di Livia Del Gaudio

© Amirah Suboh
«Lo scrittore [l’editor] è come un idealista che risposa sempre la stessa donna.»
Grace Paley
Ne Il fuoco e il racconto di Giorgio Agamben leggo questo passaggio:
«“Precario” significa ciò che si ottiene attraverso una preghiera […] ed è, per questo, fragile e avventuroso. E avventurosa e precaria è la letteratura, se vuole mantenersi nel giusto rapporto col mistero. […] Vi è, tuttavia, un filo, una sorta di sonda lanciata verso il mistero, che permette di misurare ogni volta la distanza dal fuoco. Questa sonda è la lingua ed è sulla lingua che gli intervalli e le rotture che separano il racconto dal fuoco si segnano implacabili come ferite.»1
Mi fermo a rileggere. Sottolineo il paragrafo, lo copio tra le note del telefono. È una cosa che faccio spesso, ho sempre avuto difficoltà a concentrarmi; leggere e scrivere mi richiedono uno sforzo che sospetto stia alla base del mio desiderio di parole: un desiderio che si nutre di frustrazione come di un combustibile. Trascrivere è uno dei modi che ho trovato per fermare una lingua che dentro di me viaggia troppo veloce. In questi giorni ho ripreso a fare editing. Era da tempo che non lo facevo: a un certo punto occuparmi delle parole degli altri mi era diventato impossibile.
L’occasione me l’ha data Leonardo (Ducros). Incrociandoci alle fiere, scambiandoci commenti sul lavoro che portiamo avanti con le riviste, abbiamo spesso parlato della voglia di comunicare all’esterno quello che avviene dietro le quinte della scrittura. Quando ci sentiamo al telefono per sviluppare l’idea che ha avuto per un articolo facciamo un patto: «Se tu scrivi di editing per In allarmata radura, io scriverò dell’editing che farò sul tuo testo».
Passano i mesi – Leonardo mi aveva avvertito che scrive lentamente – e a metà febbraio arriva la prima stesura. La leggo, mi piace, gli rimando il testo con alcuni commenti.
In questi giorni Leonardo si muove tra l’Italia e l’America. L’immagine di lui che cammina per una città che non conosco e risponde ai messaggi guardando sorgere il sole, mentre io preparo il pranzo, condensa l’idea che ho maturato della scrittura – e dei rapporti umani – negli ultimi anni: uno spazio ampio, fatto di distanze, fusi orari da considerare, risposte sbagliate a domande non poste.
Nell’articolo che sta scrivendo, Leonardo ritorna spesso all’idea di “errore”. Soprattutto nel caso di un romanzo, la scrittura è un processo lento dal destino incerto, in cui il testo è più simile a uno spazio, a un campo di relazione che coinvolge autore, lettore e personaggi, che non a un prodotto materiale: l’errore è il risultato statisticamente più probabile. In una conferenza tenuta al Barnard College, New York, a metà degli anni Sessanta, Grace Paley descrive il senso di questo lavoro:
«Vedete, mi sembrava che il mondo intero stesse bisbigliando nella stanza accanto. Allo scopo di raggiungere il cuore della faccenda usavo tutte quelle tracce sibilanti»2.
“Tracce sibilanti” è la seconda cosa che appunto tra le note del telefono, nella cartella che ho nominata Ducros: mi sembra che inseguire sussurri, suggerire piste sbagliate, perdersi per poi arrivare dove si era immaginato, sia l’unica cosa che si può chiedere alla scrittura.
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È marzo; Leonardo non ha ancora risposto ai commenti. Provo a fargli un po’ di pressione. Mi assicura che per i primi di aprile riusciremo a pubblicare l’articolo.
L’anno è partito in salita: una serie di impegni non previsti mi hanno trasformata nel Bianconiglio di Alice; rincorro l’orologio, con le mie figlie che ridono nascondendomi il telefono per impedirmi di usarlo. Quattro o cinque anni fa un ritardo come questo mi avrebbe gettata nel panico. «Rendermi conto che so rendermi conto di avere torto è una bella sensazione», scrive Leonardo a proposito di una delle sue prime esperienze di editing.
Ripenso a quando il mio percorso è iniziato. Al tempo trascorso a leggere manoscritti e a compilare schede di lettura in casa editrice. So di aver provato anch’io la soddisfazione che descrive Leonardo, anche se oggi non riesco più a ragionare in questi termini. Ogni cosa, adesso, mi sembra frutto di un tiro di dadi.
Sempre ne Il fuoco e il racconto, Agamben dà una definizione di ciò che chiama “il prima del libro”, ovvero «tutto ciò che precede il libro e l’opera ultimata, quel limbo, quel pre- o sub-mondo di fantasmi, schizzi, appunti, quaderni, bozze, brogliacci ai quali la nostra cultura non riesce a dare uno statuto legittimo»3.
Non sono una editor, non è mia ambizione diventarlo e la mia preparazione a riguardo è frammentaria: si basa più sull’accumulo di esperienze che non su una solida base teorica. Eppure anch’io nutro alcune convinzioni.
