Le mie idee ingenue e cringe sull’editing

di Leonardo Ducros

© Amirah Suboh

Ottobre 2022: sono seduto sulla mia poltrona, davanti alla mia scrivania, nella casa di qualcun altro. Da mesi sono in un trasloco sospeso, un limbo fra case, e ci vorrà ancora molto prima di uscirne. Tutto quello che ho è sparso per Roma e un po’ lo è anche la mia testa, e forse è per questo o forse è solo colpa mia ma sto rincorrendo scadenze: su qualcosa sono già in ritardo e davvero non dovrei perdere tempo. Insomma sto scrollando Facebook e trovo un video di Giordano Tedoldi in cui l’autore presenta la sua nuova raccolta di racconti Decomposizione della letteratura. Nel post, Tedoldi scrive che, fra le altre cose, il video parla delle ragioni che lo hanno portato a decidere di autopubblicarsi.

[Marzo 2023: sono ancora nel trasloco infinito e ancora rincorro scadenze. Fra queste c’è l’articolo per In allarmata radura che Livia mi ha rimandato e che io dovrei rivedere da una settimana. Avevo scritto un lungo paragrafo su Tedoldi in cui fra le altre cose parlavo del fatto che Io odio John Updike mi è piaciuto ma non ho letto gli altri suoi libri, e Livia in questo primo giro di editing ha commentato: «sintetizza (il fatto che il commento inizi con la minuscola mi fa sbroccare, ndr). Tedoldi è un espediente. Più che dire cosa pensi o non pensi di lui come scrittore, concentrati su quello che ti ha colpito di quel video». Livia ha ragione, quindi taglio e riscrivo].

Torniamo a ottobre. Per quel che ne so, l’autopubblicazione è la via dello zio mitomane che non ha idea di come far uscire le sue memorie, o dell’aspirante scrittore raggirato dagli equivalenti editoriali di Wanna Marchi e dai propri sogni di gloria. Non proprio il caso di Tedoldi. Tedoldi, se volesse, non faticherebbe a trovare un editore più che disposto a pubblicare il suo nuovo libro, e allora per lui l’autopubblicazione è sul serio una scelta. Sono incuriosito, voglio sapere perché ha deciso di autopubblicarsi, anche e soprattutto per il fatto che direttamente o indirettamente la sua scelta riguarda il mio lavoro, riguarda lo stato attuale e l’evoluzione di qualcosa a cui partecipo. È una scelta che non mi convince (anzi, la mia posizione non è così razionale: è una scelta che non mi piace), ma di cui posso immaginare le ragioni. Mi aspetto un discorso pratico, economico, magari legato alla distribuzione e al fatto che il mercato editoriale è saturo e diluito, o magari un discorso sulla comunicazione, sul fatto che se hai un pubblico attento che ti segue e le case editrici puntano solo su quel pubblico che già hai, forse il tuo libro venderà sempre le stesse copie, anche senza una casa editrice alle spalle. Mi aspetto qualcosa sul rapporto tra librerie e e-commerce, un tentativo di dire che autopubblicarsi è una scelta sì, provocatoria e situazionista, ma anche pragmatica, quasi empirica, consequenziale rispetto al tempo in cui viviamo. Mi aspetto un sacco di cose e nessuna di queste fa parte del video. Nei sedici minuti in cui presenta il libro, l’unica ragione esplicitata da Tedoldi per la scelta di autopubblicarsi è questa:

«Non ho un buon rapporto con l’editing e non ho un buon rapporto con gli editori. Non voglio farla lunga con polemiche, quel periodo l’ho un po’ passato. Però arriva un momento in cui ti senti di voler scrivere una cosa e sei abbastanza convinto di quella cosa, almeno per quanto mi riguarda, e non hai voglia di mediare, non hai voglia di cambiare sostanzialmente niente, magari neanche un aggettivo. Magari le idee e i suggerimenti degli editor sono spesso intelligenti e appropriati, e spesso anche migliorativi, però sono i loro, non sono i miei. Cioè, non so, almeno per una volta [volevo] non fare del romanzo o del libro di racconti una mediazione».

La mia prima reazione è stronza e un po’ paternalista. Penso una cosa tipo “Figlio mio, che editing ti hanno fatto per traumatizzarti così tanto?”. Voglio dire, il sentimento di Tedoldi è comprensibile e legittimo, sta impugnando il suo diritto a proteggere la propria opera, e lo fa anche in modo molto pacato e tranquillo – per mimica, tono e contenuto la sua è una dichiarazione lucida, serena. È solo che si basa su un’idea di editing che a me sembra fallace. Soprattutto la parola mediazione riferita all’editing è qualcosa che mi punge, che in un certo senso mi ferisce, che vivo come un’ingiustizia. Per me è una parola che svia, che inganna, un’accusa nei confronti dell’editing – una pratica che non dovrebbe affatto essere una mediazione. Che non dovrebbe essere percepita come tale.

