di Mauro Maraschi

© Giudizio, Vittorio Ruglioni, 1978
Fin da bambino ho avuto difficoltà a manifestare la rabbia. Con il senno di un quarantaquattrenne, direi che la spiegazione più immediata coincide con quella più convincente e onesta: insicuro in quanto debole, avevo paura dello scontro fisico. Ricordo soltanto quattro occasioni nelle quali ho superato l’argine, sempre più del dovuto: la prima a sette anni, quando ho aggredito uno zio che aveva abbracciato mia madre; la seconda a quattordici, per difendere mia sorella da un gruppo di bulletti; la terza a ventuno, quando ho sfondato una porta per gelosia; l’ultima a ventotto, quando ho dato di matto, davanti a mio padre, sfogando su un beota, per questioni di parcheggio, tutta la frustrazione accumulata fin lì. Dopo quest’ultimo episodio ho preso atto del problema e decretato che, non sapendo gestire l’aggressività, era meglio rimuoverla dal mio vocabolario emotivo, anche perché nel frattempo era subentrato il timore di morire per mano sbagliata o di infarto1. Ho lavorato su me stesso per trasformare in vantaggi i miei limiti attitudinali, cercandone archetipi letterari nobilitanti (Dostoevskij) e spacciando per stoicismo la mia remissività. Indifferente ai risultati, a furia di portare avanti questa pantomima mi sono artefatto: negli anni la scorza è cresciuta fino a sopprimere il nucleo e io mi sono ritrovato a intellettualizzare tutto e troppo: ancora oggi mi sforzo più del dovuto di capire le ragioni degli altri, parteggio per loro contro me stesso, relativizzo, contestualizzo, giustifico – faccio tutto tranne che ascoltare il ferino interiore. Di fronte a un sopruso, prima di reagire, mi ripeto: «Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre2». Mi sembra di essere l’unico a considerare che, quando ci scontriamo con uno sconosciuto, nella maggioranza dei casi, non facciamo che sfogare su di lui i nostri problemi personali. Non possiamo prendercela con il settimo automobilista che non ci agevola l’uscita dal parcheggio, non possiamo insultare qualcuno nel traffico, perché potrebbe essere la prima volta in vita sua che dimentica di mettere la freccia; e così via. Faccio questi stessi esempi da vent’anni, non ho mai convinto nessuno, eppure non ho dubbi: ci sfoghiamo sempre sulla persona sbagliata. «Arrabbiarsi è facile, alla portata di tutti» dice Aristotele, «ma capire con chi arrabbiarsi, e in quale misura, e quando, e con quali toni, questo non è né facile né alla portata di tutti3». Tant’è che non ci riesce nessuno: chiunque vede in sé stesso l’esempio del cittadino eccellente, ma poi, in virtù di questa eccellenza auto-decretata e infondata, è sempre pronto ad aggredire il prossimo, a trattarlo come una comparsa, a pensare che gli altri esistano soltanto per irritarci. Da un lato provo pena per i passionali, tutti così propensi a perorare le proprie cause e a ridicolizzare quelle altrui, ma la verità è che li invidio, e che per anni ho sognato di porre fine alla mia ulcerosa repressione della rabbia.
Soltanto di recente, da quando soffro di acufene, ho trovato in questa lieve invalidità il pretesto ideale per essere anch’io irragionevole. Ho assaporato il piacere del conflitto. Anzi, a essere onesti, è da un po’ che litigo con chiunque, alla prima scortesia. Con gli amici sono diventato intransigente. Sia chiaro, il mio perdere le staffe è quello di una persona mansueta, che non riconosce vantaggi al litigio, per il semplice fatto che «darsi spiegazioni significa ammettere di non capirsi4»; ma è proprio per questo che, per la prima volta in vita mia, ho cominciato a chiudere rapporti. Ho preso a manifestare una certa aggressività anche sui social, e devo dire che trovo piacevole, ingiusto ma liberatorio, essere irragionevoli, una cosa che avevo sempre biasimato e che adesso mi fa dormire più sereno, tant’è che sto ponderando, in modo quasi ossessivo, di estendere questo superpotere anche a quello che scrivo, pur non sapendo se riuscirò mai a portare a termine un secondo romanzo.
