di Stefania Micheli

© Federica Pamio
Gli altri attori della compagnia non mi guardano. Sono artisti, hanno i vestiti trasandati e le cartine per le sigarette in tasca. Io sono una ragazza bionda che indossa un maglione di cachemire. Una che fa teatro per divertimento, che ha troppi privilegi per nutrire passioni. Non parlo con nessuno, osservo i gruppetti che chiacchierano e non oso avvicinarmi. Vado verso il tavolo con il copione in mano. La copertina rossa con la plastica lucida di Amor nello specchio mi sta per sfuggire. Mi allungo e atterro sulla sedia stringendo al petto i fogli recuperati al volo. Cade qualcos’altro dal tavolo. L’aula sospira. Sento sbattere a terra il copione tre volte: è una collega che odora di tisana. Il rito dovrebbe salvare lei e tutto lo spettacolo da una sfortuna sicura. La guardano i pochi presenti, controllano che faccia tutto come si deve, e si tranquillizzano. Gli altri sono fuori a fumare, ignari del pericolo scampato. Capisco che lui sta arrivando perché gli attori, come formiche di fronte all’ingresso della tana, cercano la porta per rientrare.
Lui, il regista importante, si siede a capotavola, una mano giocherella con le monete in tasca, l’altra tiene un foglio che non legge. Ho paura di non capire quello che dirà. Tutti si dispongono intorno al tavolo. Siamo pronti, ma lui rimane concentrato sulle battute ancora per un paio di minuti.
Nel 1987 Luca Ronconi fece un saggio con gli allievi dell’Accademia d’arte drammatica mettendo in scena Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini. Un testo mai rappresentato prima. È la storia di Florinda, una donna che rifiuta gli uomini per amare solo sé stessa allo specchio. Guerindo, un soldato di campagna, e Lelio, un ricco e colto poeta, cercheranno inutilmente di sedurla. Dopo l’incontro casuale con Lidia, in lacrime perché tradita dal suo amante, Florinda cambierà la sua idea di amore. Una lingua difficile, poco attuale, che lasciò spiazzati gli allievi che gli avevano espresso la preferenza di lavorare su un testo e un linguaggio contemporanei.
Apro la copertina sulla pagina del titolo e dell’elenco dei personaggi. Oggi sapremo quali parti ha pensato per noi, per provarle e poi decidere. Mi preparo a segnare tutto, sono pronta a studiare. Ho la matita in mano e lo sguardo fisso sul foglio, quando comincia con voce bassa, senza colore, a chiamare ognuno di noi. Il tavolo di vetro lascia vedere i piedi degli attori e delle attrici. Mi distraggo a guardare i piedi che si strofinano. Scarpe consumate. La ragazza che sa di tisana tiene le punte in dentro e le sfrega una sull’altra; il regista li tiene paralleli, leggermente sollevati e ogni tanto li batte sul pavimento. C’è tensione sotto e sopra il tavolo.
Sposto gli occhi sulla pagina, le orecchie faticano a sentire e la gola gonfia non fa passare aria, finché il regista non dice il mio nome. Il corpo si assesta nella posizione di scrittura, testa bassa e occhi che guardano in su, verso di lui. Dice solo: Florinda. La protagonista dello spettacolo. E passa oltre. Sciolgo la posa. Il respiro e la vita tornano nelle dita serrate sulla matita. Non ho nemmeno il coraggio di vedere le reazioni degli altri. Vorrei fare domande ma non c’è spazio per i dubbi. Ha detto i personaggi con voce incerta. L’unico balbuziente che conosco che, invece di trasmettere fragilità, ti gela. Ci considera ignoranti, e forse ha ragione. Fatico a capire i suoi riferimenti, le descrizioni. Mi porta in un mondo che non conosco e che riesco solo a immaginare. Ascolto le battute che, dette da lui, sembrano credibili. Cerco di memorizzarle e riprodurle, di entrare nel suo mondo. Florinda.
Alle prove Ronconi descrisse il personaggio di Florinda come una giovane donna alla ricerca di un suo possibile amore. Il corso della vicenda, disse, sarà dettato dall’evoluzione del suo desiderio. Lo spettacolo dovrà essere il diagramma di un’infatuazione amorosa. La storia di una donna che passa sconciamente le sue giornate allo specchio e che odia il «sesso maledetto dell’uomo».