Poi, dopo un po’, arriva il dubbio: ma io l’ho davvero capito cos’è l’editing?

© Amirah Suboh

[Maggio o giugno 2019: sono a Roma, sto andando in un bar di Prati («in Prati», direbbe qualcuno di Prati) a incontrare il mio primo autore. Io e Giulia abbiamo appena iniziato a occuparci dei racconti per una rivista che si chiama Altri Animali e non abbiamo niente che attesti che siamo le persone giuste per farlo. Sono anni che voglio fare l’editor e l’ho anche fatto per qualche amico ma non ho mai editato ufficialmente nessuno; la mia preparazione è caotica, un bagaglio disordinato di esperienze che sfiorano l’editing in casa editrice, esperimenti di scrittura, corsi e letture di vario genere che mi danno la sensazione di avere gli ingredienti di cui avrei bisogno senza avere una ricetta, e a questo punto l’unica cosa che posso fare è iniziare a mischiare tutto e vedere che succede: se esiste una teoria dell’editing, io non la conosco. 

L’autore è una delle prime persone che ho contattato quando mi hanno affidato la rubrica di racconti, poche settimane fa. Ho letto il racconto che mi ha mandato, mi è piaciuto e gli ho chiesto di vederci per parlarne e decidere insieme come lavorarci. Lo faccio perché penso sia utile vedersi di persona e ci tengo, ma anche perché a un certo punto qualcuno mi ha detto “il lavoro dell’editor è pagare le birrette agli autori” e io, con tutto che mi sento pronto e preparato (forse più di quanto non dovrei sentirmi), sono un po’ spaventato, non ho idea di cosa dovrei fare ma so che qualsiasi cosa sia voglio farla bene. Allora lo vedo per pranzo e parliamo per un paio d’ore. Parliamo del suo testo, di cosa funziona e cosa no, ipotizziamo un cambiamento nella struttura e piano piano ci avviciniamo sempre di più al cuore del racconto e a un certo punto mi trovo a improvvisare un discorso in cui forse svelo di me più di quello che troverei professionale svelare, e in qualche modo si crea una specie legame fra me e lui, come se entrambi avessimo capito dell’altro più cose di quelle che ci aspettavamo di capire, e su questa intesa fondiamo il lavoro sul testo in editing nel mese successivo. È divertente, e quando il suo racconto esce, a luglio, siamo entrambi contenti].

Oggi, quando mi approccio per la prima volta a un autore con cui dovrò lavorare, soprattutto quando si tratta di un romanzo o una raccolta e non di un singolo racconto breve, di solito faccio una lunga premessa, a volte per mail ma preferisco a voce, dal vivo o al telefono, in cui provo a spiegare il mio lavoro. In questa premessa parto dal fatto che l’editing oggi viene interpretato in molti modi diversi, e non conoscendo le esperienze passate dell’autore (o dell’autrice) preferisco chiarire fin da subito come lo intendo io. Gli dico che l’editing non è una correzione, che il senso del lavoro che faremo insieme non è trovare dei compromessi e rendere meno suo il suo testo ma che, al contrario, l’obiettivo sarà rendere il testo ancora più suo (dell’autore) di quanto non lo fosse prima. E questa cosa avverrà perché gli farò molte domande, proverò a fargli vedere altre possibilità del testo e gli chiederò di compiere delle scelte nella speranza di avvicinarci a una versione che sia il più possibile aderente alla massima espressione della soggettività dell’autore. Perché se a un’alternativa non ci hai pensato allora quello che hai scritto è solo la prima (o magari solo la decima, o giù di lì) cosa che ti è venuta in mente, mentre più varianti prendi in considerazione (e scarti) e più quello che fai rispecchierà il tuo gusto, la tua voce. Gli dico che questo comporterà anche momenti controintuitivi: magari vorrà conservare una certa frase detta in un certo modo perché ci tiene a far arrivare una sensazione precisa al lettore, e a quel punto potrei fargli notare che quella sensazione al momento non arriva, e che forse arriverebbe se quella frase venisse riscritta in un modo diverso. Gli dico che per fare tutto questo sarà importante comunicare bene e onestamente, e che se tiene molto a una parte del suo testo dovrà essere lui bravo a capire perché ci tiene, a capire qual è l’elemento non sacrificabile di quella parte di testo, e poi dovrà dirmelo, dirmi qual è la parola o l’idea o la frase che assolutamente va conservata, così potremo lavorarci intorno, senza toccarla, così potrò aiutarlo a trovare un modo per mantenere quell’elemento anche cambiando quello che lo circonda – sempre se sarà necessario cambiarlo. Gli dico che gli lascerò l’ultima parola su tutto, ma che insisterò per essere sicuro che lui (o lei: non starò tutto l’articolo a precisarlo) abbia provato effettivamente a vedere la proposta che gli è stata fatta, a immaginare le altre possibilità del suo testo. Gli dico che lavorandoci imparerò a conoscerlo meglio e calibrerò il mio modo di comunicare sulla sua personalità. Gli dico che ci sono autori che si arroccano sulle loro scelte, che difendono a spada tratta anche la minima porzione del loro testo, e che a volte lo fanno senza mettersi veramente in dubbio – che poi è l’unica cosa che chiedo: il beneficio del dubbio. Gli dico che con questi autori tendo a insistere un po’ di più, ad argomentare un po’ di più, per assicurarmi che abbiano seriamente preso in considerazione la modifica proposta. E se poi non gli piace va bene, la scartiamo, l’importante è che ci abbiano pensato. Gli dico che ci sono altri autori, invece, che sono più disponibili, forse più docili, e che spesso tendono a esserlo troppo, e lì il rischio è ancora peggiore: c’è la possibilità che autori del genere si affidino eccessivamente al parere dell’editor e che finiscano per assecondare modifiche di cui non sono davvero convinti, che non sentono loro. Gli dico che in questi casi cerco di ammorbidire la comunicazione, cerco il più possibile di assicurarmi che l’autore stia riuscendo a far emergere la propria soggettività. Gli dico che qualsiasi tipo di autore lui sia, per me sarà fondamentale non intaccare la sua voce.

