

La consapevolezza dell’istante
“Ti rendi conto insomma che per fare le cose bene – è soggettivo ma anche effettivo – ci vuole molto più tempo e tu non ne hai. Ne hai troppo poco, e quindi devi scegliere, selezionare, rinunciare. Il limite del quale facevi sfregio e che schernivi nella tua sontuosa irripetibile giovinezza, ora è diventato insormontabile. E ci vanno energie, e ci vuole metodo, per riuscire a ricomporti dentro questo nuovo viaggiare. Finché quel limite, quei limiti diventano addirittura rocce solide, appigli, punti di partenza, sono i tuoi nuovi punti cardinali. E non è male, soltanto diverso”.
Prima di diventare oggetto di studio per la fisica, la riflessione sulla natura del tempo è stata tra i temi d’interesse del pensiero filosofico, sia occidentale che orientale. Per il buddismo, il tempo non si dà se non nella forma del presente. La mente deve essere perciò addestrata, attraverso la meditazione, alla consapevolezza dell’istante. Lasciare che rimugini sul passato, con rimpianti e nostalgia, oppure che si proietti nel futuro, comporterebbe infatti l’impossibilità di vivere nell’unica dimensione (quella, appunto, del presente) in cui ci è permesso stare.
Di simile avviso era anche Seneca: nel “De brevitate vitae” e in diverse lettere dedicate all’amico Lucilio confuta coloro i quali ritengono che la vita umana sia breve, dimostrando come in realtà il tempo ci venga sottratto da occupazioni o persone che ci impediscono di essere pienamente padroni di noi stessi. La riflessione filosofica offre invece gli strumenti per potersi affrancare da ciò che non ci è essenziale; da qui l’espressione “vindica te tibi”.
Nel libro XI delle “Confessioni” Agostino di Ippona assume nei confronti del tempo una posizione che si potrebbe definire agnostica. Afferma, infatti, che «se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». Di certo esistono il passato e il futuro, perché altrimenti «senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente». Tuttavia, il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora. Dunque come possono esistere?
Persino il presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità: «Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere».
Nel Novecento Henri Bergson introduce il concetto di “durata interiore”. Contrappone cioè il tempo oggettivo, suddivisibile in istanti quantitativamente omogenei, al tempo soggettivo, che non è divisibile: “Al di fuor di me, nello spazio, c’è un’unica posizione della lancetta e del pendolo, perché delle posizioni passate non resta nulla. Dentro di me si svolge un processo di organizzazione e di mutua compenetrazione di fatti di coscienza, che costituisce la vera durata.” La filosofia bergsoniana sarà poi ripresa da diversi scrittori e poeti del novecento, incluso Eugenio Montale.
Il tessitore di foreste
“Il tessitore di foreste: un percorso per spiriti selvatici fra natura e buddismo pastorale” è l’ultima tra le opere di Tiziano Fratus ad essere stata pubblicata. Disponibile in formato ePub e eBook e edita dalle Edizioni dell’Eremo, raccoglie 55 poesie-calligrammi definite dall’autore “boschi miniati”, o “silvae”. Nascono da un ciclo di appunti presi durante meditazioni silvestri in cui l’insegnamento del buddismo zen si ancora alla contemplazione dei grandi alberi. Emergono riflessioni dedicate a realtà ordinarie, in cui è assente la pretesa di raggiungere l’illuminazione. Costante è invece il tentativo di entrare nelle cose; un esercizio di somiglianza.
Canti orfici
“In quei castagneti, da solo, ho aperto il libro di poesie di Campana e ne ho letto alcune, ai rami spogli, alle foglie accartocciate, alle nuvole che risalivano le colline e presto avrebbero versato lacrime su queste lande boscose.
Anche in Giappone, mi è capitato, con alcuni haiku, componimenti di eremiti e maestri zen, letti per me, sottovoce, quasi a non voler disturbare i fili d’erba, i sassi, i muschi”.
