Chi può guardarmi? Lo sguardo e la ferita nel corpo fotografico

di Livia Del Gaudio

© These demons inside, Lulu Withheld

Ad Antonio: che mi vede, che io vedo.

[…] non potevo unirmi alla schiera di quanti (i più) parlano della

Foto-secondo-il-Fotografo.

Io avevo a mia disposizione solo due esperienze:

quella del soggetto guardato e quella del

soggetto guardante”.

ROLAND BARTHES, La camera chiara

“Sono nati.”

“Cosa, scusi?”

“Sono nati, i miei lupi. Sono nati.”

COVACICH, La casa dei lupi.

Giulio

L’automobile è comoda, pulita; non c’è traccia di animali nonostante al telefono Giulio mi abbia detto di avere due cani. Lo osservo mentre programma il navigatore: lo sguardo attento, l’orologio d’acciaio che gli stringe il polso. Gli chiedo il perché del nome del collettivo che ha fondato.

Lui prende il telefono e mi mostra i suoi “lupi”: un pastore tedesco e un cane lupo cecoslovacco. Li guardo rincorrersi su un campo di erba bruciata alla periferia nord di Milano: il pastore tedesco, un maschio grosso e marrone; il cane lupo, una femmina di un grigio lunare, magra e selvatica come il nome della sua razza.

«Quello che mi ha sempre affascinato dei lupi», mi spiega Giulio, «è la gerarchia del branco. Al suo interno ognuno accetta il ruolo che gli è stato attribuito senza sentirsi ingabbiato. È una forma di comunità basata sul consenso».

Gli dico che in linea di massima mi trova d’accordo, ma che dubito si possa applicare agli umani. «Perché?», mi chiede Giulio. «Non è una questione di genere, ma di assunzione di responsabilità. Come in una famiglia».

«Appunto», replico io.

© lundesnombreux

L’automobile parte e rilasso le spalle. Con Giulio sono stata antipatica, penso. Le dinamiche di potere vanno osservate, non negate. E poi mi interessa capire le soluzioni adottate dalla natura.

Do un’occhiata alla borsa che sta tra di noi, quella che contiene le sue macchine fotografiche.

Negli ultimi anni, da quando ha rinunciato a fare della fotografia il suo unico mestiere, Giulio ha incontrato più di duecento persone. Duecento persone di cui ha ascoltato la storia; che ha visto spogliare; le cui forme sono passate attraverso i suoi occhi per diventare scritture di luce1. E tutto solo per continuare un gioco2 che si fonda sull’accumulo di informazioni.

1 La forma stessa della fotografia sembra rappresentare con chiarezza la figura delle nostre contraddizioni. da una parte, la fotografia, spietatamente, risolve il fluire dell'esistere in una successione di cose separate. dall’altra ogni fotografia – questa «scrittura di luce» – rende evidente la forza con cui si manifesta ogni cosa. (Tadini)
2 se osserva il mondo attraverso l’apparecchio, non lo fa perché gli interessa, ma perché è alla ricerca di nuove possibilità di produrre informazioni e sfruttare il programma fotografico. il suo interesse è concentrato sull’apparecchio, e il mondo è per lui soltanto un pretesto per realizzare le possibilità dell’apparecchio. insomma: egli non lavora, non vuole trasformare il mondo, ma è alla ricerca di nuove informazioni. (Flusser)
© Alexander Gonzalez Delgado

Maria

La prima cosa che Maria ha detto, quando a Modena si è unita a noi, è che avrebbe approfittato del viaggio per riposare. Le scatto un paio di foto mentre dorme.

Un tempo, penso, le modelle erano donne del popolo la cui abbronzatura era un problema. Si spogliavano per soldi, assumevano la posizione che veniva loro richiesta, prendevano per qualche ora le sembianze di divinità o muse. Poche di loro erano davvero belle3.

Adesso sono ragazze di estrazione borghese come Maria, che da poco ha iniziato a lavorare come psicoterapeuta e nel frattempo svolge il dottorato. Alcune, postando su OnlyFans le loro foto, ne ricavano uno stipendio; per altre è un modo per divertirsi e conoscere altre persone. Tutte hanno un rapporto con la propria immagine che io non conosco.