[Di nuovo 2019: ho editato e pubblicato qualche racconto, inizio a sentirmi più sicuro di quello che faccio. Sto lavorando al racconto di un’autrice brava, particolarmente consapevole dal punto di vista stilistico. È un racconto con varie sbavature, tutte volute, alcune mi sembrano più riuscite di altre; le rivedo un po’. Quando mi rimanda il testo, i commenti in cui rifiuta le mie proposte mi sembrano piccati, quasi aggressivi. Mi infastidisco, spengo il computer. Dopo un po’ rileggo il racconto e ci penso. Ha ragione lei: le modifiche che ho proposto sono quelle che avrei fatto su un testo mio, ma la sua voce è diversa e la maggior parte delle mie proposte la normalizzano più che migliorarla. Mi convinceva già prima, ma è solo in quel momento che capisco davvero il racconto. Rendermi conto che so rendermi conto di avere torto è una bella sensazione].

Questo è quello che io dico agli autori quando inizio a lavorarci, ma come ho scritto prima esistono molti modi di interpretare l’editing. Volendone dare una definizione più ampia, diciamo quella che userei con mia zia, potremmo dire che l’editing è un processo di cura del testo dal punto di vista creativo e stilistico. È una sorta di primo riscontro del testo con un lettore diverso da chi l’ha scritto, solo che il lettore in questo caso è un lettore per professione, un tizio il cui lavoro è leggere cose e dire agli autori quello che ne pensa. Non fa lo stesso lavoro di un critico perché il critico si rivolge ad altri lettori; non fa lo stesso lavoro di un redattore perché questioni come errori ortografici o di impaginazione non sono la priorità dell’editing. L’editor si occupa di questioni stilistiche e strutturali, nel caso della narrativa l’editor ragiona anche sulla trama; in generale l’editor è qualcuno che analizza quello che ha scritto un autore per dargli dei problemi da risolvere (e non delle soluzioni) su qualsiasi aspetto artistico, creativo del testo. Un editor potrebbe suggerire di tagliare o aggiungere un aggettivo, una scena o anche un personaggio. Se il rapporto con l’autore è abbastanza solido, un editor potrebbe anche suggerire all’autore di lasciar perdere tutto il libro che sta scrivendo e di scriverne un altro, perché magari l’editor ha il sospetto che in quel momento l’autore abbia la testa da un’altra parte, abbia voglia di scrivere qualcos’altro, e l’autore potrebbe aver bisogno che qualcuno glielo faccia notare, per rendersene conto. 

Mi sarà capitato di ascoltare e pronunciare io stesso decine di metafore per provare a spiegare l’editing, e al momento le mie preferite, tutte limitate e sotto alcuni aspetti imprecise, rivedibili, ma tutte utili a esplicitare uno degli aspetti principali di questo lavoro, sono quelle che paragonano l’editor a uno specchio, a un allenatore o a uno psicologo. Lo specchio è la più facile: rileggersi non è come essere letti da qualcun altro, e avere un riscontro è l’unico modo per mettere alla prova il proprio testo, per vederlo da fuori, come apparirà al pubblico, per la prima volta. Allenatore perché lo scopo dell’editing è tirare fuori il meglio da un autore, ma non fare il lavoro al posto suo. Un allenatore è qualcuno che osserva i tuoi movimenti, che ti motiva, che ti suggerisce modi in cui puoi migliorare; ma soprattutto non c’è un rapporto gerarchico, o almeno non necessariamente: tutti hanno bisogno di un allenatore, anche chi fa l’allenatore, e lo stesso vale per l’editing. 

