Sympathie

di Sharon Vanoli

[ITA] [FRA]

© Valeria Puzzovio

La maestra invitò le bambine a mettersi in fila indiana, e cominciò a contarle, a gruppi di tre, dando di volta in volta un lieve colpetto sulla spalla della figura coinvolta nel conteggio. Dovette sfiorare anche Lisa, che occupava la dodicesima posizione. La madre le aveva fatto indossare un vestito bianco, in cotone leggero, forse fin troppo leggero per l’inizio della primavera. Ancora prima di abbassare la mano, la maestra immaginò che al momento del contatto la spalla nuda di Lisa sarebbe stata fredda, e si preparò di conseguenza – i corpi freddi le causavano una forte repulsione. Invece Lisa era gradevolmente tiepida, anche più tiepida delle altre bambine. Ne fu così sorpresa che in un moto di gratitudine immotivata le strinse leggermente la pelle, e fece un grande sorriso. Che restò mortificato, perché Lisa non si voltò, e tenendo il mento dritto di fronte a sé mosse appena la pupilla nera, in direzione della maestra, per un secondo. Alle sue spalle, Giada le bisbigliava qualcosa all’orecchio. La maestra scelse di ignorare nonostante le bambine non fossero autorizzate a parlare durante il conteggio – le costava molta fatica contare nel brusio. Trascurò il fatto perché Giada era, in tutta la classe, l’unica bambina che aveva in simpatia Lisa.

“E diciotto”, disse la maestra, questa volta a voce alta. E ritornò al principio della fila facendo segno di seguirla oltre l’ingresso. L’acquario si presentò subito piuttosto mediocre, non c’erano che due sale modeste, di forma quadrata. La sola luce presente era l’intensa luce blu dell’acqua – dalle vasche si espandeva nell’ambiente, imitando molto bene l’effetto di un’immersione nell’oceano. Di abisso aspirato in superficie. Le bambine cominciarono a urlare, a picchiettare i vetri per richiamare l’attenzione dei pesci. Senza riuscirvi: all’interno delle vasche, nient’altro che un corposo silenzio, come pieno di pensieri, o di ricordi. Dopo aver ristabilito l’ordine, la maestra si lasciò incantare dalla strana presenza dei pesci. Una presenza che istintivamente lei associò all’assenza. Per un attimo, ebbe persino il sospetto che i pesci non la vedessero. Anche di fronte ai bagliori delle macchine fotografiche, avevano a malapena una reazione. Ricambiavano l’obiettivo con sguardi di tolleranza vaga, come sforzandosi di provare ancora curiosità nei confronti di ciò che un giorno era stato senz’altro motivo di orrore. Ma ora, pur essendone prigionieri, a loro non importava più niente del nostro incomprensibile mondo. Che è un mondo alieno, il mondo della superficie. Ai pesci interessa la profondità. Sui fondali, le anemoni facevano oscillare i loro tentacoli, allungandoli e ritirandoli con andamento tanto floscio da evocare il sonno.

© Valeria Puzzovio

La gita all’acquario non stava entusiasmando nessuno. Le bambine, dopo l’iniziale eccitazione, si erano adesso spontaneamente messe in fila dietro alla maestra, e – taciturne, con passo indolente – la seguivano, quasi dormendo in piedi. La maestra, scorgendole per quanto l’oscurità concedeva, provò tristezza. E un vago senso di colpa. Così, a meno di venti minuti dal loro ingresso, sbatté le mani in alto e camminò svelta verso l’uscita, dove, sulla soglia, contò nuovamente a gruppi di tre le bambine a mano a mano che uscivano. La voce di Giada, poco distante, la distrasse: “Andiamo, andiamo”, diceva, e intanto tirava per le pieghe del vestito Lisa, ferma di fronte a un vetro opaco. L’abitante della vasca era un cavalluccio marino, a stento distinguibile dalle rocce del suo stesso colore tra le quali cercava la mimesi. Lisa, assorta, lo guardava, e anche il cavalluccio, con un’immobilità di cadavere, sembrava guardarla – di profilo, interamente bianco, con l’occhio scuro, torbido. La maestra si innervosì. Lisa aveva questa spossante attrazione per le cose che lei giudicava orrende. E quel cavalluccio era la creatura marina più orrenda che aveva visto quel giorno. Orrenda e sinistra. Come se fosse malato, sì, intossicato dall’acqua, o dalla sua stessa presenza, poiché la vasca in cui era costretto a vivere aveva dimensioni notevolmente piccole. Il cavalluccio parve sollevare lo sguardo alla vista della figura – alta, rigida – della maestra alle spalle di Giada e Lisa, e insisteva a guardare, ora, la maestra, con quell’occhio torbido, gonfio di livore. Se potesse ci ucciderebbe tutti, pensò la maestra. E per un attimo ne ebbe davvero paura. Vide in latenza la sua natura criminale, di spettro stralunato nella notte.