Sono mesi che le osservo. Sui social hanno spesso un doppio profilo: uno privato, l’altro dedicato al lavoro. Agli autoscatti e alle immagini catturate attraverso lo specchio, alternano ritratti di fotografi noti su Instagram. Non si tratta di professionisti del settore, e le ragazze non vanno da loro per realizzare un book: è piuttosto un movimento nascosto che si è infiltrato attraverso la maglia del virtuale. I motivi che spingono modelle e fotografi a incontrarsi hanno a che fare con l’analisi, l’autocoscienza, la risoluzione dei traumi. O più semplicemente con l’utilizzo consapevole del corpo. L’immagine è il prodotto finale di un processo non previsto e non prevedibile.

Le ragazze che seguo con più interesse sono quelle legate al mondo BDSM. Non cercano la perfezione, non usano filtri: sanno di essere belle, sanno che durerà poco. Guardano in camera con gli occhi cerchiati di nero; il taglio del collare che separa la testa dal corpo, le braccia graffiate. Un’estetica che mi appartiene, che come loro ho messo a punto durante l’adolescenza.

Ho passato gli anni Novanta, penso, a nascondermi da ogni foto. Avevo otto o nove anni la prima volta che sono fuggita da uno scatto di gruppo. Lo ricordo perché quell’estate ero in campagna. La sera, l’unico passatempo era percorrere in bicicletta la statale deserta che tagliava il paese. Poco dopo l’ultima casa iniziavano le curve; una, la più esposta, finiva dritta nel bosco. Era lì che avevo incontrato una volpe. L’attimo prima che l’animale sparisse e che io mi lanciassi in fuga, avevo visto i suoi occhi. Più che vederli li avevo intuiti. Due schegge brillanti fuoriuscite dal buio. Davanti a me era comparso l’obiettivo della compatta semiautomatica di mia madre, e di quello che vi avevo visto riflesso.

Era quello lo sguardo, erano quelli i miei occhi.

3 La bellezza non fa nulla. non guarda. è guardata (Duras)
© lundesnombreux

Usciamo dall’autostrada. Alla fuga delle macchine lanciate ad alta velocità sull’asfalto, si sostituisce il verde dei prati, la linea delle colline, i recinti degli animali. Dopo il cartello con la scritta Predappio la strada si stringe e le case diventano poche. Nei cespugli si intuiscono buchi e passaggi, la presenza del selvatico che abita i boschi.

Osservo l’immagine di Maria comporsi sullo specchietto retrovisore. La fronte appoggiata al vetro, le labbra pallide, la treccia che le scivola oltre la spalla sinistra. La prima cosa che ha fatto quando mi sono presentata è stata abbracciarmi. Per un istante, prima che le sue dita scivolassero in un gesto leggero – lo stesso che le ho visto fare quando ha spento la sigaretta –, ho sentito le sue mani sulla pelle4.

4 «a proposito di superficie, è vero che lei ha detto o scritto questo: “ciò che vi è di più profondo nell’uomo è la pelle?”» (Valery)
© Uomodelnord

Nel quadro di Édouard Manet che la ritrae, penso, Olympia è distesa sul letto. Il suo corpo nudo occupa tutta la tela. La luce si dipana dal volto, avvolge le spalle, sbianca i capezzoli. I suoi occhi sono un faro puntato all’esterno.

Ma Olympia, come Maria, non mi guarda, i suoi occhi non vedono.

I lupi

Li osservo dall’alto. Con un unico colpo d’occhio prendo il paesaggio5 e le tracce della loro presenza: gli asciugamani stesi sulle rocce, le bottiglie di birra nascoste all’ombra, il margine tra la boscaglia e la pozza d’acqua in cui la cascata si ferma e diventa torrente dove hanno stabilito l’accampamento. Nessuno si è accorto di me. Qualcuno ha già iniziato a scattare; gli altri prendono tempo raccolti in piccoli gruppi, le gambe nude distese al sole.

