è sparita.
Adesso che vivo a Roma da tanti anni posso dire che è la città che non si tocca. Non delle rovine romane, o del cinema, o delle possibilità per chi viene ad abitarla con grandi aspettative; se lo è mai stata, non credo che lo sia più. Roma è la città che non si tocca perché i suoi abitanti sembrano trascorrere la maggior parte del tempo ad attraversarla. In macchina, su un autobus, o su un treno, i cittadini passano da un punto all’altro coi piedi che non toccano mai terra, sorvolando i marciapiedi sconnessi, sprofondando nelle gallerie, fino a scendere solo il tempo necessario per raggiungere un altro posto e poi ricominciare. Se l’autobus non passa, la metro ha un guasto, il traffico è bloccato, allora la gente inizia ad agitarsi, a prendersela con chiunque – è colpa tua, del governo, delle tasse, dell’euro, dei comunisti, dei fascisti; è colpa di quella che mi ha rovinato; è colpa mia, ma non riesco a dirlo –, finché non compare all’orizzonte un semaforo verde, un altro bus, per risalire e scendere un po’, sorvolando ancora quello che ha colpa di tutto, e non si sa bene chi sia.

© Aldo Feroce
Muoversi con i mezzi di trasporto è la prima cosa che si impara quando si arriva a Roma. L’obiettivo della rete di trasporti (di cui si lamentano tutti, ma nessuno può farne a meno) è di non perdersi troppo, anche perché, di arrivare velocemente, non se ne parla.
Quando sono arrivata a Roma avevo diciannove anni e due raccomandazioni nelle orecchie: di tornare presto a casa, e di fare attenzione, che in una città così mi sarei potuta perdere. Credo che le due raccomandazioni fossero in connessione fra loro perché chi si perde, per definizione, non può tornare. E quello che mi sono sentita dire più spesso nel corso degli anni è stato: “ho la sensazione di averti persa”.
Provengo da una città che è lontana da tutto. Geograficamente lontana da tutto. Si trova vicino la punta sud della Sicilia; dista due ore da Catania e cinque da Palermo; viene orgogliosamente chiamata da alcuni l’isola nell’Isola. Io l’ho sempre immaginata vista dall’alto, circondata da un grande burrone, dentro una terra circondata dal mare.
Capita che l’autostrada si crepi, precipiti su stessa, si frantumi come uno specchio e la maledizione è la stessa: per sette anni la condanna è, se vuoi uscire dalla mia città, di attraversare stradine impossibili sulle colline, sul mare, oppure di non andare da nessuna parte e rimanere dove sei.
Da ragazzini passavamo le serate a spostarci da un luogo all’altro della città solo per ingannarci, e dirci che non eravamo invischiati in quell’immobilità, noi; un’immobilità che era dappertutto, ma non ci riguardava: pensavamo che la nostra giovinezza non ne sarebbe stata toccata, ma, dopo essere stati in tutti i luoghi in cui potevamo andare, ci arrendevamo. Anche i desideri prendevano la forma della città, e diventavano nostalgie.
Io, invece, lo sapevo bene che cosa volevo. E lo volevo a Roma.
Una sera mi sono effettivamente persa. Ero a Roma da pochi mesi, le amicizie erano timide e dubbiose. Mi avevano detto: «C’è un teatro vicino casa tua, non puoi sbagliare, ci vediamo lì».
Solo che il teatro non l’ho mai trovato. Seguivo con le dita le strade disegnate sulla cartina, ne percorrevo una, poi un’altra, ma del teatro nessuna traccia. Speravo in un’epifania, un’indicazione miracolosa, e quel che mi faceva infuriare era questa vicinanza che sfuggiva a ogni passo. Chiedevo ai tassisti, ai passanti: tutti alzavano il braccio indicando ogni volta un punto diverso: «Sta qua dietro».
«Dove?» facevo io, del panico che trasudavo non mi importava più niente.
«Proprio qua».
Alla fine, telefonai per farmi venire a prendere. Gli amici del tempo mi sorrisero, mi condussero per una strada, girarono per un’altra, ed eccolo: il teatro.
«Visto? Stava qua».
Ci ho ripensato spesso, quando ho smesso di sapere cosa volevo, a quel teatro così vicino che non ho mai trovato. Così ero io: vicina e non mi raggiungevo.

© Aldo Feroce
Qualche sera fa parlavo del fatto che avrei dovuto scrivere qualcosa su Roma: con un certo imbarazzo confessavo che, nonostante gli anni vissuti in città, non la conoscevo così bene.