© Valeria Puzzovio

Per riscattarsi dall’inutile visita all’acquario, la maestra concesse alle bambine di fare un giro sulla ruota panoramica che, proprio in quei giorni, era stata montata nel parco che circondava l’edificio. Le aiutò a sistemarsi sui sedili, a gruppi di quattro. Fu indecisa fino all’ultimo se salire lei stessa. Valutò che fosse più corretto restare a terra e controllare le alunne dal basso. Un po’ turbata, permise all’addetto di far partire la ruota. Le bambine alzarono le braccia, indicando gli edifici della città che iniziavano a profilarsi e che loro riconoscevano. Altre, più paurose, chiusero gli occhi, aprendoli ogni tanto solo per assicurarsi che la ruota continuasse a procedere.

A Giada tremolava il labbro inferiore. Per caso, aveva tenuto con sé il bicchiere in cui aveva bevuto la limonata all’uscita dell’acquario. Lo stringeva tra le mani guardandolo con angoscia, sapeva che la maestra sarebbe inorridita alla vista del pericolo sfiorato. Fu così che, appena superato il punto di massima altezza, allungò la mano verso le ginocchia di Lisa, e con occhi umidi la implorò di soccorrerla. Lisa afferrò il bicchiere, con naturalezza, e lo osservò. In fondo era solo un bicchiere di vetro, pensò, e lo girò tra le mani con aria riflessiva. Era solo un bicchiere, eppure. Eppure, qualcosa di teso, di affilato, cominciò a imporsi nella mente di Lisa. Qualcosa che lei non sapeva spiegarsi, ma che, se avesse potuto formulare a parole, avrebbe forse chiamato: vendetta. Certamente non era un capriccio – i capricci, questo lo sapeva, creavano rabbia. E non era rabbia ciò che Lisa sentiva, al contrario: profonda calma. E gioia, la gioia di chi adempie un dovere. Non riguardava più lei sola. Come guidata da un comando, sporse il busto oltre il sedile e, con il candore che si deve al destino, lasciò cadere il bicchiere in direzione della maestra.

© Valeria Puzzovio

Nelle ore pomeridiane, nonostante avesse ormai dieci anni, Lisa aveva ancora necessità di dormire. La madre la assecondava con diligenza, conoscendo la delicatezza della figlia e la sua propensione agli attacchi di emicrania, che tendevano a manifestarsi quando le giornate non seguivano il naturale corso delle abitudini.

Anche quel giorno la osservò mangiare sempre più lentamente e pigramente, ormai catturata dal sonno, e le veniva da sorridere, pensando a quanto sua figlia presentasse abitudini simili a quelle dei vecchi. Una piccola vecchia, taciturna e scontrosa, era Lisa. Al termine del pranzo, la accompagnò a letto, e dopo aver tirato le tende per nascondere la luce del sole, la lasciò sola. Come sempre, Lisa cadde nel sonno molto in fretta, e sognò. Sognò di scendere, scendere lungo una ripida, ombrosa scala. In fondo alla scala, c’era una cantina. Tra i ripiani, scatoloni colmi di oggetti e di polvere. Nell’atto di afferrarne uno, Lisa sentiva le caviglie bagnarsi. In terra, rasente il muro macchiato di muffa, una boccia frantumata. Tra i resti di vetro e le pozze d’acqua, un pesce ansimava, sofferente. Un pesce di modeste dimensioni, dai lunghi baffi gocciolanti, che ricordavano un pescegatto, e dal corpo snello e curvo di cavalluccio marino. Il pesce ansimava e soffriva. Lisa era presa dalla smania di salvarlo, con le mani raccoglieva l’acqua rimanente tentando di versarla sopra al corpo dell’animale, ma i suoi arti si facevano sempre più molli e insensibili. Infine, si rassegnava a chinarsi verso il pesce, accarezzandolo mentre moriva. Lui la guardava con occhi miti. Lisa piangeva, il pesce se ne dispiaceva. Solo tu potevi salvarmi, sembrava dire, ma io ti perdono.

L’editing è di Antonio Russo De Vivo

© Valeria Puzzovio

Sharon Vanoli nasce a Bergamo nel 1994. Cresce in una valle di montagna; ora vive a Napoli. Sta frequentando un dottorato in Filologia romanza. Ha pubblicato racconti su varie riviste tra cui Altri Animali, L’inquieto, Micorrize, Nazione Indiana, Neutopia.