1 In ambito psichiatrico, e quindi nella sua forma patologica, questa incapacità di gestire l’aggressività è stata in passato denominata “Sindrome di Lermontov e Galois”, dai cognomi di uno scrittore russo e di un matematico francese morti con dinamiche simili ma per motivi opposti: il primo, passionale, sfidò un rivale a duello pur non sapendo maneggiare una rivoltella, destinandosi così a morte certa; il secondo, serafico, nel timore di non sopravvivere a un duello, trascorse la notte precedente a esaminare e riordinare i propri carteggi per i posteri, presentandosi all’alba, davanti all’avversario, ancora mezzo addormentato, e consegnandosi così a morte certa. Vedi DSM-IV (1994), oppure: Eugenio Ferrari, Fattori biologici dell’aggressività, Vita e pensiero, Milano, 1967; Louis Millet, L’aggressività, Edizioni dehoniane, Bologna, 1973; Franco Marini, Agonismo e aggressività: ansia, agonismo e direzione dell’aggressività, Le Volpi, Cagliari, 1991. 2 Attribuito a Platone, a Robin Williams e più di recente al regista Carlo Mazzacurati, l’aforisma è del reverendo scozzese John Wilson (1850-1907). 3 Aristotele, Etica Nicomachea, trad. di Carlo Natali, Laterza, Roma-Bari, 2005, II, 1108b, 9, pp. 73-75.

© Deposizione, Vittorio Ruglioni, 1978
Ora, mi capita spesso che mi chiedano perché sono tanto fissato con Thomas Bernhard. Io non sono fissato con Thomas Bernhard. Non è il mio scrittore preferito, non ho uno scrittore preferito – è già ridicolo avere delle cose preferite, figuriamoci uno scrittore preferito. Negli ultimi anni mi sono sempre più interessato a Bernhard soltanto perché è l’unico autore del quale ho letto tutto, e questa documentazione mi permette di parlarne con una minima cognizione di causa. Di lui ho letto tutto non per fanatismo, ma perché lo reputavo doveroso nella prospettiva di scriverne. Non che lo abbia scelto a caso: quella intrapresa da Bernhard è a mio parere una delle strade più interessanti per la letteratura futura, e va compresa fino in fondo sia per scongiurare l’epigonismo, sia perché è imbastita su espedienti narratologici che, adottati in modo più diffuso, potrebbero debellare una serie di modalità obsolete ancora imperanti nel romanzo moderno. Insomma, mi occupo di Bernhard perché non mi resta abbastanza tempo per conoscere un altro autore quanto conosco lui, per cui, al fine di ottenere risultati degni di nota, ho trovato necessario circoscrivere il più possibile il campo d’indagine. Ma se, come già detto, da anni mi chiedono perché sono fissato con Bernhard, nonostante io non sia affatto fissato con Bernhard, soltanto alla soglia dei quarantacinque mi è stato chiesto se il mio interesse per Bernhard non derivasse magari dal desiderio di far mia la sua furia distruttiva. Un’ipotesi riduttiva, quasi offensiva, eppure, pensandoci bene, e volendo essere onesti, un’ipotesi molto vicina alla realtà, o quantomeno a un aspetto rilevante della realtà.