Una di queste è che il compito di un editor sia quello di mantenere vivo il legame tra “il prima del libro” e l’opera compiuta. È nelle sbavature, negli inciampi e negli starnuti della lingua che il testo mantiene il contatto con il mistero. Accettare la presenza dell’errore, del caso, dell’imprevisto, non solo come parte del processo ma come ferita aperta all’interno del testo – un ponte tra il materiale magmatico che precede la parola e la parola stessa – è forse la cosa più difficile per un professionista del linguaggio, ma è l’unica che ha senso fare in un mondo che percepisce la creazione come qualcosa che «si compie istantaneamente, senza esitazioni né ripensamenti, per un atto gratuito e immediato di volontà»4.
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Leggo, preparo le lezioni, pianifico il calendario editoriale di In allarmata radura. Oggi, della scrittura, mi interessa «raggiungere questa zona impersonale di indifferenza, in cui ogni nome proprio, ogni diritto d’autore e ogni pretesa di originalità vengono meno»5, ma non è stato sempre così: ho attraversato la fase in cui alla scrittura affidavo la mia idea di salvezza.
Do un’occhiata alla chat aperta tra me e Leonardo in queste settimane. È piena di messaggi di incoraggiamento, di daje e cuoricini. Nel mio percorso di autrice non ho mai intrattenuto scambi simili. Vengo da un mondo che non vede l’empatia di buon occhio. Ho spesso confuso la rigidità con la forza: cercare il confronto con maestri “duri”, che mi mettessero in crisi ribaltando ogni convinzione sulla scrittura e su di me, ne è il naturale risultato. Non nego il valore di una strada che mi ha dato molto – dentro di me continua a battere il cuore freddo di un’educazione ai limiti del metodismo – ma il mio approccio è diverso.
Quando mi trovo di fronte a un testo cerco di non avere certezze. Penso a chi me lo ha affidato come a qualcuno da cui imparare. Lavoro con più entusiasmo su linguaggi che fatico a comprendere, che non mi sono familiari, che non ho mai pensato di sperimentare. A poco a poco le parole mi trasformano; gli spigoli vivi tagliati a forza dai miei maestri diventano le anse di un fiume. All’improvviso mi diventa chiaro il perché di un appunto registrato sul telefono come questo, rubato a Christa Wolf:
«Ho sperimentato una strada, che non potrò più percorrere una seconda volta. Ho scoperto che si deve tentare a ogni costo di liberarsi del cerchio di quello che sappiamo o pensiamo di sapere riguardo noi stessi, e andare al di là di esso.»6
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Quella che per Leonardo è la versione definitiva dell’articolo, arriva alla mail di In allarmata radura il 15 marzo. A parte rileggere e correggere i pochi refusi non c’è molto da fare.
Mi colpisce una frase che nella prima versione non c’era: «comunicare è una cosa che si fa in due ma la riuscita di questo dialogo è una responsabilità tua [in quanto editor] prima di chiunque altro». Leonardo l’ha inserita nel finale, chiusa tra parentesi quadre, come in risposta al mio commento di editing.
È raro sentire parlare di responsabilità all’interno della comunicazione.
Attribuendo la frase a Thomas Hora, Watzlawick scrive questo: «Per comprendere se stesso, l’uomo ha bisogno di essere capito dall’altro. Questa convincente affermazione presuppone che gli individui coinvolti siano capaci di comunicare tra loro, e implica inoltre che senza altre persone con le quali comunicare, un individuo si troverebbe solo e anche confuso»7.
Lavorare con le parole degli altri è un esercizio da funamboli. Se il testo è la corda, la cui tensione va sempre aggiustata e adeguata al carico, e l’autore è l’equilibrista, l’editor è l’aria che gli sta attorno; o meglio, l’editor è colui che si fa carico di registrare le correnti che muovono quell’aria. E l’unico modo di farlo è mantenendo pulita la comunicazione.
Ho sempre pensato alla mia capacità di comunicare come alla mia qualità più importante. La vedevo come qualcosa che scaturiva da me, e che da me si allargava all’esterno.
C’è voluto tempo per trasformare quest’immagine. Quando finalmente sono riuscita a percepire me stessa non più come un centro ma come una carta porosa attraversata dal linguaggio, il concetto di responsabilità nella comunicazione mi è stato chiaro: il mio compito non era quello di scegliere le parole ma di lasciarle fluire, prendendomi cura di mantenere pulito il setaccio. È stato allora che è arrivato lo stupore, insieme al senso di liberazione, perché non dovevo dimostrare a nessuno di essere la più intelligente.
«È proprio dove siete più ottusi» scrive Grace Paley, «che potete scrivere un romanzo, dipende dalla profondità e dalla larghezza della vostra ottusità.»8
E anch’io – come te, caro Leonardo – penso che per fare editing, come per scrivere, bisogna essere profondamente ottusi.
Continuare a non capire, a non capirsi; e solo per questo andare avanti: per commettere altri prevedibili errori.
1 Giorgio Agamben, “Il fuoco e il racconto”, nottetempo, Milano, 2014, p.13 2 Grace Paley, “L’importanza di non capire tutto”, Einaudi, Torino, 2007, p.174 3 Giorgio Agamben, “Il fuoco e il racconto”, nottetempo, Milano, 2014, p.13 4 Ivi, p.13 5 Ivi, p.40 6 Christa Wolf, “Parla, così ti vediamo. Saggi, discorsi, interviste”, E/O, Roma, 2015 7 Paul Watzlawick, “Guardarsi dentro rende ciechi”, Ponte alle Grazie, Milano, 2007 8 Ivi, p.173