5 Fin da bambino, le fotografie che mi piacevano maggiormente erano quelle di paesaggio (…). mi affascinavano particolarmente queste fotografie, dove immancabile, immobile, appariva un piccolo uomo sovrastato dalle cascate del niagara, monti, rocce, alberi altissimi, palme grandiose, o sul ciglio di un burrone. questo omino lo trovavo poi nelle cartoline (…). quello dell'omino era uno stato di continua contemplazione del mondo, e la sua presenza nelle immagini conferiva a queste un fascino particolare. (…) quando più tardi ho iniziato a fotografare, ho continuato a guardare le fotografie di paesaggio, ma non ho più trovato l'omino. (…) era sparito; se ne era andato via, aveva portato con sé la rappresentazione dei luoghi e vi aveva lasciato il loro simulacro. (Ghirri)
© Stefania Zucca

I lupi di Patient Wolves hanno nomi da favole: Uomodelnord, lundesnombreux (Giulio), Lulu Withheld, Gio Blonde

Le cascate di Premilcuore scavano un tunnel dentro la valle. Per arrivarci abbiamo percorso un sentiero scosceso dominato da piccoli sassi appuntiti sotto i quali la terra esplodeva sollevata dalle radici degli alberi. Sopra di noi le fronde dei faggi sembravano chiudersi; anche la scala di pietra che ci ha portato fino a questo belvedere era nascosta. Non mi aspettavo di trovare nessuno, e invece qui sono in molti.

Guardo in basso e distinguo Gio che si arrampica tra le rocce. Prima di adesso non l’ho vista che in foto, ma non posso sbagliarmi: i tatuaggi, la pelle abbronzata, i capelli biondi che le incorniciano il viso. Si è già spogliata e risponde a ogni sguardo, aggressiva e fragile come le fate dei boschi. Degli altri non conoscevo l’aspetto ma ora che li ho davanti è come se si ricomponesse la mappa di tutti i mesi che ho passato su Instagram a seguirne le tracce.

Fermo il fotogramma. Ne analizzo la struttura individuandone i fuochi. La prospettiva rende l’occhio umano il centro del mondo visibile, penso, ed è in questo modo che ho imparato a vedere. La prospettiva è una convenzione che l’arte tradizionale mi ha insegnato a chiamare realtà, l’illusione di essere in un unico luogo in un unico tempo.

Ma questa non è la realtà, penso, è un palcoscenico.

© Push Heart I, Lulu Withheld

Osservo la cascata dividersi sulla parete: sulla destra l’acqua si incanala in un unico getto, una fascia spessa e verticale a cui fa da contrappunto l’orizzontalità delle rocce. Sulla sinistra l’altezza di caduta è minore. Ci sono punti vicini alla polla dove i rivoli si trasformano in pelle e una superficie piatta e continua riveste la crosta dura dei sassi. Verso i margini, lì dove ricompare la terra, qualche buca intrappola l’acqua.

Alzo la testa e mi accorgo di Gio. Ha raggiunto la cima, e adesso aspetta immobile di tuffarsi. Stagliato in controluce il suo corpo appare ancora più magro, poco più che la sagoma di una persona il cui sesso si intuisce dai fianchi. Trattengo il respiro. All’improvviso all’immagine di Gio si sostituisce la luce. La guardo saltare.

© Gio Blonde

Essere branco

Trovo il mio posto e mi stendo al sole. Con gli occhi socchiusi osservo il gruppo a cui mi sono unita, di cui faccio parte. Attorno a me, richiamati dall’appello lanciato da Patient Wolvesattraverso i social, si sono riuniti una decina di fotografi. Vengono da diverse parti di Italia e sono qui perché sperano in un cambiamento6.

Su Instagram, mi spiega Lulù – la più schiva e silenziosa del branco –, oscene7 sono le protuberanze e gli orifizi: la censura ha finito per trasformare l’immagine del corpo in una sfera. Il dilagare di stelle e cuoricini a coprire i capezzoli (femminili) è la riprova di un qualcosa che si vuole addomesticato, gentile.

La ricerca fotografica di Lulù non è incentrata sul nudo, lei si occupa dell’immagine come racconto e il suo linguaggio è quello del cinema. Come gli altri, crede nella forza di un’azione comune, in una ribellione silenziosa e attiva capace di liberare lo sguardo.

Mi metto a sedere. Alla presenza del pubblico mi sono abituata, e sempre più spesso sollevo lo sguardo, incrocio altri occhi. Ho l’impressione che si siano abituati alla nostra presenza. Li osservo mentre tornano alle loro abitudini, come se al troppo-vicino della curiosità e dello scandalo si fosse sostituito uno spazio più ampio e disteso.