Chiediamoci, però, qual è la natura della “furia distruttiva” di Bernhard. Ci sono romanzieri che possono far parlare in prima persona un antieroe sgradevole ma poi, su un palco, propongono un personaggio pubblico savio, progressista e a conti fatti “buono”; ce ne sono altri, mettiamo Céline e Houellebecq, che incarnano l’idea popolare dello scrittore politicamente scorretto, cinico, un “uomo schifoso”. Bernhard si pone a metà: è urticante nella forma e per via del suo anti-vitalismo, ma è animato da un disperato idealismo; è stato maestro della polemica, e c’è motivo di immaginare che fosse una persona difficile anche in privato5, ma non ha mai veicolato messaggi moralmente ambigui. Il problema, con Bernhard, è che nel suo caso scindere tra privato e pubblico si rivela impossibile: da un lato, per quanto non abbia lesinato esternazioni pubbliche al vetriolo, quando parliamo della sua “furia distruttiva” ci riferiamo comunque in buona parte ai monologhi dei suoi personaggi; dall’altro lui stesso ha sempre alimentato questa sovrapposizione, esprimendosi anche nelle interviste con toni, registro e affermazioni simili a quelli dei suoi personaggi, con il risultato che critica e pubblico non hanno mai fatto questa gran distinzione tra i vari enunciatori. Ma Bernhard recita, sempre. Persino il narratore protagonista della cosiddetta Autobiografia non è che una dramatis persona, e in tal senso la cosiddetta Autobiografia, colma com’è di mistificazioni intenzionali, si può considerare in qualche misura autofiction6. Insomma: nel corso della sua carriera, al fine di tenere gli esseri umani a debita distanza, Bernhard si è trincerato dietro a un personaggio pubblico, forgiato nello stesso calco dei suoi personaggi, il cui intimo è a conti fatti inconoscibile. Non è quindi facile stabilire da dove arrivi l’odio veicolato da questa bestia policefala a cavallo tra realtà e finzione.
4 Henry David Thoreau, Io cammino da solo, Journal 1837-1861, Piano B Edizioni, Prato, 2020, 17 dicembre 1851, p. 177. 5 Si vedano la corrispondenza con Unseld (Der Briefwechsel, Suhrkamp, 2010) e il volume Un anno con Thomas Bernhard. Il diario segreto (Ein Jahr mit Thomas Bernhard: Das versiegelte Tagebuch, Residenz Verlag, Salzburg-Wien, 2000; L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2011) di Karl I. Hennetmair. 6 Ho chiesto a Philippe Lejeune, massima autorità nel campo dell’autobiografia, se ci fossero gli estremi per considerare la cosiddetta Autobiografia una forma di autofiction, ma Lejeune ha eluso la domanda in evidente imbarazzo. Si ricordi però che il compianto Luigi Reitani ha dedicato buona parte della sua prefazione al volume unico dell’Autobiografia proprio alla dimostrazione che non si tratta di una autobiografia affidabile, e che anche i curatori della Werke, Huber e Manfred Mittermayer, hanno trovato necessario chiarirlo fin dalla quarta del decimo volume, quello appunto dedicato alla pentalogia autobiografica: «Da tenere a mente: i lettori si aspetteranno che questi testi facciano luce sul “vero” Thomas Bernhard. Ma i suoi libri autobiografici vanno considerati più opere letterarie che documenti sulla sua vita». Vedi Luigi Reitani, Nell’attimo decisivo, in Autobiografia (Adelphi, Milano, 2011); e Werke 10 (Suhrkamp, 2011: «Zur Erinnerung: Die Leser erwarten von diesen Texten Aufschluß über den “wahren” Thomas Bernhard. Doch die autobiographischen Bücher sind weniger Dokumente seines Lebens, sondern vollendete Literatur»).