I “Canti Orfici” (1914) di Dino Campana propongono un lirismo frammentato costruito attorno a un mistero a cui allude l’aggettivo che compone il titolo. Lontana dai toni roboanti del futurismo, più vicina al gruppo della “Voce” sebbene non vi fosse del tutto allineata, la storia editoriale dell’opera è travagliata quasi quanto quella biografica dell’ autore, Dino Campana. La silloge, inizialmente intitolata “Il più lungo giorno”, fu composta tra il 1912 e il 1913 e consegnata per la pubblicazione a Giovanni Papini e Ardengo Soffici: «venuto l’inverno andavo a Firenze al “Lacerba” a trovare Papini che conoscevo di nome. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava ma che era ‘molto molto’ bene e mi invitò alle Giubbe rosse per la sera… per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l’avrebbe stampato. Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all’asilo notturno ed era il giorno che facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato in mano di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi di riscriverlo a memoria…».
L’autografo sarebbe stato ritrovato solo nel 1971, tra le carte di Soffici.
Il pensiero Zen
Il monaco Bodhidharma è considerato il fondatore del buddismo zen. Emigrato dall’India in Cina, la storia racconta che meditò per nove anni di fronte a una parete rocciosa in una grotta del monte Songshan, dove morì a 57 anni. Dalla Cina, la filosofia zen sarebbe poi arrivata in Giappone, dove si sarebbe sviluppata in due scuole principali, quella Tendai e quella Rinzai, basata sulla meditazione seduta, o zazen.
Fondamentali, nel pensiero zen, sono i concetti di “nulla” e “vacuità”, da cui si sarebbero sviluppate diverse discipline, dal tiro con l’arco alla cerimonia del té, dal teatro nō allo haiku.
Lo haiku è una forma poetica che nasce dal “renga”, o poesia a catena, in cui ogni strofa era legata alla precedente e in cui il non detto era più importante di ciò che veniva espresso. Praticato dalla metà del XIII secolo, era costituito da un’alternanza di strofe lunghe e brevi ed era formato da cento versi. A seconda del contenuto, si distingueva in “ushin renga”, di tono più elevato, e in “mushin renga”, detto anche “haikai no renga”, dal carattere leggero. In seguito, lo “haikai no renga”, costituito da 36 strofe, venne chiamato semplicemente haikai.
Il poeta di haikai più famoso è senza dubbio Basho; del resto fu proprio lui a attribuire dignità letteraria al genere. Nel corso del tempo, la prima strofa diventerà indipendente, tanto che lo scrittore Masaoka Shiki coniò il neologismo haiku dalla contrazione di haikai no ku (verso di un poema a carattere scherzoso). Oggi, intendiamo per haiku un componimento costituito da tre versi di 5-7-5 more.
“L’erba estiva!
È tutto ciò che rimane
del canto dei guerrieri”
(M. Basho)
John Muir
“Ricompensare la terra, mi sono detto, ricompensare anche se non è spettacolo, non ha senso forse nemmeno star qui a scriverne, d’altro canto chi prega prega per se, suppongo per qualcuno che non può sentire. Lo stesso ho fatto nel corso degli anni con certe pagine di John Muir, recitate a fior di labbra fra le sue amatissime sequoie in California, in quel punto di mondo che porta il nome che lui stesso diede, Giant Forest, se non rammento male nel 1875, cento anni prima della mia nascita”.
Dall’Indiana al Golfo del Messico, da Cuba alla California: tanto viaggiò John Muir, scozzese emigrato negli Stati Uniti, quando, a 29 anni, decise di vedere con i propri occhi le bellezze della natura. Il resoconto dei suoi vagabondaggi, un diario intitolato “La mia prima estata sulla Sierra”, sarebbe stato pubblicato nel 1911, quarant’anni dopo la composizione. Muir era tanto sensibile alla maestosità delle sequoie californiane quanto era consapevole dei pericoli derivanti dallo sfruttamento del legname. In anticipo sui suoi tempi e oggi – ahinoi – attualissimo, si diede da fare per cercare di tutelare alcune delle aree boschive più belle degli Stati Uniti. Così, il 1 ottobre 1890, Yosemite divenne uno dei primi parchi nazionali americani; due anni dopo fondò il Sierra Club e sostenne altri gruppi ambientalisti nati per proteggere l’ecosistema delle foreste.