Uno psicologo perché l’editing è un lavoro maieutico. Il mondo è pieno di libri poco ispirati, e non importa quanto un autore sia bravo o abbia controllo della lingua: se non gli andava veramente di raccontarti quello che stai leggendo te ne accorgi, perché manca qualcosa. E a volte uno ce l’avrebbe pure la buona volontà di raccontarti qualcosa di sentito, ma non è sempre facile rendersi conto di cos’è che vogliamo raccontare – anzi, la maggior parte delle volte è faticoso e complicato. Anche questo è un aspetto in cui l’editor può essere utile: aiutare l’autore a capire cos’è che vuole davvero raccontare. Che poi, almeno per come la vedo io, almeno in questo momento, aiutare qualcuno a capire cosa vuole raccontare non significa fare in modo che l’autore abbia capito del tutto cosa vuole raccontare, dargli pieno controllo e lucidità sulla cosa, che sarebbe nocivo, ma solo indirizzarlo dalla parte giusta.

[Febbraio 2023: l’autore che ha appena esordito è a casa mia (che non è casa mia) e sta sul mio divano (che non è il mio divano). Stiamo parlando di scrittura. Nello specifico, stiamo parlando di un racconto che ho scritto e sul senso del quale continuo a farmi delle domande, e lui che mi conosce perché abbiamo lavorato insieme al suo romanzo per quasi un anno mi dice che non devo farmele, che semmai devo farmi domande diverse, che ci sto andando a sbattere la testa come un editor ma che invece stavolta non devo capire proprio tutto, avere pieno controllo della storia, perché secondo lui le cose che funzionano sono quelle che scrivi perché c’è qualcosa che non riesci a spiegarti, qualcosa che insegui e che puoi quasi afferrare ma che non riesci a capire del tutto, perché se fossi stato in grado di spiegartela non ne avresti scritto. E io non l’avevo mai vista proprio così, ma so che mi sono avvicinato all’editing con delle idee romantiche sulla letteratura, idee che poi ho abbandonato assorbendo principi stilistici e formalismi, e una volta metabolizzati principi e formalismi sono tornato con un’altra consapevolezza (probabilmente illusoria anche questa) alle idee romantiche sulla letteratura, e adesso penso che il problema più diffuso nella letteratura contemporanea sia la mancanza di autenticità, e quella che mi ha appena dato l’autore seduto sul mio divano che non è il mio divano mi arriva come la miglior definizione di autenticità in letteratura che io possa formulare].

© Amirah Suboh

A volte, lavorando su un testo, ti capita di vedere una sorta di spia, una scena o anche solo una frase che rimanda a qualcos’altro, che ti fa vedere che a un certo punto c’è stato un bivio, e che l’autore ha provato a rimanere nei binari che si era predisposto, ma alla fine quel bivio l’ha creato lui, e se l’ha creato un motivo ci sarà. Allora glielo chiedi, gli dici “Senti, ma qui hai scritto questa cosa, perché l’hai scritta?”. E magari ne parlate per un bel po’ e questa cosa, questa cosa che lui si è reso conto che gli andava di dire, lo manda un po’ in crisi, e per un attimo sembra che hai fatto una cazzata a fargliela notare, perché adesso lui non può non rendersi conto che stava raccontando la cosa sbagliata e dovrà ripensare il testo a partire dalle sue premesse. È un momento tosto, soprattutto per l’autore, che è spaesato, gli manca la terra sotto i piedi, e tu stesso da editor ti senti in colpa, perché lo vedi abbattuto, tutto decostruito, e vorresti rimettergli i pezzi insieme e tranquillizzarlo, ma ormai lui non è tranquillo, e allora sta lì e ci pensa, e ci pensa ancora, e tu provi ad aiutarlo, gli fai delle domande, magari fai anche delle supposizioni, provi a indovinare al posto suo cos’è quello che voleva raccontare davvero, e queste supposizioni sono sempre, sempre sbagliate, ma di solito a quel punto lui ti dice “No, non è questo che intendevo” e nel darti torto riesce finalmente a formulare quello che voleva dire, e da lì in poi è tutto in discesa. L’autore è contento e più allineato col testo, scrive meglio e più velocemente, tutto si accorda splendidamente con la nuova visione del testo perché alla fine l’intenzione più implicita, sottocutanea, carsica dell’opera è sempre stata quella, fin dall’inizio. E tu editor sei contento perché l’autore è contento e il testo è migliore, più allineato con i sentimenti dell’autore, e ti sembra di aver fatto un miracolo, anche se in realtà non hai fatto niente se non aver detto “Oh guarda che forse qui volevi raccontare un’altra cosa” per poi buttare là una o due idee sbagliate.