© Pazzia, Vittorio Ruglioni, 1978
Ora, concediamoci un esercizio di biografismo. Per quanto ne sappiamo, Thomas Bernhard ha avuto un’esistenza infausta. Figlio illegittimo, non riconosciuto dal padre, distanziato dalla madre; educato al macabro da una nonna appassionata di cimiteri; cresciuto tra le macerie e i cadaveri di una Salisburgo bombardata; succube prima del direttore di un collegio e poi di un clericale, illusosi di aver trovato sé stesso per un paio d’anni, grazie a un lavoro da garzone, prima di ammalarsi e intraprendere un peggioramento continuo, dalla polmonite alla pleurite e poi alla tisi e infine alla sarcoidosi che l’avrebbe ucciso a cinquantotto anni, Thomas Bernhard ha intrapreso la sua esistenza adulta, dai ventuno in poi, all’ombra di un cospicuo credito con il creatore. Da quel momento, complici il supporto di un’amica e una carriera inarrestabile, e nonostante avesse presto raggiunto una stabilità appagante in termini di status e finanze, Bernhard non ha mai riposto le armi di una battaglia personale contro quasi ogni cosa, dal perbenismo alle pose intellettuali, dagli automatismi borghesi alla miseria delle masse. È vero, il suo capro espiatorio prediletto è stata quell’Infelix Austria colpevole di ogni reato civile e politico immaginabile: «il furore feroce e beffardo dei romanzi di Bernhard si esercita contro tutto ciò che ha a che fare con l’Austria, dalle istituzioni governative ai conservatori musicali di Vienna e Salisburgo […] fino alla Sacher Torte7»; persino il suo humour nero, elaborato attraverso “l’arte dell’esagerazione” (Übertreibungskünste), «nasce da un sentimento di amore e odio nei confronti dell’Austria8»; e nel suo ultimo romanzo, Estinzione (1986), Bernhard tocca l’apice definendo l’Austria «cloaca (o bordello) dell’Europa, teatro di ottusità, cimitero della cultura seminato di rifiuti, Paese gretto, soffocante, perverso9». Ma nell’apparente adesione al filone della Anti-Heimat-Literatur, Bernhard ha soltanto trovato un modo eccellente per perpetrare un attacco alla vita stessa: in tal senso le sue bordate antipatriottiche possono essere considerate alla pari di contenitori vuoti, come osserva Latini in linea con Schmidt-Dengler: «La vera questione in Bernhard, il suo motivo di fondo, non è l’Austria (amata e odiata) bensì […] il complesso dell’origine10». L’equazione è semplice: la nascita è la causa/origine (Ursache) dell’infelicità umana11, il suolo natio consente la nascita, ergo la patria è responsabile dell’infelicità. Però attenzione, anche se il pubblico tende a immaginare un simile autore come “una persona infelice”, è impossibile stabilire in che proporzione l’infelicità da lui rappresentata rispecchi un sentire privato o sia piuttosto “soltanto” un tema.
In generale, l’analisi critica di un corpus letterario può tenere conto in diverse misure, o in nessuna, del modo in cui la biografia dell’autore ha influito su forme e contenuti: a un estremo troviamo una critica asettica, quella puramente intratestuale auspicata dai formalisti russi e da Croce; all’altro il biografismo nella sua accezione peggiore (Marie Bonaparte che riduce il genio di Poe a una disfunzione erettile). Io sono per il compromesso: tengo conto della dimensione biografica, dell’età in cui ogni opera è stata scritta e della possibilità di rinnegare un’affermazione, ma rimango anche convinto che le opere compiute siano quelle apprezzabili e comprensibili al netto di qualsiasi paratesto. Certo, sapere che Dazai si è tolto la vita instrada la mia lettura dello Squalificato; scoprire che Hedayat era un’oppiomane dà un altro sapore alla sua Civetta cieca. È difficile, se non impossibile, dimenticare ciò che sappiamo della sfera personale di un autore: anzi, la storia della circolazione e della ricezione della letteratura è articolata sulla costruzione di una mitologia, di una versione più frivola di quella che Foucault chiama funzione-autore12: una vita tormentata, qualche gossip, droghe e amori, un bel suicidio, tutto fa brodo, ed ecco che il dolore vissuto incendia le pagine quanto più maliziosi sono i lettori che le sfogliano. Anche per questo stento a fidarmi del dolore rappresentato dagli scrittori contemporanei, troppo spesso inclini a strumentalizzare i drammi altrui pur di porsi come cantori del bene attraverso l’esorcismo del male. Al dolore rappresentato da Bernhard mi abbandono invece con facilità, sia per via dell’incelato egocentrismo e dell’assenza di intenti salvifici, ma anche e soprattutto in virtù del talento tecnico: è la qualità dell’arte a legittimare quella rappresentazione del dolore che in mano ad altri dà spesso vita a melodrammi consolatori, ed è per questo che l’aggressività di Bernhard può essere ricondotta soltanto in minima parte al suo vissuto.