La sua attività si rivelò fondamentale per portare all’attenzione dell’opinione pubblica la questione ambientale, che all’epoca non era di certo un argomento all’ordine del giorno; in particolare, si deve a lui se il concetto di “wilderness”, cioè di natura incontaminata e selvaggia, cominciò a essere interiorizzato dall’opinione pubblica come un valore dalle connotazioni positive.
Mario Rigoni Stern
“E così ho letto, su territorio francese, ad esempio quando vado in pellegrinaggio alle foresta di ginepri turiferi di Saint-Crépin, nelle Alte Alpi, tre ore di macchina dal mio modesto eremo, pagine di autori amatissimi, come Jean Giono e Jacques Brosse, le poesie arboree di Jacques Prévert e Philippe Jaccottet. O passi delle notazioni forestali di un certo Mario Rigoni Stern, una citazione scontata, troppo facile, mentre ero in viaggio nei boschi veneti”.
Nella breve autobiografia scritta per l’assegnazione del Premio Chiara alla carriera, nel 2003, Mario Rigon Stern, nato ad Asiago nel 1921, ricorda i disagi economici causati dalla crisi degli anni Trenta, aggiungendo però che a “loro ragazzi” importava ben poco: «Amavo più giocare che studiare; sciare, vagabondare per i boschi, esplorare luoghi lontani. La letteratura è una foresta. Ci sono alberi grandi e bellissimi che superano gli altri: si chiamano Omero, Tucidide, Virgilio, Dante Boccaccio, Cervantes, Shakespeare, Leopardi. Dove la foresta alpina si dirada e la montagna diventa nuda, lassù cresce l’albero più piccolo della terra: il salice nano. Nella foresta della letteratura io sono un salice nano”. Nello zaino teneva sempre due libri, la “Commedia” di Dante e “Il fiore perduto della lirica italiana dal Trecento all’Ottocento”, persi nella steppa russa nell’estate del 1942.
L’esperienza bellica è di certo un tema cardine nell’opera di Stern: nel marzo 1953 “Il sergente nella neve” viene accolto con grande favore da lettori e critici e premiato col premio Viareggio. Pur continuando a lavorare come impiegato del catasto, inizia a scrivere per alcune riviste; nel 1962 i suoi racconti confluiscono nel “Bosco degli urogalli”, grazie all’interessamento di Calvino.
L’attività letteraria si intensifica a partire dagli anni Settanta, poiché una malattia cardiaca costringe lo scrittore a congedarsi dal lavoro. A quest’epoca risale non solo la pubblicazione di opere come “Quota Albania” e “Ritorno sul Don”, ma anche l’attività di sensibilizzazione contro la cementificazione dell’Altopiano di Asiago, condotta anche in qualità di consigliere comunale: “Vediamo sorgere ad Asiago condomini di dieci appartamenti o anche più, villette da sette nani; e boschi lordati da frantumi di bottiglie e involti di plastica; alberi, fiori, funghi strappati”.
L’attività scrittoria continua con “Storia di Tönle”, “il libro più riuscito”, vincitore del Bagutta e del Campiello, inizierà la “Trilogia dell’Altopiano” completata da “L’anno della vittoria”, nel 1985, e da “Le stagioni di Giacomo, nel 1996.
L’impegno ambientale e la scrittura si affiancheranno sempre. Nel 2004, quando ormai il suo valore letterario è stato ampiamente riconosciuto, è chiamato dalla Regione Veneto a partecipare con quattro saggi alla stesura dei principi fondamentali del futuro “Piano territoriale regionale di coordinamento”, che saranno raccolti organicamente nel 2004 in un documento denominato “Carta di Asiago”: “Sono sempre più convinto che queste nostre montagne alle spalle delle città industrializzate e per il traffico rese invivibili, saranno, con il mare, la salvezza al vivere quotidiano di chi vi è costretto per lavoro”.
Persino il presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità: «Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere».
Ottimo per riflettere….
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