Questa analisi lasciò disorientati i ragazzi che credevano di aver letto un’altra commedia. Una commedia degli equivoci, di personaggi che si innamorano, fanno incantesimi e giochi di parole fino al lieto fine.
Capirono subito che un regista ha altri occhi, legge cose che loro non vedono.
Florinda ama sé stessa allo specchio. È furiosamente innamorata di sé e detesta gli uomini.
Non mi sono mai sentita bella e se mi guardo allo specchio è per criticarmi.
Alla prima prova ero sicura che lui non mi avrebbe notata.

© Federica Pamio
A casa mi preparo. In salotto cammino, ripeto le battute e cerco di farmi suonare in testa la voce del regista. Spero che mi sveli qualcosa. Florinda, che recita battute d’amore e vede le risposte arrivare da un essere che vive nello specchio, è ancora un mistero. Mi giro tra le mani uno specchietto e provo a capire come usarlo. Mi sdraio per terra, immagino di desiderarmi ferocemente.
Il giorno dopo alle prove indosso un abito lungo color crema, ho i capelli tirati in uno chignon. Esco dal fondo con la mia serva Bernetta, il sacco che porto in mano nasconde un grande specchio. Incontro uno spasimante aggressivo, Guerindo, che mi parla d’amore armato di spada. Lo devo respingere, per tornare a guardarmi allo specchio.
Entro e cammino veloce, su un palco immenso. Il regista mi ferma subito.
«Hai una spalla contratta.»
Ricomincio. Dico le prime battute. Mi ferma di nuovo.
«Cosa fai?»
I piedi battono e strisciano a terra. Sono una mitraglietta, una minaccia. Non alza la voce. Si schiarisce la gola, tossisce.
«Da capo.»
Il tema proposto dal regista era l’erotismo. Florinda è spinta da un impulso primario. Una donna sicura di sé, con un grande senso di superiorità, dato dalla certezza e dalla determinazione della sua scelta erotica. Non c’è nessuna aggressività nel suo eloquio, ma velenosità. Le parole che le escono dalla bocca non comunicano, allontanano. Guerindo è un soldato-contadino ignorante, un personaggio impetuoso e vitale con un linguaggio debole di fronte alla determinazione di Florinda. L’afasia che lo prende appena si avvicina alla casa dell’amata è la paura di un innamorato che sa di non essere all’altezza. Un incantesimo negativo.
Ci chiede di fare tutta la scena. Io sono distratta dal suono delle monete che lui ha in tasca e dallo stropiccìo dei piedi. Non riesco a pensare ad altro che a quel suono di disapprovazione. Intanto recito. Male. Mi basterebbe un’indicazione precisa per uscire dalla melma in cui mi sto dibattendo, un incoraggiamento. Ma lui non lavora così.
«Che problemi hai? Soprattutto che modelli hai?»
Sento partire da lontano l’inizio di una violenza che non voglio subire.
«Quando ti siedi sulla panca, lo fai perché hai una spada alla gola, non sei comoda. Non sei un’attrice anni Cinquanta prima della scena del bacio.»
In effetti ho preso una posa plastica, non riesco a scompormi.
«Guardalo! Allontana la spada, è più debole di te. Alzati! Liberati!»
Eseguo le azioni ma ho smesso di funzionare.
«Elena, il dovere di un’attrice è di avere mille idee su come realizzare una cosa. Tu non ne hai nessuna.»
Mi si infila dentro, come una crepa che si allarga, il pensiero del fallimento. Io voglio fare l’attrice. Non voglio sentire questo rumore di spicci. Credevo di essere pronta.
Intanto il regista parla. Adesso ce l’ha con me e con tutti quelli come me che escono dalle scuole di teatro, che non sanno cosa vogliono, non sanno scegliere e non sanno chi sono. Parla, e dentro ci sono tutte le sue pause e i suoi tic. È furioso quando mi dice senza alzare la voce: «Vai avanti!».
Riprendo.
«No! Non così, la posizione è sbagliata!»
L’assistente ai movimenti, nel silenzio che si è creato, si alza per venire da me e spostarmi. Una confusione di suoni e immagini mi blocca. Ho le gambe di legno, fanno male. Le braccia non si alzano, rimangono lungo i fianchi, inespressive. Non trovo la grazia che avevo sempre creduto di avere.
Mi metto di spalle, sento gli occhi che pungono e non voglio dargli questa soddisfazione.
L’assistente mi sussurra: «Coraggio».