7 Micaela Latini, Estinzione e violenza. Il carattere distruttivo nell’opera di Thomas Bernhard, in Aggressività. Un’indagine polifonica, Mimesis, Milano, 2011, p. 37. 8 Ivi, p. 36 9 Ivi, p. 37 10 Ivi, p. 38. 11 È il precetto base di un antinatalismo che Bernhard non ha mai formalizzato (a differenza di un Ligotti), se non in un passaggio narrativo de L’origine, ma che ne permea comunque l’opera tutta.

© La caduta, Vittorio Ruglioni, 1978
L’invettiva, in Bernhard, è innanzitutto uno strumento tecnico, «una delle armi della grande retorica barocca13», per dirla con Reitani, l’arma brandita dai suoi personaggi nel disperato tentativo di «esistere contro i fatti», ovvero «contro ciò che è insopportabile14». E, nell’universo narrativo di Bernhard, insopportabile è ogni cosa umana, dal momento che «la verità non è assolutamente comunicabile15», «farsi capire è impossibile16» e «ognuno è un incubo abbandonato a sé stesso17». Una sofferenza quindi semiotica e sociale, ancor prima che politica, e per la quale si rende necessario uno scudo. Latini ricorre alla stessa metafora: «la parola rappresenta in Bernhard l’arma di difesa che i suoi personaggi usano per arginare la violenza del mondo18». A monte della parola, però, c’è un’incessante produzione di pensiero che può diventare invalidante: «Attraverso un esercizio che consiste di freddezza intellettuale e di spietatezza, il pensiero milita contro i fatti, […] perché disarticolandoli sottrae ad essi quell’univocità che costituisce il peso insostenibile e terribile dell’esistenza per l’uomo19». Pertanto, maggiore è la freddezza intellettuale, maggiore la spietatezza, più tagliente sarà la reificazione del pensiero e più efficaci saranno i colpi inferti dalla parola, pur concepiti in quanto legittima difesa. A complicare le cose, come già detto, è il fatto che questo registro Bernhard l’ha sempre adottato anche nelle dichiarazioni pubbliche, in quei casi però accanendosi sull’Austria, oltre che per la sua valenza simbolica, anche e soprattutto in cerca dello scandalo: Bernhard non ha mai nascosto di amare la provocazione, facendo perno proprio sui controversi rapporti con i connazionali. Qualcuno sostiene addirittura che si sia mosso fin dall’inizio nell’ottica di una capitalizzazione mediatica di tale approccio20, e anche Latini, con maggiore prudenza, sottolinea che Bernhard si è imposto all’attenzione del grande pubblico non soltanto per l’opera, ma anche perché «i suoi frequenti interventi pubblici […] presentano come unico obiettivo la provocazione21», tanto da lasciar intravedere un disegno programmatico.
Ora, se rinneghiamo in toto la pratica diffusa di attribuire a un autore tutto ciò che hanno affermato i suoi personaggi per il solo fatto che “gli somigliano”, e ci limitiamo a ciò che ha dichiarato Bernhard “a nome suo”, troveremo una risposta inequivocabile in un’intervista del 1986 alla fidata Krista Fleischmann: «La mia arma è la parola scritta, non quella parlata22». Ovvero: lo spettacolo portato in scena in pubblico, pur ricordando quello dei suoi personaggi, ne è una caricatura, è subordinato alla drammaturgia. E anche la sovrapponibilità tra Bernhard e i suoi personaggi, di gran lunga superiore alla media, non è che il risultato di un progetto artistico. Lui stesso ha spiegato che, nel suo caso, lo scrittore e il personaggio privato «confluiscono, come si dice elegantemente, in una unità; da quando ci sono scrittori e critici si è sempre letto: “Arte e persona devono essere un’unità”, perché altrimenti non sono nulla. A questo mi sono sempre attenuto23». Ecco perché, se già in generale l’intimo di un autore è inconoscibile, e per forza di cose l’autobiografia di uno scrittore è finzione24, tutto ciò si applica in particolar modo a Bernhard, uno che ha sempre sfruttato a suo vantaggio, per fini artistici, visibilità e riservatezza, la difficoltà di critica e pubblico di scinderlo dai suoi alter ego. Forse, in un’era remota del suo percorso esistenziale, qualcosa gli ha davvero indotto uno scollamento dalla realtà, una effettiva percezione dell’incomunicabilità, una solitudine fattuale, ma queste esperienze personali non esistono più, sono state assorbite e verbalizzate da personaggi immaginari, e ritorte contro un mulino a vento, l’Austria, non in quanto grido indiretto dell’autore, ma nell’ottica di uno specifico percorso artistico.