Quanto detto finora è più o meno lo scenario ideale. Ovviamente non va sempre così. A volte una casa editrice (o a volte sei tu stesso a farlo) sceglie di pubblicare delle opere non per come sono già, ma per le loro potenzialità. Magari la storia è forte e convince ma la lingua è imprecisa e andrebbe sistemata; magari l’autore è stilisticamente interessante ma nella trama manca qualcosa (o c’è qualcosa di troppo). Più probabilmente c’è un singolo elemento che andrebbe ritoccato, o qualcosa del genere. In questi casi, che tu sia stato ingaggiato come freelance o che tu lavori direttamente per la casa editrice, sai che hai un compito preciso, sai che il testo su cui devi lavorare ha un particolare problema che va risolto. E questo per forza di cose crea non necessariamente un rapporto gerarchico, ma un senso di ineluttabilità: qualsiasi cosa succeda, quel problema va risolto. È una situazione che puoi gestire in modi diversi. Per esempio puoi fare quella che personalmente considererei una mossa da testa di cazzo, cioè puntare il piede e dire “adesso si fa come dico io”; oppure puoi dire all’autore “questo problema dobbiamo risolverlo, ma cerchiamo di risolverlo a modo tuo, con la tua voce”. La seconda opzione è più difficile, perché se nel primo caso puoi direttamente risolvere un problema, nel secondo devi spiegare il problema a qualcun altro e aiutarlo a sviluppare il suo modo di risolverlo. Però è l’opzione migliore, e non per qualche stronzata retorica sull’importanza di andare tutti d’accordo ma perché ogni opera è l’espressione della soggettività di qualcuno, e non è che puoi metterci un pezzo che non viene dall’autore come se niente fosse, perché l’organismo dell’opera rifiuterà quell’innesto, perché finirai per renderla più fredda, meno coesa. Mentirei se dicessi che non penso che a volte la visione che un editor ha per un’opera sia migliore, più efficace o anche più bella di quella dell’autore, ma resto convinto del fatto che deontologicamente l’editor non dovrebbe sentirsi in diritto di stravolgere un’opera contro il volere dell’autore. Piuttosto, meglio non pubblicarlo.

[Due aneddoti sul valore del non pubblicare. Novembre 2022: c’è un autore di cui, nel corso degli ultimi due anni, avrò scartato una mezza dozzina di racconti per Altri Animali. La prima volta che gliene ho rifiutato uno, però, gli ho scritto che mi aveva quasi convinto, ma che non ero abbastanza convinto da pubblicarlo. E insomma, che me ne mandasse altri. La seconda volta gli ripeto la stessa cosa, forse anche la terza, e sempre con ritardi enormi. Lui insiste e continua a mandarmene altri. A novembre leggo gli ultimi due che mi ha proposto: lui mi sembra migliorato, i racconti mi convincono e usciranno entrambi nel 2023. Tardo 2017 o prima metà del 2018, non ricordo: sto lavorando nella redazione di una casa editrice e volendo fare l’editor mi ritaglio un’ora tutte le mattine in ufficio per valutare i manoscritti che arrivano in casa editrice (in due anni di ufficio manoscritti, non ne troverò uno davvero buono). La maggior parte della roba che arriva è completamente fuori linea editoriale; sono autori che mandano il loro testo a qualsiasi casa editrice senza neanche provare a capirla, la linea editoriale. Un giorno trovo un romanzo che c’entra con quello che facciamo: già dalla mail si capisce che il ragazzo che l’ha scritto conosce la casa editrice, ha letto qualche nostro libro e non sembra il solito pazzo. Leggo il suo romanzo; è buono, ma non abbastanza. Gli rispondo con una mail lunga, gli dico che l’ho letto e che secondo me se continua a lavorarci diventerà un bravo scrittore e che se in futuro gli andrà di mandarci un altro romanzo lo leggerò volentieri. Inizia un breve scambio di mail. Più o meno un anno e mezzo dopo, quando sarò in cerca di racconti per Altri animali, gli scriverò e lui mi manderà il suo racconto e ne parleremo in un bar di Prati e questa parte della storia l’ho già raccontata – nel 2023 l’autore esordirà con il suo primo romanzo, e con quello io non c’entro nulla ma mi piace pensare che sapevo che sarebbe successo].