Valeria Puzzovio è un’illustratrice della provincia leccese. Lavora in ambito editoriale e pubblicitario creando illustrazioni con tecnica tradizionale (matite e pastelli) o tecnica mista (collage analogico o digitale). Realizza le illustrazioni per Barbablues edito da Pietre Vive Editore e le copertine di Il colore delle cose fragili e Tra le pagine l’incontro (Collettiva Edizioni) e di Piccole storie finite male (Besa Editrice). Partecipa a mostre individuali e collettive, fiere di settore (The House of Illustration Fair London 2018), eventi culturali e manifestazioni artistiche (Mercado de obra grafica di Barcellona 2014, Lucca Comics&Games 2015), residenze artistiche (Lago Film Fest 2018). É tra gli artisti vincitori del contest Dieci Copertine di Italianism 2018. Nel 2020 è selezionata alla Mostra Internazionale del Libro d’artista VII edizione a Noto (SR). Nel 2021 collabora con Fidelio Productions realizzando i disegni per il film Vetro di Domenico Croce.

Sympathie

de Sharon Vanoli

Traduit par Sharon Vanoli et Chantal Vergnes

La maîtresse invita les filles à se mettre en file indienne, et commença à les compter, par groupes de trois, en donnant à chaque fois un petit coup avec sa main sur l’épaule de la première de chaque rang. Elle effleura aussi Lisa, qui occupait la douzième place. Sa mère lui avait mis une robe blanche, en coton léger, peut-être trop léger pour le début du printemps. Avant de poser la main, la maîtresse fut convaincue de sentir l’épaule nue de Lisa froide, et eut une hésitation – les corps froids lui causaient une forte répulsion. Au contraire, le corps de Lisa était agréablement tiède, encore plus tiède que celui des autres filles. Elle en fût si étonnée qu’avec un élan de gratitude injustifiée elle lui serra doucement la peau et lui fit un grand sourire. Elle en resta mortifiée, car Lisa ne se retourna pas, mais garda sa tête bien droite et lors d’un instant, elle bougea à peine la prunelle de ses yeux vers la maîtresse. Giada, à ses épaules, lui murmurait quelque chose à l’oreille. La maîtresse fit comme si de rien n’était, bien que ses élèves ne fussent pas autorisées à bavarder pendant le comptage – compter avec du bruit la fatiguait beaucoup. Elle décida d’ignorer ladite faute parce que, dans toute la classe, Giada était la seule élève qui aimait bien Lisa.

“Et dix-huit”, dit la maîtresse, cette fois à voix haute. Elle revint au point de départ et fit signe aux filles de la suivre vers l’entrée du musée. L’aquarium se présenta tout de suite plutôt médiocre, il n’y avait que deux modestes salles, de forme carrée, la seule luminosité étant donnée par une intense lumière bleue. Celle-ci s’étendait en imitant l’effet d’une immersion dans l’océan. Un abîme aspiré à la surface. Les filles commencèrent à pousser des cris, à tapoter contre les vitres pour attirer l’attention des poissons. Sans succès: à l’intérieur des vasques, rien qu’un corsé silence, un monde de pensées, ou de souvenirs. Après avoir rétabli l’ordre, la maîtresse se laissa charmer par la présence des poissons. Une présence qu’elle associa instinctivement à l’absence. Pendant un instant, elle soupçonna que les poissons ne la voyaient même pas. Face aux flashs des appareils photos, ils réagissaient à peine. Ils répondaient aux objectifs avec un regard de vague tolérance, ils semblaient s’efforçaient d’avoir de la curiosité, sans doute n’avaient-ils plus le souvenir de l’effroi éprouvé alors. À présent, même en étant prisonniers, notre monde incompréhensible ne les préoccupait plus. Un monde alien: le monde de la surface. Les poissons étaient captivés par la profondeur. Sur le fond, les anémones faisaient balancer leurs tentacules, en les allongeant et en les contractant avec une cadence si souple qu’évoquait le sommeil.

La visite à l’aquarium n’importait plus personne. Les filles, après l’enthousiasme initial, s’étaient volontairement alignées derrière la maîtresse et – taciturnes, d’un pas indolent – la suivaient presque en dormant debout. La maîtresse, en les apercevant dans cette semi-obscurité, éprouva un peu de tristesse. Du remords. C’est pourquoi elle frappa des mains et marcha vite vers la sortie, et près de la porte, compta à nouveau par groupes de trois les filles qui peu à peu sortaient. Pas loin, la voix de Giada la déconcentra. “Allez, on y va”, disait-elle, et tirait par les plis de la robe, Lisa, figée devant une vitre légèrement opaque. L’habitant de cette vasque était un hippocampe, à peine visible entre les rochers de même couleur parmi lesquels il essayait de se camoufler. Lisa, pensive, le regardait, l’hippocampe aussi, avec une immobilité de cadavre, semblait la regardait – tout blanc, de profil, l’oeil foncé, sombre. La maîtresse s’énerva. Lisa avait toujours cette agaçante manie pour les choses qu’elle jugeait affreuses et cet hippocampe était la créature la plus affreuse qu’elle n’ait vue ce jour-là. Affreuse et sinistre. Comme s’il était malade, oui, intoxiqué par l’eau, ou par lui-même, vu que la vasque où il était forcé de vivre était de dimension trop petite. L’hippocampe sembla lever les yeux devant la silhouette – haute, rigide – de la maîtresse apparue derrière Giada et Lisa. Il se mit à la fixer, toujours avec cet oeil sombre, gonflé de rancoeurs. S’il pouvait, il nous tuerait tous, pensa t-elle. Et pendant quelques secondes, elle eut vraiment peur. Elle vit dans un temps de latence sa nature criminelle, sa nature de spectre effrayant dans la nuit.