12 Michel Foucault, «Che cos’è un autore?», in Scritti letterari, trad. di Cesare Milanese, Feltrinelli, Milano, 1971, 2021. 13 Luigi Reitani, Cronaca di un congedo. «Estinzione» di Thomas Bernhard, Studia austriaca VIII, 2000, pp. 37-49. 14 Thomas Bernhard, Camminare, Adelphi, Milano, 2020, p.15: «Gegen die Tatsachen existieren, heißt, gegen das Unerträgliche und gegen das Entsetzliche existieren, sagt Oehler». 15 Thomas Bernhard, La cantina, Adelphi, Milano, 1994, p.36. 16 Thomas Bernhard, Perturbamento, Adelphi, Milano, 1995, p.33. 17 Thomas Bernhard, La cantina, cit., p. 120. 18 Micaela Latini, Estinzione e violenza, cit., p.37. 19 Aldo Giorgio Gargani, La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Laterza, Roma-Bari, 1990, pp.13-14. 20 Non ricordo chi. Ritroverò la fonte. Abbiate pazienza. Soffro di acufene. 21 Micaela Latini, Estinzione e violenza, cit., p. 36. 22 Thomas Bernhard: un incontro. Conversazioni con Krista Fleischmann, SE, Milano, 2003, p.143. 23 Thomas Bernhard: un incontro, cit., p.130. 24 Andrea Cortellessa, Giorgio Vasta. Un fantasma in piena luce, Le parole e le cose, 2022. https://www.leparoleelecose.it/?p=44984

© Prigioniero, Vittorio Ruglioni, 1978
Ora, tornando a un approccio critico, come il mio, che pur tenendosi lontano dal biografismo riconosce una valenza all’autenticità del dolore letterario, mi chiedo: che motivi avrei, io, per essere aggressivo nella vita o nei miei scritti? Se metto a confronto la mia esistenza a quella di Bernhard, all’improvviso l’inferno in cui vivo mi sembra sopportabile a fronte di quarant’anni di gioia, emozioni, amicizie, amori, viaggi e soddisfazioni. È vero, sono sempre stato fosco, malinconico, ritirato, insoddisfatto, miserable, ma si tratta comunque di un’agevole condanna, di un male minore, un maledettismo di comodo, considerato che, per contro, non ho ancora avuto nessun motivo davvero valido per sprofondare nella depressione, nessuna malattia davvero grave, nessun abbandono davvero grave, nessun lutto davvero grave. E anche Bernhard, in fin dei conti, nonostante una vita infausta, non lo immagino chiuso in una stanza come un “vero” pazzo: nella sua disgrazia, e nonostante il caratteraccio, anche lui si è divertito, a modo suo, rideva rileggendosi, si faceva fotografare in pose buffe – con pantaloncini bavaresi, con un cubo di ghiaccio in testa – e a certi eventi privati portava in scena vere e proprie pantomime incentrate sull’umorismo nero. In più, aveva affinato quest’altra arte, interconnessa a quella dell’esagerazione, l’arte dell’invettiva, e che piacere doveva essere per lui svegliarsi la mattina, di pessimo umore, i polmoni che fischiano come nella Montagna incantata, lo spettro di una morte precoce che ti insegue da sempre, e comunque sghignazzare allo specchio all’idea che, da lì a poco, potrai annientare chi vuoi tra le pagine dei tuoi scritti. Ma anche sul piano artistico, io, con chi potrei prendermela? Con l’editoria, che in quattordici anni mi ha dato meno di quanto mi aspettassi? Beh, in effetti sì. Con una patria ben più volgare dell’Austria, e non meno colpevole di atrocità storiche? Già, anche quello. Con la massa obnubilata che foraggia il mainstream da cui si fa mungere? Direi di sì. A differenza di Bernhard non avrei nulla da rimproverare alla mia famiglia, ma avrei da rimproverare a me stesso in quanto genitore, e alla