Parlando di quanto un editor dovrebbe sentirsi o non sentirsi in diritto di stravolgere l’opera di un autore arriviamo al caso più famoso nella storia dell’editing, che se poi è così famoso è proprio perché è un’eccezione, perché non rappresenta quella che dovrebbe essere la normalità dell’editing. Ovviamente sto parlando degli interventi di Gordon Lish sui racconti di Carver, e se non sapete di cosa sto parlando vi basta cercare su Google “Lish Carver” e aprire una pagina qualsiasi. Ora, a me non interessa farvi leggere quella storia per l’ennesima volta, così come non mi interessa fare il solito discorso per cui sì, Lish è stato un po’ stronzo (vero) ma effettivamente le versioni dei racconti di Carver editate da Lish sono molto più belle delle versioni non editate (altrettanto vero). Quello di cui mi interessa parlare è il modo in cui questo caso così famoso ha plasmato l’idea di editor nel nostro inconscio collettivo. E questa cosa è sbagliatissima, perché per quanto Lish fosse bravo, un editor non dovrebbe portare un autore a non riconoscersi più nei suoi testi, e infatti la maggior parte delle volte non è questo che fa un editor. Eppure il caso Lish/Carver è la prima cosa (e spesso anche l’unica) che viene citata quando si parla di editing. Sarebbe un po’ come usare Norman Bates per spiegare come si gestisce un motel: non solo dai un’idea sbagliata del lavoro in sé, ma fornisci anche un esempio negativo. E infatti l’esempio di Lish ha creato e continua a creare mostri, in più di un senso. Se da un lato esistono giovani (e non solo) editor che quotidianamente esercitano la professione pensando che il loro ruolo sia quello di imporre la propria visione sui testi di qualcun altro, dall’altro ci sono ancora più scrittori che guardano all’editing terrorizzati come cani davanti a un’aspirapolvere (da qui la mia necessità di fare lunghe premesse prima di iniziare a editare un autore nuovo). Insomma, quando l’esempio più celebre della tua professione è qualcuno che l’ha interpretata in un modo deontologicamente scorretto, escono fuori problemi del genere. Cosa possiamo fare per salvare il nome dell’editing? Non serve guardare tanto in là, basta arrivare al secondo editor più citato del Novecento.

Nei suoi anni alla Charles Scribner’s Sons, Maxwell Perkins ha scoperto e editato, oltre a tanti altri, F. Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway e Thomas Wolfe. Perkins credeva profondamente nel fatto che un editor potesse «tirare fuori da un autore solo quello che l’autore ha già in sé»1. Perkins parlava agli scrittori nella loro lingua, gli dava dei suggerimenti che potessero suscitare reazioni creative, a volte gli proponeva idee per interi libri. Aveva l’abitudine di inviare libri agli autori con cui lavorava, per stimolarli e aiutarli. Per molti versi, Perkins è la persona che ha trasformato l’editing nel processo che conosciamo oggi, e in un certo senso l’inizio della trasformazione è stato con una lettera di rifiuto.

Quando il romanzo dell’aspirante esordiente Fitzgerald The Romantic Egotist venne rifiutato, Perkins, che ne aveva riconosciuto il talento, invitò l’autore a riscrivere il suo romanzo portandolo dalla prima alla terza persona e lo incoraggiò a riproporre la nuova stesura. È merito dell’insistenza di Perkins alle riunioni della Scribner’s, se poi quel romanzo è stato pubblicato ed è ora noto a tutti con il titolo Al di qua del paradiso. Perkins teneva rapporti stretti con i suoi autori e aveva una profonda influenza su di loro, ma è sempre stato attento a non abusare di questa influenza, a non intaccare la voce degli scrittori con cui lavorava. In una splendida lettera a Fitzgerald, durante la lavorazione di Belli e dannati, Perkins scrisse all’amico: «Non accondiscenda mai al mio giudizio. Non lo farà su nessun punto vitale, io lo so, e dovrei vergognarmi se fosse possibile che io l’abbia costretta, perché uno scrittore deve sempre parlare unicamente per sé». Questo è un editor.

Ora chiariamo una cosa: non è che Lish fosse il contrario di Perkins. La storia è piena di scrittori grati a Lish per il lavoro che ha fatto. È solo che Lish viene citato sempre per il modo in cui lui e Carver si sono allontanati; per usare una celebre citazione di Don DeLillo, Lish è diventato “famoso per tutte le ragioni sbagliate”, e forse dovremmo iniziare a parlare di qualcos’altro quando proviamo a spiegare cos’è l’editing. 