Spezza la mia resistenza, le lacrime escono, un fiotto di rabbia e dolore.
Il monologo di Florinda rimasta sola è un vero rapimento estatico. Il tono però non deve essere appassionato ma assoluto. Sono affermazioni concrete. È una preghiera fatta a sé, alla sua immaginetta, un piccolo delirio. Le domande allo specchio sono delle visioni. Non è un amore ricambiato, è una fissazione. Un’ostinazione perversa.
Prendo fiato un paio di volte e prima di girarmi ho recuperato il controllo. Vedo tutti gli attori sugli spalti che mi fissano con occhi increduli, alcuni piangono.
«Ce l’hai un corpo? Lo sai cosa vuol dire essere una donna?»
Termino la scena e poi il monologo. La prova è finita. Raccolgo le mie cose in uno stato di incoscienza. Mi sento come se mi avessero picchiata. L’automa che mi muove commette un errore. Fa cadere il copione. Tutti si voltano. Lo raccolgo. Mi avvio verso il camerino. Niente potrebbe andare peggio.
Le sue indicazioni continuavano anche a fine prova, quando piccoli capannelli degli attori più coraggiosi gli si facevano intorno. O al bar. O davanti a una pizza, perché non gli dispiaceva mangiare con i ragazzi. Era un uomo solo.
Il giorno dopo arrivo presto in teatro. Lascio le mie cose in camerino, non mi cambio, vado a vedere lo spazio dove ieri è successo tutto. Mi siedo al posto del regista, cerco la sua prospettiva. Poi mi alzo e ripercorro i movimenti di Florinda. Ieri sera, per un momento, ho pensato di mollare tutto. Per fortuna mi sono svegliata azzerata, con nuova energia. Posso continuare.
Mi muovo in scena e mi sembra tutto chiaro, le azioni fluide, stesso corpo di ieri ma la paura e la confusione scomparse. Non c’è niente di complicato, mi ripeto.
L’attore è uno strumento, un mezzo per ottenere il risultato della messa in scena. Deve farsi attraversare dal testo e dalla regia. Delicatamente, discretamente ma totalmente. E usare la fantasia.
Passo tra le panche del pubblico; la pulizia, la cura, il colore chiaro mi calmano.
Mi piacciono i palcoscenici grandi dove si può camminare. Comincio a correre in cerchio. Vado a prendere la borsa con lo specchio di scena, la tengo stretta al petto e riprendo la mia corsa. Crollo a terra al centro dello spazio. Tiro fuori lo specchio e mi guardo. Sono sudata, ho delle ciocche di capelli appiccicate alla faccia, ansimo. Il regista mi trova così quando entra. Si schiarisce la voce e accenna un mezzo sorriso.
«Vieni qui, Elena.»
Ci sediamo in prima fila.
«Mi dispiace per ieri.»
Credo di puzzare. Quando ho paura la mia pelle cambia odore.
«Non fa niente.»
Perché dico così? Non è vero che non fa niente. Dico così perché farei qualsiasi cosa per piacergli.
«Ho capito, non ti preoccupare, sto bene.»
«Erano vere alcune cose che dicevo. Ho solo esagerato.»
Penso a quali delle cose dette si riferisca. Mi rendo conto di avere dimenticato tutto.
«Devi fare Florinda. Puoi farla bene.»
Per lui finisce qui. Non credo che gli importi scusarsi. Vuole sapermi in piedi, capace di portare a termine le prove. Non ha nessuna priorità oltre il suo spettacolo. Mi ha dato la dose di autostima necessaria per tornare in scena.
Saltello mentre vado in camerino. Mi infilo la gonna lunga e mi faccio lo chignon. Sento le voci degli altri attori. Quando esco il posto è tornato insidioso, la calma e la fiducia sono scomparse. Negli occhi di tutti vedo la sconfitta che volevo cancellare. Solo Lucia, che interpreta Lidia, la donna della scena del bacio, mi si avvicina. È una ragazza che sembra più grande della sua età, alta, con una gran quantità di ricci scuri.
Dietro la porta di entrata in scena, con la borsa dello specchio in mano e Bernetta accanto, penso alla prima battuta, Bernetta, cammina veloce, e da come la dirò capirò tutto. Mi batte qualcosa nelle tempie e nelle gambe, sono come dei colpi.
«Bernetta, cammina veloce. Vedi…»
Proseguo con le battute e le azioni, la scena scivola con un buon ritmo e trovo la ferocia necessaria a respingere Guerindo.