provincialità italiana per le pressioni sociali che comporta riguardo alla procreazione e alla libertà di vivere al di fuori della cultura di regime. Insomma, a pensarci bene, i bersagli non mancano. Finora è mancata piuttosto la capacità di immaginare un tornaconto. Ma così come ho appena cominciato a provare piacere a rispondere per le rime, con buone probabilità questa strada mai percorsa può riservare piacevoli sorprese.Per cui a quella persona che ha ipotizzato che l’aggressività di Bernhard fosse uno dei motivi del mio interesse per Bernhard, io adesso risponderei di sì. Un mese prima di scrivere questo pezzo avrei risposto di no. Adesso, invece, adesso che la mia esistenza è annichilita, adesso che vivo in una condizione da eremita urbano che ho sempre sognato, quale condizione ideale per la scrittura, e che però non riesco a sfruttare in alcun modo, adesso che la rabbia repressa per quarantaquattro anni è arrivata all’apice, e ho finalmente cominciato a litigare e a chiudere rapporti, adesso sì, risponderei a quella persona che se mi sono avvicinato a Thomas Bernhard, quattordici anni fa, deve essere stato anche per questo, perché leggendo Thomas Bernhard io, per qualche ora, ero Thomas Bernhard, “un uomo infelice” che aveva trovato un modo sublime per esercitare l’odio (reale? finzionale? che importa?), e questa cosa deve avermi fatto bene, tanto da spingermi a leggere altro Bernhard e a scoprirne man mano le qualità tecniche, in un circolo virtuoso, più leggevo Bernhard in cerca del mio piacere perverso più lo comprendevo a fondo, a tal punto che più volte ho immaginato di poter diventare il massimo conoscitore italiano di Bernhard, una cosa in realtà impossibile per il solo fatto che non sono e sarò mai un germanista, e da continuare a immaginarlo nonostante questa consapevolezza: per quattordici anni sono andato avanti a testa bassa, inseguendo ciecamente la mia idea, avendola invero soltanto intuita, ma comunque inseguendola, acquistando e leggendo tutto ciò che Bernhard abbia mai scritto, tutto ciò che sia stato scritto su Bernhard, e in tutte le lingue che riesco a leggere, ma anche gli articoli, e i saggi, e tutte le recensioni italiane dall’82 in poi, e tutto questo – non soltanto ma in buona parte – perché da chissà quanto covavo il desiderio di mandare tutti a crepare, una cosa che ho cominciato a fare soltanto quattordici anni dopo l’inizio di questo processo, per il momento a bassa voce e in modo per così dire invisibile, ma che conto di trasformare in arte, prima o poi, un’arte da attuare con il maggiore clamore possibile, nero su bianco, e in modo definitivo.
Editing di Livia Del Gaudio
Mauro Maraschi (Palermo, 1978) è traduttore e redattore editoriale. È stato editor della narrativa di Hacca, per la quale ha curato l’antologia ESC (2013). Ha tradotto, tra gli altri, Complex TV di Jason Mittell (minimum fax, 2017), Masscult e Midcult di Dwight Macdonald (Piano B, 2018) e Il codice delle creature estinte di E.B. Hudspeth (Moscabianca, 2019). Ha curato la selezione dei diari di Henry David Thoreau intitolata Io cammino da solo. Journal 1837-1861 (Piano B, 2020) e, insieme a Micaela Latini, Una conversazione notturna (Portatori d’acqua, 2020), trascrizione di un’intervista del 1977 al suo amato Thomas Bernhard. Collabora con riviste e blog di ambito letterario, tra cui «L’indice dei Libri del Mese».