I più giovani, un gruppo di ventenni che sono qui per passare una domenica al sole, sono i primi ad avvicinarsi. Chiedono di sfogliare la rivista dei “lupi” e non si mostrano intimoriti dal corpo nudo di Gio. Uno di loro, un ragazzo alto dai riccioli scuri, ci racconta che sta studiando a Londra e che lì ha iniziato a interessarsi di fotografia. Marco, l’Uomodelnord, si avvicina e gli offre una birra. Li guardo. C’è un modo particolare in cui stanno vicini. Una prossimità fatta di gesti brevi, di avvicinamenti e distanze che mi ricorda quella degli animali8. Tengono le spalle rilassate, le gambe aperte. Non si guardano se non di sfuggita negli occhi. Sembra una resa. Un modo per dire all’altro: non sei una minaccia, non ti sono ostile.

6 Una politica radicale è impossibile senza la rivitalizzazione della cittadinanza e la ri-politicizzazione della vita, che comincia con modelli educativi, comunicativi, culturali e artistici che incitino, risveglino, ispirino e diano alle persone gli strumenti per agire e realizzare il cambiamento (Best)
7 l’azione decisiva è il denudamento. la nudità si oppone allo stato di chiusura, vale a dire allo stato dell’esistenza discontinua. è uno stato di comunicazione, che rivela la ricerca di una possibile totalità dell’essere al di là del ripiegamento su se stesso. i corpi si aprono alla continuità grazie a quegli organi celati che ci fanno conoscere il sentimento dell’osceno. l’oscenità è lo squilibrio che sconvolge uno stato dei corpi conforme al possesso di sé, al possesso di una individualità solida e duratura. (Bataille)
8 che cos’è l’uomo, se esso è sempre il luogo – e, insieme, il risultato – di divisioni e cesure incessanti? lavorare su queste divisioni, chiedersi in che modo – nell’uomo – l’uomo è stato separato dal non-uomo e l’animale dall’umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani. e, forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche modo, da quella – più oscura – che ci separa dall’animale (Agamben I)
© Stefania Zucca

Censura

La censura è il rifiuto dello sguardo, penso. Un ispessimento di frontiera, un’opacità forzata. Ma aumentando la distanza tra soggetto e oggetto la censura scompare.

Elena

Elena si avvicina e mi chiede se mi va di provare. Mi indica il luogo dove hanno intenzione di scattare le foto. Sciolgo i lacci del pezzo di sopra del mio costume. Do un’ultima occhiata ai miei abiti9 e raggiungo le altre.

Mi stendo sulle rocce. L’idea è quella di realizzare un nudo di gruppo, ripreso dall’alto, secondo l’estetica post-punk degli anni Novanta.

La mia poca familiarità con l’essere fotografata si vede da come mi muovo. A differenza di Maria, io mi ignoro; sono troppo concentrata a rilassarmi, non conosco l’immagine, non so cosa voglia dire entrare dentro una posa10. Nascondo la testa sotto la spalla di Elena e allungo il braccio fino a trovare la sua mano. Sopra di noi Gio controlla l’effetto.

Da dove sono riesco ancora a distinguere il corpo di Era, la quarta modella, da quello di Maria ma faccio fatica a capire di chi siano le dita. Nel primo piano forzato il confine si perde, e la nudità è una questione di tatto, di odore. Mi giro su un fianco, mi rimetto prona. Fatico a trovare una posizione mentre attorno a noi hanno già iniziato a scattare.

9 Dopo alcuni millenni, e forse similmente ai crostacei o alle termiti, gli stessi umani hanno preso l’abitudine di circondarsi di corazze di ogni tipo. gli edifici, gli abiti, le automobili, le immagini e messaggi che continuano a secernere si incollano alla pelle, aderiscono alla carne della loro esistenza, almeno quanto alle ossa del loro scheletro (Guattari)
10 Non appena io mi sento guardato dall’obiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di «posa» mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine. questa trasformazione è attiva: io sento che la fotografia crea o mortifica a piacimento il mio corpo (Barthes)
© Uomodelnord

Io-modella vs. Io-corpo

Penso alla terra. Alla roccia che mi sta sotto e alla mia carne che aderisce alla polvere. Mi concentro sul mio essere solida e ben definita; creatura tra le altre creature, soggetta alla gravità del pianeta. Ma per quanto io faccia, la macchina fotografica mi guarda, e io guardo lei. Anche se ho gli occhi chiusi la mia mente lavora per dare un nome alle cose. Deve esserci un modo, penso, per tenere la complessità senza andare in frantumi.