La scena successiva è con un altro spasimante, Lelio, il più poetico degli innamorati di Florinda. Il ritmo si allenta, la scena respira e io con lei.

© Federica Pamio
Lelio è la figura dell’intellettuale, il suo è un parlare forbito. Nell’eloquio così sapiente c’è qualcosa di buffo, di grottesco dato da un ridicolo imbarazzo per l’accaloramento fisico che coglie il personaggio di fronte a Florinda che fa di tutto per raffreddarlo. Lelio inteneriva Ronconi.
Mi accorgo che i battiti che sentivo prima di cominciare sono i piedi del regista che decide il tempo. Mi guida come un burattino. In qualche modo funziona. Dopo la scena con Lelio inizio il monologo. Mi butto nelle parole, nello specchio. Cerco qualcosa che so di avere.
All’acme dell’esaltazione, sul finale del monologo il grido forsennato è un’autocensura, non è felicità ma costrizione. Una possessione amorosa.
Il regista non è completamente soddisfatto ma dice che va bene. Cominciamo a capire l’idea che vuole comunicare.
«Fatta così è più carina, no?»
Sorrido nel sentire definire “carina” una cosa che mi è costata uno sforzo mai conosciuto.
Gli altri attori adesso mi parlano, non sono più l’appestata. Le ragazze che fremevano per la mia disfatta sono deluse.
Ho voglia di gridare come Florinda, ma di gioia. Mi sento una sopravvissuta.
A casa io e Lucia proviamo la scena delle due donne.
Lucia, scarmigliata, la voce calda, velata dalla passione, si avvicina. Ci troviamo l’una di fronte all’altra, Florinda sente un calore e un turbamento che le fa perdere i sensi. Lo svenimento in scena non è mai facile, risulta sempre un po’ artefatto. Cerco di lavorare sulle sensazioni fisiche che lo precedono. Decidiamo di proporre uno svenimento di Florinda tra le braccia di Lidia, in modo che lei possa poi fare il suo monologo in piedi, sostenendola. Lucia è sempre pronta a qualsiasi proposta, ed è concentrata.
C’è un mutamento delle due donne che si innamorano in scena. Lidia, delusa dagli uomini, perora la causa di amore e Florinda cerca di contrastarla difendendo il suo amore allo specchio. Lotta fino allo stremo delle forze per proteggersi da questo nuovo calore che sente nascere per Lidia e che la porta allo svenimento.
Il risveglio di Florinda è ormai all’insegna della più languida fede in amore, tanto da indurla a chiedere un bacio a Lidia. La richiesta ha il carattere dell’inevitabilità.
Dopo il bacio Florinda si dilaterà in un enorme e gioioso stupore.
Le attrici dovranno evitare il lieto fine, e insinuare un sottile senso di inquietudine. Il regista odiava il lieto fine.
«Scena tra Lidia e Florinda» ha detto oggi appena si è seduto in platea. Uno sguardo tra me e Lucia e ci siamo avviate verso il palco. So tutto quello che devo fare, conosco i passi, i movimenti, i respiri, gli sguardi. L’abbiamo provata. Siamo state maniacali. Ma seguire la partitura non mi fa sentire del tutto sicura. So che ci devo mettere qualcosa in più. Lentamente mi sciolgo, guardo Lucia, la sua energia, il suo desiderio di mangiare Lidia, di essere lei. Amo quella forza instancabile. Mi gira la testa quando mi accascio tra le sue braccia. Con la schiena piegata all’indietro, a occhi chiusi, ascolto le parole, gli strattoni sul mio corpo abbandonato. Quando rinvengo mi trovo di fronte lei. Le due donne, una rifiutata dal suo amante, l’altra che odia gli uomini, sono ora vittime di una nuova passione. Si aprono al desiderio.
«Uniamo petto a petto e bocca a bocca.»
Sento i nostri corpi in tensione nel lento avvicinamento. Dobbiamo fingere controllo. Guardo il bustino nero di Lidia, il centro dell’azione nel petto che si muove sicuro verso di me.
Il bacio tra le due donne deve essere la perfezione. Le labbra di Lucia si socchiudono sulle mie. Non sono a mio agio, ma so che la scena è andata bene. Lo capisco dalla sospensione del rumore dei piedi e dal silenzio degli altri attori.
«Miele! Manna!»