Ghiaccio e pietra/ ruvida scorza/ di uomini senza pietà/ occhi lampeggianti/ eppoi spenti/ in un nero opaco inferno./ Laggiù due lame azzurre come ghiaccio/ tagliano la nebbia e colpiscono/ trafiggendola la mia anima./ Questi uomini duri/ bramosi di ricordare e dimenticare/ un passato e un futuro/ che sovrasta/ come un limpido cielo turchino/ sul campo di grano maturo…/ Onde lunghe come ombre della sera/ cancellano i pensieri/ che rinascono/ perché il mare/ continui a vivere nel suo moto./ Ma cosa ho fatto per nascere uomo?
(Vittorio Ruglioni – 1978)
La visionarietà di questo artista è impressa tanto nel medium pittorico, quanto in quello poetico. La sua ricerca artistica è volta alla rappresentazione dell’umana vicenda esistenziale per accentuazione dei suoi aspetti drammatici, se non grotteschi, delle sue fragilità, come del suo sacrificio, per esposizione al violento divenire della realtà che passa irrimediabilmente per i corpi. Ruglioni ha amato esprimersi pittoricamente per serie e cicli come, ad esempio, Prigionieri, All’ombra delle fanciulle in fiore, Travestiti, Casse-pipe, nei quali i recuperi letterari, come quelli proustiani, pasoliniani e celiniani dialogano con le aspirazioni del suo campo stilistico. Vicino al movimento dei neo-figurativi, non smette mai di interrogarsi sulla forma, sul gesto artistico, sui limiti della dimensione rappresentativa, attraverso una oscura partecipazione emotiva che rende possibile una folgorante resa espressiva. Al centro, la figurazione umana, incisa, graffiata per impronte, ombre, calchi, come rimandi a una realtà altra rispetto a quella visibile, della quale nella pittura si conserva appena l’intelaiatura che già vacilla quando si leggono i titoli delle opere, come Rappresentazione, Recita, Teatro, Interrogatorio che rivelano la messa in scena delle vite nei suoi figuranti di cui Ruglioni riesce a catturare vuoti, paure, nevrosi, nostalgie, dolori, illusioni.
L’uso del colore varia: dalle illuminazioni tra i grigi, quando i segni sono accessi parossistici come nelle opere, Pazzia, Amore, quasi una pietà, Deposizione, La caduta, a colori più accessi, ma non per questo dalla profondità meno angosciante. A volte una pennellata accelerata e un cromatismo violento rendono la disperazione di reclusi ed emarginati che si presentano sempre a cavità orale spalancata e buia, ripresa dall’ovale degli occhi, spesso a volti schermati da grandi mani in evidenza; a volte le figure umane occupano tutta la tela, altre volte non possono che ridursi e disporsi in uno spazio che sovrasta e li vincola a un piano metafisico, a un retromondo.
«È una questione molto intricata e difficile sapere perché una pittura colpisca direttamente il sistema nervoso» e, osservando i lavori di Ruglioni, non resta che essere d’accordo con Francis Bacon.
Maria Teresa Rovitto
Vittorio Ruglioni (1936-2003), nato in provincia di Arezzo, è cresciuto a Conegliano, in provincia di Treviso. Si è laureato a Bologna in Medicina Veterinaria. Nel 1965 si trasferisce in Svizzera, a Chiasso, dove resta fino al 1973. Frequenta l’ambiente artistico comasco e milanese. Trasferitosi poi a Venezia si è dedicato a innovative ricerche in campo pittorico. Contemporaneamente frequenta la facoltà di filosofia e fa tutti gli esami, ma non discuterà mai la tesi, per contestazione.