Pour se faire pardonner de cette passable sortie, la maîtresse autorisa les filles à faire un tour sur la grande roue qui ces jours-là avait été placée dans le parc qui entourait l’aquarium. Elle les aida à s’installer sur les sièges, en groupes de quatre. Elle hésita jusqu’à la fin si monter aussi ou non, mais elle estima qu’il était plus prudent de rester en bas pour mieux contrôler ses élèves. Un peu inquiète, elle laissa l’employé faire tourner la roue. Les filles soulevèrent les bras en l’air, en indiquant les palais de la ville qui commençaient à se dessiner et qu’elles reconnaissaient. D’autres, plus craintives, fermèrent les yeux, en les ouvrant seulement de temps en temps pour s’assurer que la roue continuait à avancer.

La lèvre inférieure de Giada tremblait. Étourdie, elle avait gardé avec elle le verre dans lequel elle avait bu une limonade, tout de suite après la sortie du musée. Elle le tenait serré entre ses mains, en le regardant avec angoisse. Elle savait que la maîtresse aurait été horrifiée à la seule pensée du danger effleuré. C’est pourquoi, dés que le point le plus élevé de la roue fut dépassé, elle tendit la main vers les genoux de Lisa et, les yeux larmoyants, la supplia de l’aider. Lisa prit le verre sans inquiétude, et l’observa. Après tout ce n’est qu’un verre, pensa t-elle, et elle le retourna dans ses mains d’un air réfléchi. Ce n’était qu’un verre et pourtant. Pourtant quelque chose de tendu, d’affûté commença à naître dans sa tête. Quelque chose qu’elle ne savait expliquer mais que si elle avait pu l’exprimer par un mot, elle aurait dit: vengeance. Bien sûr ce n’était pas un caprice. Les caprices, elle le savait, provoquaient de la colère, mais ce n’était pas de la colère ce que Lisa ressentait, au contraire: c’était une sensation de calme profond. Et de  joie – la joie qu’on éprouve quand on accomplit un bon devoir. Elle ne se sentait plus seule. Suivant un ordre, elle se pencha au-delà du siège, et avec l’innocence que l’on doit au destin, elle laissa tomber le verre au dessus de la maîtresse.
Malgré ses dix ans, Lisa avait encore besoin de se reposer l’après-midi. Sa mère la secondait avec diligence, elle connaissait la fragilité de sa fille et les migraines qui l’affligeaient et qui avaient tendance à se manifester quand les journées ne suivaient pas leurs cours habituels. Ce jour-là aussi sa mère l’observa manger – toujours plus lentement et paresseusement, désormais envahie par le sommeil. Ça la faisait rire de constater que sa fille avait pris des habitudes proches à celles des vieux. Lisa était une petite vieille, taciturne et grincheuse. À la fin du repas, elle l’accompagna au lit et la laissa seule, après avoir tiré les rideaux pour cacher la lumière du soleil. Comme toujours, Lisa tomba très vite dans un sommeil profond, et rêva. Elle rêva qu’elle descendait une échelle raide et obscure. Au bas de l’échelle, il y avait une cave. Parmi les étagères, des cartons remplis d’objets et de poussière. Au moment d’en attraper un, Lisa sentit ses chevilles se mouillaient. Par terre, près du mur taché de moisissure, un petit aquarium brisé. Entre les bouts de verre et la flaque d’eau, un poisson haletait en détresse. Un poisson de modestes dimensions, aux longues moustaches ruisselantes, qui faisait penser à un poisson-chat, et d’un corps maigre et tordu tel celui d’un hippocampe. Le poisson haletait et souffrait. Lisa était prise par la fureur de le sauver, elle ramassait avec les mains l’eau restée sur le sol essayant de la verser sur le corps de l’animal, mais ses membres se faisaient de plus en plus moux et insensibles. Alors elle se résigna à se pencher sur le poisson et le caressa tandis qu’il mourrait. Lui, la regardait avec des yeux doux. Lisa se mit à pleurer, le poisson en fût désolé. Toi seule pouvais me sauver, semblait-il dire, mais moi je te pardonne.

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