Tutti ridono della mancanza di pudore di un personaggio che credeva che lo specchio le sarebbe bastato. Che i piaceri del sesso sarebbero stati tutti nella sua immagine. E io mi sento incastrata in una strana somiglianza; io che sopporto il contatto fisico solo in scena. Ci giuriamo amore eterno in una festa di scoperte di nuovi piaceri, di sorrisi carichi di desiderio, di energia amorosa.
Ho un po’ di nausea quando finisco la scena. Rimango chinata in avanti, con le mani sulle ginocchia a riprendere fiato. Con un angolo dell’occhio vedo Lucia che guarda davanti a sé. Il regista si schiarisce la voce: «L’avete fatta bene».
Lucia ha gli occhi lucidi. Ci stringiamo la mano, nascondendoci nelle pieghe dei vestiti.
«Adesso la seconda distribuzione, stessa scena: Lidia e Florinda.»
Una botta secca in testa. Dov’ero quando ha deciso che ci sarebbe stata un’altra distribuzione dei ruoli? Non mi ha detto niente. Scopro la sua vigliaccheria dietro l’apparente sicurezza, il grande regista non ha il coraggio delle sue azioni.
Mi allontano e di nuovo sento la compassione degli altri attori, che già sapevano. Dal primo giorno, dopo il fallimento della mia performance, il regista ha nominato un’altra Florinda e un’altra Lidia.
La scena scorre veloce davanti ai miei occhi. Lidia è un’attrice sconquassata, con mezzi approssimativi e la voce che traballa, ma ci mette passione. Florinda è brava.
Sto al mio posto, mi sembra di essere seduta sui rovi, ho gli occhi fissi sulle due donne e all’improvviso mi rendo conto che il regista è in silenzio. Non fa i soliti rumori di disturbo, non è spazientito. Gli piace. Guardo Lucia. Anche lei ha capito.
«Questa è la prima distribuzione. Elena e Lucia saranno la seconda.»
Non faremo la prima rappresentazione. Nessun giornale scriverà di me e Lucia. Nessun premio come attrici rivelazione dell’anno. Ho fallito il primo giorno e non mi è stato perdonato. Ho cercato un riscatto che non era possibile. Rimango immobile. Qualcuno mi dice di andare a bere qualcosa fuori. Non capisco come il mondo possa andare avanti mentre io sento che si è fermato. Ci raggiunge Lucia. Il regista comunica altri dettagli che non ascolto.

© Federica Pamio
Ogni mattina apro gli occhi sperando che quello sia il giorno in cui il regista capirà di aver sbagliato. Non succede mai.
Quando arriva la data del debutto decido di non andare a vederlo. Non voglio farmi condizionare.
La sera dopo tocca a me. Arrivo presto in teatro. Scrivo e riscrivo le mie battute su un quaderno che porto sempre con me. Penso a ogni parola, a ogni sguardo, a ogni variazione che quella parte di azione porta con sé. In camerino trovo un libro di Elias Canetti con una dedica di Lucia.
Non so cosa provo. Il legame che ho con Lucia è qualcosa su cui non mi sono mai interrogata. In poche settimane ha preso posto nella mia vita. Un posto pieno di dolcezza ma con uno sfondo nero. Le scene che proviamo ci hanno regalato un’intimità preziosa, che confondo con la realtà.
Mi spoglio: lo sguardo che lo specchio mi restituisce proviene da un corpo senza splendore. Alzo le braccia magre e muovo un po’ i fianchi. Rido da sola. Poi mi punisco per questa trasgressione e mi siedo a scrivere di nuovo le battute. Non trovo pace. Immagino il mio ingresso.
Prima che il direttore di scena dia la mezz’ora all’inizio dello spettacolo comincio a truccarmi in silenzio, mi lego i capelli, indosso il costume. Arrivano gli altri attori, alcuni erano nello spettacolo di ieri, li riconosco dal passo rilassato, appagato. Altri, come me, sono alla loro prima rappresentazione, il loro passo è trattenuto, cauto.
Al quarto d’ora vado nel camerino di Lucia per un ultimo sguardo. Non amo le superstizioni. Preferisco un rito sommesso.
Ai cinque minuti mi piazzo dietro la quinta di ingresso, c’è anche la mia serva. Una breve stretta al suo braccio, mentre la gente si sistema al proprio posto. Riconosco alcune voci dei miei invitati. Prendo fiato, creo buio in testa.
Piego il corpo per infilarmi nella stretta apertura della quinta.