Mi distrae il braccio di Maria che mi sfiora dal lato estremo della catena. Ne avverto il calore. Il piacere del contatto si rompe dentro qualcosa di freddo. È il mio corpo, penso. L’involucro che ho imparato a controllare, che esercito ogni giorno, di cui conosco ogni battito. Prendo un respiro. È il mio corpo che si oppone, che applica resistenza, che mi impedisce di abbandonarmi alla catena.

© Push Heart II, Lulu Withheld

Nuda11 entro nell’acqua. Il rumore degli scatti mi ricorda che adesso l’obiettivo è vicino. Lo sguardo della macchina si è posato sulla pelle, sulle pieghe e le macchie; sulle parti di me che non mi è dato vedere. Nell’istante in cui comprendo che nessun controllo è possibile, la mia mente smette di pensare. Mi muovo fino a quando non trovo una roccia abbastanza ampia su cui salire. Dietro di me, Maria segue i miei gesti.

11 Il non essere più coperti dalla veste di grazia non rivela l’oscurità della carne e del peccato, ma la luce della conoscibilità. dietro la presunta veste di grazia non vi è nulla dietro di sé, questo essere pura visibilità e presenza, è la nudità. […] la nudità del corpo umano è la sua immagine, cioè il tremito che lo rende riconoscibile, ma che resta, in sé, inafferrabile. di qui il fascino del tutto speciale che le immagini esercitano sulla mente umana. e proprio perché l'immagine non è la cosa; e, tuttavia, in quanto non è che il donarsi della cosa alla conoscenza, il suo spogliarsi dalle vesti che la ricoprono, la nudità non è altro dalla cosa, è la cosa stessa (Agamben II)
© Alexander Gonzalez Delgado

Senza bisogno che nessuno ci dica cosa fare, io e Maria assumiamo la posa. Rivolgo la nuca ai fotografi, e lei si distende sulla mia pancia. Procediamo per piccoli aggiustamenti fino a quando non sentiamo che la posizione è comoda per entrambe e per un istante è tutto qui: due corpi che convergono e si incastrano, che diventano uno.

Chiudo gli occhi.

La ferita è da qualche parte, e io la attraverso.

Mi lascio spaccare.

BIBLIOGRAFIA

AGAMBEN (I), L’APERTO. L’UOMO E L’ANIMALE(2002), BOLLATI BORINGHIERI, 2007, p. 24.

AGAMBEN (II), NUDITÀ, NOTTETEMPO, 2009, p. 91.

BARTHES, LA CAMERA CHIARA. NOTA SULLA FOTOGRAFIA, 1980, EINAUDI, p. 12.

BATAILLE, L’EROTISMO(1957), STUDIO EDITORIALE, 2020

BEST, LIBERAZIONE TOTALE. LA RIVOLUZIONE DEL 21° SECOLO, 2017, ORTICA EDITRICE, p. 179.

COVACICH, LA SPOSA, BOMPIANI, 2014, p. 129.

CURI, LA FORZA DELLO SGUARDO, 2004, BOLLATI BORINGHIERI, p. 17.

DESIDERI (a cura di), LUIGI GHIRRI. L’OMINO SUL CIGLIO DEL BURRONE, 2020, EDIZIONI CLICHY, p. 72.

DURAS, TESTI SEGRETI, 2015, NONOSTANTE EDIZIONI, p. 29.

FLUSSER, PER UNA FILOSOFIA DELLA FOTOGRAFIA, 2006, BRUNO MONDADORI, p. 29.

GUATTARI, ARCHITETTURA DELLA SPARIZIONE, 2013, MIMESIS, p.

TADINI, LA DISTANZA, 1989, EINAUDI, p. 120.

VALERY, L’IDEA FISSA(1933), a cura di V. Magrelli, ADELPHI, 2008, p. 42.

Livia Del Gaudio legge. Scrive. Insieme ad Aurora Dell’Oro ha fondato In allarmata radura.

L’editing è di Fabiana Castellino e Antonio Russo De Vivo.