Oggi c’è chi vede l’editing come un processo impuro, industriale, che trasforma i libri in prodotti e gli impedisce di essere opere d’arte (se poi molti libri danno l’impressione di essere prodotti più che opere d’arte è perché lo sono; lo sono da quando esiste l’industria editoriale e non me la sentirei di colpevolizzare l’editing per questo). Ho detto che Perkins è stato il primo editor a interpretare il suo lavoro nel modo in cui lo interpretiamo oggi, ma credo che sarebbe sbagliato dire che Perkins abbia inventato il processo, il modo di influenzare l’opera di un autore. Da che ne abbiamo memoria, davvero dall’alba dell’alba dei tempi, che io sappia nessuno è mai riuscito a scrivere qualcosa di bello senza essersi confrontato con altri scrittori. Non solo con scrittori morti, cioè con i libri di chi era venuto prima di lui, ma anche con i contemporanei, magari più anziani o magari no, con qualcuno che ascoltasse le sue storie e gli dicesse cosa ne pensava. Aprendo qualsiasi manuale di storia della critica letteraria avremo a che fare con epistolari di autori che si scambiano idee e consigli sulla scrittura. Cos’è un’accademia, da Platone all’Arcadia, se non un’occasione per far scontrare soggettività? Cos’è qualsiasi corrente, movimento o avanguardia letteraria se non un gruppo di persone che cresce attraverso il confronto? La storia della letteratura è piena di episodi di editing, solo che ancora non si chiamava così. Da Emerson, Thoreau e il circolo dei trascendentalisti a Verlaine, Mallarmé e i poeti maledetti; dal carteggio fra Goethe e Schiller a quello fra Melville e Hawthorne; dall’epistolario di Henry James con Stevenson o Wharton alle lettere fra Woolf e praticamente chiunque, per non citare il famosissimo soggiorno a Villa Diodati di Byron, Polidori e dei coniugi Shelley. Potremmo andare avanti per pagine e pagine ma credo che il concetto sia chiaro: l’editor non è altro che un’evoluzione del ruolo che gli amici scrittori hanno sempre avuto nella vita di ogni scrittore. Certo, ne è una versione professionalizzata, aziendalizzata, ma non per questo meno pura. Non riesco a guardare all’editing e a vederlo come la perversione di un rapporto che dovrebbe esistere solo al di fuori di una casa editrice; piuttosto, guardo all’inclusione dell’editing tra i passaggi fondamentali nella pubblicazione di un libro come a un modo per dire che il confronto con una persona amica (e magari vagamente capace) non può essere evitato, è fondamentale. E sarò ingenuo e anche un po’ cringe, ma non riesco a non vederla come una cosa bella. 

Non riesco a vedere l’editor come un disciplinatore o un correttore, qualcuno con cui devi mediare per riuscire a pubblicare il tuo libro. Per me l’editing significa prima di qualsiasi altra cosa aiutare qualcuno a esprimersi, aiutarlo a scoprire la propria voce. Significa confrontarsi con qualcuno su quali sono le sue ambizioni letterarie e provare a trovare insieme una via, una vetta da scalare per fargliele raggiungere. Aiutarlo a faticare nella direzione che gli appartiene di più. Significa che quando finalmente esce il libro dell’autore con cui hai lavorato, che tu abbia lavorato proprio a quel libro oppure no, anche se hai solo già lavorato con quell’autore su qualcos’altro, tu stai lì a fare il tifo come un papà al saggio di fine anno; e quando poi lo leggi stampato, se ci hai lavorato, la maggior parte delle volte finisce che chiami l’autore e gli dici “lo sapevo anche prima, ma a vederlo su carta mi accorgo che hai scritto davvero un bel libro”. Chiaro, c’è anche tutto un discorso di successo e soddisfazione personale, ma il vero senso di fierezza e orgoglio ce l’hai perché sei contento per la persona che hai editato, perché quando passi ore e ore e ore al telefono (o dal vivo) a parlare con qualcuno del suo romanzo, cioè di una delle cose più intime che lo possa riguardare, e quando a quel romanzo entrambi avete dedicato ancora più ore e fatica nel lavorarci, magari suona paraculo dire che diventate amici, ma qualcosa succede.

1 Tutte le citazioni riguardanti Max Perkins in questo paragrafo vengono dalla biografia di Andrew Scott Berg (Genius. Max Perkins. L’editor dei geni, di Andrew Scott Berg, traduzione di Monica Capuani, elliot).