Mi hanno detto: «Vuoi sapere una cosa su Roma? Non si sviluppa come una qualsiasi città, cioè per lunghezza, con palazzi e grattacieli sempre più alti, o un quartiere accanto all’altro. Roma si estende lungo le vie consolari. Lascia dentro di sé grandi spazi vuoti, nessuna strada, nessuna nuova casa, sembra di stare in campagna. È come se li dimenticasse, quegli spazi».
«E cosa vuol dire?»
«Che Roma è fuori controllo».
La verità è che non si può spiegare che cosa significhi perdersi. Anzi, si potrebbe dire per assurdo, che se si può spiegare, allora non ci si è persi. Il corpo di chi si perde si scollega dal luogo, diviene un punto in uno spazio vuoto. Ciò che viene prima, dopo, che si attraversa, i punti focali da cui ci si può guardare, o anche solo il modo in cui si è immaginato un posto, nulla di tutto questo esiste, le prospettive e le vie si mescolano fino a divenire irriconoscibili. E quando ho smesso di sapere cosa volevo il luogo irriconoscibile ero io.
Ho scelto Roma perché, pur essendo una città immensa, tutto era raggiungibile, non solo al suo interno, ma anche al di fuori. Non è un’isola nell’isola; è il centro di una ragnatela da cui sarei potuta andare ovunque, dovevo solo scegliere. Il punto è che, quando si smette di sapere che cosa si vuole, salta anche la scelta, che è essa stessa una delle tante connessioni che ci legano a un luogo o a un momento, un compromesso fra il volere dentro di noi e le circostanze fuori di noi.
Per sciogliere il groviglio dei miei dubbi, avevo l’abitudine di camminare lungo un percorso che era sempre lo stesso. Camminavo così tanto da farmi venire le vesciche; a volte mi sanguinavano le caviglie, le scarpe non mi sono mai durate più di sei mesi. Io, Roma, la volevo toccare, non volevo dimenticarla su un autobus o un treno; non perché la città mi dovesse una qualche rivelazione, ma solo perché mi pareva che, attraversandola, anche i miei dubbi sarebbero diventati strade, e avrei raggiunto quello che era terribilmente vicino.
Così percorrevo via Ostiense dalla Basilica di San Paolo fino alla Piramide; su per via Marmorata dove l’odore cambiava: non era più quello di gomme esalato dall’asfalto, ma di fumi neri di tram lenti e affaticati. Alla fine di via Marmorata, all’altezza di Piazza dell’Emporio, rallentavo il passo. Sul Lungotevere spiavo il fiume sotto, gli perdonavo l’odore, proseguivo fino al quartiere ebraico. Al ritorno, percorrevo via Trastevere fino alla Stazione, un passo veloce sotto il ponte su cui procedevano i treni ignari della vita sotto di loro; viale Marconi e poi casa, finalmente. Ritornavo che ero dolorante e svuotata, a volte anche soddisfatta degli scorci improvvisi: una statua annerita di muffa su una fontana spenta, un altare male illuminato, l’occhio di un gatto che spiava dietro un cancello. Mi pareva di intravedere qualcosa, ma alla fine la strada era sempre la stessa: una strada che non andava da nessuna parte.
Vivendo a Roma, visitando città diverse, mi sono accorta che, prima di trovare la strada giusta, ho bisogno di percorrere quella sbagliata.
Ho compreso che, se prima non mi perdo, non so dove voglio essere. Ciò che volevo è sempre stato incredibilmente vicino, identico a se stesso, in quello spazio vuoto che mi sono rifiutata di percorrere, e mi chiedo come abbia fatto a sbagliare strada così tante volte. Penso che se ci fosse un altro modo per ritrovare le strade giuste, senza necessariamente perdersi, nessuno lo rifiuterebbe. Perché nessuno vuole sentirsi perso, collocato in uno spazio vuoto, intoccato, con le strade crepate. Nessuno vuole essere davvero lontano.
Fabiana Castellino (1990) Ha una laurea in Filosofia e molte domande. Suoi racconti sono stati pubblicati su Risme, Blogorilla, RivistaBlam!, Neutopia, Micorrize, Altri Animali. Il racconto Lui è stato finalista al call del Premio Italo Calvino Oltre il velo del reale 2.
Aldo Feroce. Dopo un inizio come fotografo di matrimoni, la passione fotografica si sposta su temi di attualità sociale e documentaristica. A oggi, alcuni suoi progetti sono stati pubblicati su riviste di settore come Second class, ShipBreacking yard, Compartiendo Esperanzas, Yo Soy Fidel, Ritorno a Corviale. Con Il palazzo dei destini incrociati ha ottenuto vari riconoscimenti tra cui: Primo premio al Kolga Tiblisi Award 2022; il primo premio al Bifoto 2022; Finalista al World Report Award 2022; Finalista Lugano Photo Award 2022; Secondo posto The Bar tur Photo Award 2022; Finalista al Portfolio Italia 2021.
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