Patient Wolves: un collettivo come idea di famiglia.

di lundesnobreux

Esistono molti autori là fuori, ce ne sono addirittura di inconsapevoli.

Uso il termine autori perché, se la fotografia è un linguaggio, l’utilizzo consapevole di questo rende il fotografo non più un artigiano che scrive con la luce, ma un vero e proprio autore.

Ho chiesto ad alcuni se volessero co-popolare questo spazio di incontro ed esposizione virtuale e fisico.

Il linguaggio è quello fotografico. Le regole sono le seguenti: consenso, materiale analogico e nessuna autocensura.

Una risposta precisa alla soffocante morsa social contemporanea.

L’intento è quello di risparmiare all’osservatore la pena della coercizione morale e di lasciare libero l’autore di esprimersi.

Perché Patient Wolves.

Dei lupi, escludiamo da subito le capacità predatorie: qui tutti ci muoviamo all’interno del consenso, nostro e altrui.

Le caratteristiche che rendono i lupi un modello ideale di evoluzione è l’organizzazione in famiglie, il peculiare linguaggio che impedisce di agire violenza all’interno del gruppo. I lupi hanno bisogno gli uni degli altri e giocano molto, sia da cuccioli che da adulti.

Altra dote lupesca è la grande pazienza che applicano per raggiungere i propri obiettivi. Una perseveranza silenziosa, costante, assertiva.

Tutto ciò permette al branco di non temere nemmeno il felino più potente ed efferato (la sedicente morale universale: il mono-pensiero che vorrebbe tutti allineati e coperti, facilmente gestibili).

Il lupo singolo è vulnerabile; la famiglia non ha altri predatori naturali. Ci uniamo e comunichiamo perché ci fa stare bene.

lundesnombreux È un lupo grigio. Di lui nessuno ha mai visto un canino esposto, né il pelo irto sulla schiena. È un lupo che predilige il tè caldo e le chiacchiere davanti alla stufa durante l’incontro fotografico. Ama aggirarsi nei pressi dell’acqua, per lui un richiamo atavico. Sembra che talvolta scriva. È stato braccato innumerevoli volte con al polso una F501.

Lulu Withheld Con questa lupa il dinamismo cinematografico riesce a entrare tutto in un singolo negativo da trentacinque millimetri. È una dote istintiva e innata. Ma non di solo film ferisce, bensì anche di stilografica. È radicata nella cultura anni novanta, tanto da averne scritto un romanzo. La visione sul contemporaneo è eroticamente filmica. Dicono colpisca con una Zenit, silenziosamente.

Stefania Zucca Dicono si muova svelta nella sua Berlino. Mai città fu più amata da un lupo né mai fu tanto fotografata. La sua è pura pornografia urbana, tanto provocatoria da rendere inevitabile il coinvolgimento emotivo. Alcuni soggetti, molto fortunati, sono stati condotti nella sua tana. Esistono tracce meravigliose di questi passaggi in polaroid. Sembra sia impossibile separarla dalla sua fedelissima FM2.

Uomodelnord Lupo nordico dal pelo fulvo. Si aggira silenzioso rubando frammenti di realtà, anche dinamici. Come riesca a essere timido e sfrontato a un tempo, rimane un mistero per il branco. Il suo terreno di caccia va dalle metropoli, anche del profondo est, al mare, attraversando alpi e appennini. Vi ci potete imbattere lungo binari dei treni o autostrade dimenticate. Talvolta si ferma per immortalare angoli di quiete.

Alexander Gonzalez Delgado È il lupo senior del gruppo, noto anche come il “maestro”. Poco possiamo aggiungere alla sua opera fotografica. La leggerezza e l’allegria del suo grande cuore di lupo sostengono saldamente la profondità espressiva. La vista delle sue immagini vi strapperà un sorriso, ma solo dopo i vostri incontenibili woooh. Si vocifera che la sua arma da battaglia sia una FTb del ‘71.

Giò Blonde È una lupa selvaggia e indomabile, autentica. Impossibile trattenerla nello stesso luogo più di qualche ora, la sua ricerca la porta a essere in costante movimento e prima o poi, statene certi, metterà anche voi dinanzi al suo specchio. Molti raccontano di essere stati morsi dalla sua Leica mini e di voler ripetere l’esperienza.

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