© Amirah Suboh

[E infatti in una versione precedente ho proprio scritto così, ho scritto che quella persona diventa un tuo amico. E Livia, la mia editor per questo articolo, mi ha scritto: «Sei davvero convinto di questa cosa? Forse in questo paragrafo conclusivo hai avuto fretta, e ne è uscita una riflessione eccessivamente buonista e un po’ paraculo». E ancora una volta ha ragione, perché in parte lo sono, sia buonista che paraculo. Buonista perché l’editing mi appassiona, lavorare in due a una storia è la mia dimensione, lo faccio da quando sono piccolo, con mio padre i miei cugini i miei amici e i miei autori. E ci si può litigare ma è bello e rilassato quando sai che quella storia appartiene a uno solo dei due, che è lui lo scrittore e che l’ultima parola è sua, perché a quel punto non si tratta di una mediazione ma “solo” di dare una mano a qualcuno. E paraculo perché l’editor è anche un lavoro da paraculo. Perché hai a che fare con qualcosa di fragile e prezioso e non è che puoi trattarlo senza guanti; perché ognuno ha il suo modo di reagire alle critiche e tu devi capire come farle al tuo autore; perché comunicare è una cosa che si fa in due ma la riuscita di questo dialogo è una responsabilità tua prima che di chiunque altro. Perché a volte una soluzione ce l’avresti sotto gli occhi ma devi forzarti a non vederla, perché il tuo lavoro è trovare problemi e lasciare che sia l’altra persona a trovare la propria via per risolverli. E tutto questo è un po’ paraculo, ma alla fine credo di poter dire che un editor è un paraculo dalle buone intenzioni, uno che ti guarda mentre dice una cazzata e ti sorride e quello che dice è falso ma il sorriso no, perché c’è una differenza fra dirti una cazzata e fregarti. Forse a volte editare un autore è un po’ come insegnare a qualcuno ad andare in bici senza rotelle, e c’è quel momento in cui devi dirgli che lo stai tenendo ma non è vero – e non è che lo fai per farlo cadere. Lo fai perché le persone puoi aiutarle fino a un certo punto ma aiutarle davvero non è fare le cose al posto loro né imporgli il tuo modo di farle. Aiuti davvero un autore quando gli permetti di trovare il suo modo di diventare sé stesso. E allora l’editing è fare lunghe e stancanti ma splendide conversazioni in cui provi a scavare dentro l’altra persona, anzi la aiuti a scavarsi dentro da sola, le chiedi cosa vuole raccontare e perché vuole raccontarlo in quel modo, e glielo chiedi al bar, in un pub, per strada, per strada ma con le buste della spesa in mano, in macchina, soprattutto in macchina, o anche seduti sul letto, o magari l’altra persona è seduta su un letto e tu sei in piedi perché sei sempre stato peripatetico; allora l’editing è bere sei birre a stomaco vuoto con gente che regge molto meglio di te (le cose più preziose per salvaguardare il corpo di un editor sono occhiali anti luci blu e antiacidi), ma anche berne solo un paio in un tapas bar nella città più brutta d’Italia; l’editing è andare a trovare una persona che si è appena operata a una gamba e rompergli il cazzo sul suo nuovo romanzo mentre fa fisioterapia; l’editing è consigliare e consigliarsi libri che sapete entrambi che vi piaceranno perché avete capito cosa vuole l’altro dalla letteratura, più o meno; l’editing è scrivere a un autore che hai visto solo una volta in vita tua, tre anni fa, perché sei nella sua città e anche se insieme avete fatto un solo racconto ancora senti che esiste un legame; l’editing è l’amico di cui hai curato il racconto per un’antologia che firmando la tua copia scrive “Questo è solo l’inizio”. E insomma Livia io non so se ti piace questo finale ma so che se esiste una teoria dell’editing io non la conosco, e ho provato a raccontarne la pratica, che forse è una cosa ingenua e imbarazzante da fare, ma ingenuità e imbarazzo sono le uniche cose che penso di aver davvero capito dell’editing].

Editing di Livia Del Gaudio

Leonardo Ducros è un editor nato a Roma nel 1992. Dal 2019 è editor, insieme a Giulia Priore, dei racconti pubblicati sulla rivista Altri Animali. Ha lavorato per due anni come redattore e ufficio manoscritti per 66thand2nd, dove ha affiancato la direttrice editoriale Isabella Ferretti nel ruolo di ufficio diritti, e poi per altri due anni per Edizioni di Atlantide, dove ha provato a fare il social media manager e il compagno di birre finché Simone Caltabellota non gli ha detto «Tu devi fare l’editor», e da allora lavora come editor freelance per agenzie letterarie e case editrici, fra cui Edizioni di Atlantide e Moscabianca Edizioni.

La ricerca artistica di Amirah Suboh riprende la tecnica del collage sul quale lavora con più passaggi di colori, tinte acriliche e altri segni che spaziano dall’uso della matita a quello dei pennarelli. L’artista azzarda passaggi e vedute nella radice caotica dell’esistenza, estraendo dal magma dionisiaco quell’istante non diversamente narrabile. Osservando le tele si ha la sensazione di partecipare al processo creativo stesso, avvinto dal flusso di energie, ossessioni, ripetizioni che allontanano l’opera dalla forma compiuta; come se l’energia della visione primaria non venisse mai indebolita nella fase di modellatura. Lo sguardo non può connettersi alla materia per stasi e viene attratto a rischio di schiantarsi nel territorio di ricordi, di percepiti corporei, così come di amnesie. L’opera vuole febbrilmente smembrarsi e rinascere negli occhi di chi la osserva, eseguendo come un esercizio spirituale che ribalta le letture comuni dei soggetti raffigurati, invertendo così lo stesso punto di vista. Nel continuum della potenza creatrice di Suboh, le influenze artistiche si presentano come forze remote di un fuoco mai spento: dal pittore belga James Ensor a Chagall, passando alla pittrice pop statunitense Evelyn Axell. Il segno fa qui da impulso a una visione che avvicina pericolosamente all’ignoto per carni manomesse, messinscene che da comiche mutano in drammatiche, allusioni a giochi pornografici che dialogano con l’esperienza violenta del perduto dell’infanzia, per la quale non resta che rievocare le sue misteriose e incontenibili trasfigurazioni.

Maria Teresa Rovitto

Amirah Suboh nasce a Cagliari nel 1995. Figlia di madre sarda e padre palestinese. Dopo gli studi ginnasiali si accosta al percorso artistico iscrivendosi all’indirizzo di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove conseguirà la laurea triennale, prosegue e lavora tuttora tra Cagliari e Sassari, ove frequenta il biennio di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari.

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