A cura di Aurora Dell’Oro

© Barbara Cannizzaro
Si dice che non ci sia narratore meno affidabile di quello che dice “io”, eppure a volte si ha il sospetto che sia, in fondo, quello più onesto: il lettore sa che forse le cose sono andate diversamente da come sono scritte e il personaggio prende la parola senza aspettarsi che tutti gli credano. Allora è libero di riscrivere gli eventi un po’ come gli pare, di mescolare quello che sa con quello in cui crede, di confondere quello che gli è capitato con quello che altri hanno vissuto.
Diversi, tra i nostri autori, raccontano attraverso la lente dell’ “io”. Ognuno di loro, tuttavia, ha scelto di percorrere strade differenti, che non necessariamente (non solo) sono ascrivibili alla pratica dell’autofiction: talvolta è un io che si appiglia a un ricordo letterario per rendere l’assurdo più sopportabile; talaltra è un io la cui identità storica nulla ha a che fare con chi impugna la penna. Ora lo sguardo di chi racconta è fermo su un tu che vuole richiamare a sé, ed è nello spazio della relazione che si lascia, a sua volta, guardare; ora la storia è quella di chi entra nel tempo “secondo” di uno s-paesamento.
Procediamo, dunque, con ordine: Stefano Valenti, in La mia lunga notte con gli zombie, ripercorre i giorni di isolamento a cui ci ha costretto il primo lockdown come se il romanzo di Richard Matheson, Io sono leggenda, fosse diventato improvvisamente realtà; in Essere Tatjana von Mossig, invece, Valentina Durante prende in prestito la voce di una quattordicenne che frequenta la casa di Egon Schiele e ne causa l’arresto. E scrivere le vite, a chi importa? Un esercizio di biografia di Silvia Tebaldi è un ritorno alla Bologna degli anni Ottanta, alla Bologna del dopo attentato, a un incontro che si smembra nel frattale della memoria. Infine, Jacopo Verworner e Alexandrina Scoferta, rispettivamente con Mio padre, la Svizzera e il seppuku di Mishima Yukio e Impossibile da muovere. Le (im)possibilità del linguaggio tra verità e menzogna, raccontano ciò che accade (ciò che può osservare) a chi cambia paese: Verworner lo fa da lontano, attraverso la mediazione della vicenda paterna; Scoferta si riveste della pelle di chi deve piegare bocca e lingua per pronunciare le parole di una lingua straniera.
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