«Bernetta, cammina veloce…»
Nella scena con Guerindo sono tesa; in quella con Lelio mi sciolgo.
Alla scena con Lidia mi sento bene. Mi muovo come sognavo, rilassata, con l’energia giusta. Svengo e sento Lidia con toni di voce bassi e vibranti che non ricordavo in prova. Ho un’esitazione prima del bacio, mentre Lidia avvicina petto a petto e bocca a bocca mi allontano lievemente come se stessi per scappare via. Poi recupero, il busto in avanti, e la bacio. Il pubblico all’unisono fa una lieve inspirazione di sorpresa, e al mio grido Miele! Manna! ride.
Quando esco di scena non posso fare a meno di pensare che io vivo per queste serate, per questo lavoro. E non mi importa del regista che alla fine si congratula con me.
Lucia viene nel mio camerino.
«Secondo me siamo state le più brave.»
Non ho più voglia di fare gare. Niente sarà come prima. A un’attrice non si può togliere la sicurezza di essere unica.
Dopo qualche replica il regista ci comunica che porteremo lo spettacolo al Festival d’Automne al Théâtre des Amandiers di Nanterre, a Parigi, diretto da Patrice Chéreau. Io e Lucia faremo la prima rappresentazione.
Editing di Fabiana Castellino
Stefania Micheli è nata a Brescia e vive a Roma da sempre. È laureata in Lettere, ha un Master in traduzione dal francese ma è l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica che l’ha davvero formata. Ha pubblicato traduzioni dal francese e dall’inglese (Fazi e Donzelli) e ha tradotto per le scene alcuni testi teatrali. Lavora presso l’Ambasciata del Canada a Roma e continua a fare l’attrice. Ha pubblicato alcuni racconti su riviste letterarie online (Risme, Micorrize, Quaerere, Nido di gazza, Grande kalma). Scrive la mattina presto, prima di andare a lavorare.




Nei lavori dell’artista Federica Pamio il filtro del realismo appare sin da subito inadeguato a contenere un immaginario contaminato da elementi fantastici, distopici, che si muove in egual misura tra ambienti interni e domestici ed esterni urbani, desertici o boschivi, acquatici. Sono luoghi in cui la figura umana non scompare, ma riduce il suo spazio ai margini della visione: si presenta a pezzi, a volto negato, nelle sembianze di simulacri, nella proiezione di ombre, nell’opaco dell’aspirazione a una disintegrazione materiale, in autoritratti che si cercano riflessi in elementi organici. Tutto quello che a un primo sguardo sembra riconoscibile, a un’osservazione prolungata, restituisce invece una sensazione perturbante fino a significare in alcuni scatti un annichilimento o un’alienazione da sé. Solo per ritrovarsi però in altre forme. I suoi lavori agiscono, dunque, come un passaggio, uno slittamento inesplorato di senso verso trasformazioni possibili solo per decentramento. Una diversa disponibilità dell’essere per riattivare una sfera sensoriale sommersa.
Maria Teresa Rovitto
Federica Pamio Tradate (VA) 1986. Vive e lavora tra Varese e Milano. Laureata in I e II Livello in Arti Visive presso l’Accademia di Brera, a Milano. Nel 2011 frequenta l’AdBK di Monaco di Baviera. Nel 2015 è artista in residenza a Madrid con Intercambiador Acart, nel 2016 ad Aveiro presso la Galeria Ma Arte. Nel gennaio 2018, la prima mostra personale Li hai visti anche tu? presso Surplace Artspace, nel 2022 la seconda “Viluppo_Sperate nuove vedute” alla Ex Dogana Austroungarica (VA). Realizza diverse performance: 2017, About Sand (Women in the Dunes), presso Assab One, Milano; 2016 FESTUCHE con Amedeo Martegani; 2015 Insorgi – Case Nuovee 2012 Attempts to Be Othersa Milano. Finalista al Premio Nazionale delle Arti nel 2011, al premio Aldo Alberti nel 2012 e per tre anni al Premio Fotografico Riccardo Prina, è vincitrice del concorso “Siamo quel che mangiamo” nel 2013. Le più recenti mostre collettive si sono svolte tra Milano (Fabbrica del Vapore, Triennale di Milano), Madrid (Espacio Trapézio), Varese e Chiavari. Nel 2021 un articolo del Boston Globe pubblica la serie fotografica “n’est nest”, nata dalla collaborazione con l’artista Linda Pagani.